Il cartellone del Bergamo Musica Festival 2011 è stato inaugurato con un titolo tanto raro quanto affascinante, ripescato dall’ampia produzione di Gaetano Donizetti: Gemma di Vergy, tragedia lirica in due atti. Tratta dalla tragedia in versi di Alexandre Dumas padre, Charles VII chez ses grands vassaux, la vicenda non è niente di estremamente complesso. Il soggetto si sintetizza nel clichè della donna abbandonata dall’amato, decisamente ricorrente nella storia del melodramma, di cui potremmo citare Medea o Norma come casi più eclatanti. In queste due opere esemplari, in cui la protagonista viene posta in netto rilievo rispetto a personaggi e vicende che le ruotano attorno, ci si apre una finestra sull’interiorità dell’eroina, che sempre vediamo agire, o anche semplicemente pensare, in modo da seguire le oscillazioni che la portano da un sentimento d’amore mai spento per l’uomo traditore ad un sentimento d’odio per lui e per la nuova fiamma dello stesso. Gemma si trova esattamente nella medesima situazione. Tutto questo viene descritto magistralmente dalla creazione musicale di Donizetti, variabile e multiforme così da potersi adattare ad ogni diversa sfumatura della protagonista. Il compositore bergamasco dà forma ad una partitura ricca di pagine memorabili e toccanti, di cui forse la punta più alta è il concertato che chiude il primo atto, che già di per sé può vantare un’eleganza tale da farci chiedere come mai venga rappresentata così di rado un’opera tanto bella.
Per il programma del Festival di quest’anno è stato scelto come argomento il 150° anniversario dell’Unità d’Italia e, nonostante la stagione non si sia aperta banalmente con un dramma di Giuseppe Verdi, compositore patriota per eccellenza, non possiamo certo dire di andare fuori tema con la nostra Gemma. Andata in scena per la prima volta nel 1834 alla Scala, non è un caso se l’opera apparve per la prima volta sulla scena bergamasca ventisette anni dopo all’interno di una stagione che comprendeva al suo interno, appunto, proprio due titoli verdiani: I due foscari e I masnadieri. In essa ritroviamo infatti richiami risorgimentali, in particolar modo nella figura di Tamas, lo schiavo moro ansioso di riconquistare la libertà perduta. Una nota curiosa: correva l’anno 1848 e, a Palermo, in una rappresentazione della Vergy, la protagonista entrò in scena avvolta in uno sgargiante tricolore, in modo da sottolineare esasperatamente quanto detto sopra.
Con la rappresentazione di questo titolo così desueto si è chiuso il dittico di drammi su libretto di Emanuele Bidera introdotto due anni fa con Marino Faliero, andato in scena sempre sul palcoscenico del Teatro Donizetti. Una nota di merito in proposito per la Fondazione organizzatrice dell’evento, che di anno in anno porta avanti la sua missione di divulgazione culturale azzardandosi a proporre non esclusivamente titoli celebri, che pur non mancheranno nemmeno quest’anno, ma anche rarità che rischierebbero altrimenti di essere ingiustamente dimenticate, come in questo caso. Gemma di Vergy, caduta in oblìo per anni, ritornò momentaneamente di moda grazie a Montserrat Caballé, che ripetutamente vestì i panni dell’eroina donizettiana tra il dicembre 1975 e l’aprile 1976, riscuotendo grandi successi al San Carlo di Napoli, al Liceu di Barcellona e alla Carnegie Hall di New York. Durante il secolo scorso, dopo questa rinascita dovuta al soprano catalano, l’opera è andata in scena solo un’altra volta con Nucci, Maliponte, Condo, Garavente, Meditz, nel lontano 1987, proprio su proposta del Festival donizettiano di Bergamo che solo oggi, ventiquattro anni dopo, la ripropone in una nuova edizione riveduta sull’autografo a cura di Livio Aragona.
Questa produzione è stata affidata a Laurent Gerber per quanto riguarda la regia, mentre Angelo Sala si è occupato di scene e costumi. L’allestimento scenico è stato ideato con coerenza rispetto ai tempi e ai luoghi in cui la vicenda si sviluppa, grazie all’impiego di ricchi costumi sfarzosi e la riproduzione di eleganti vetrate francesi di gusto tardo-gotico. Ci troviamo nel 1429, al tramonto della Guerra dei Cent’anni e all’alba di nuove lotte interne all’Italia per la conquista e il mantenimento delle corti. Un contesto storico macchiato di sangue e segnato da pesanti conflitti sapientemente descritto con l’utilizzo di un ampio fondale, dalle tonalità variabili, che ha richiamato questo tema riproducendo in modo stilizzato La battaglia di San Romano di Paolo Uccello. Inoltre movimenti, spostamenti e disposizione di coro e cantanti, sono stati pensati in modo da ricreare per ogni scena un quadro di quel periodo, tornando ancora sull’opera di Uccello, ma anche prendendo in considerazione altri artisti quali Piero della Francesca o Pisanello, in omaggio alla creatività pittorica caratteristica di quel tempo, il primo Rinascimento.
All’interno di un cast piuttosto omogeneo e di indubbia qualità, ha trionfato incontrastata la protagonista Maria Agresta. Il giovane soprano si è cimentato in questo ruolo così complesso con una prova magistrale, ai limiti della perfezione. Dotata di una voce morbida e limpida, la Agresta ha saputo brillare dalla prima all’ultima nota di una partitura costellata di passaggi difficoltosi senza mostrare la minima incertezza, impeccabile nell’intonazione, sicura nel registro grave come in quello acuto, capace di fiati interminabili e di emissioni da brivido. Da segnalare la particolare intensità dimostrata in arie come “Dio pietoso”, “Eccomi sola alfine” e il toccante finale “Chi mi accusa, chi mi sgrida”: con una sensibilità fuori dal comune, l’artista ha saputo mettere a nudo ogni sfumatura interiore del suo poliedrico personaggio, dandone un’interpretazione da pelle d’oca. Una prestazione sorprendente che ha evidentemente colpito al cuore il pubblico bergamasco, che ha omaggiato il soprano con meritatissimi applausi a scena aperta ed entusiastiche ovazioni finali.
Al fianco di una protagonista così eccezionale, nel ruolo dello schiavo Tamas avevamo il nome noto di Gregory Kunde. Con una lunga carriera alle spalle che l’ha portato sul palcoscenico dei più prestigiosi teatri del mondo, la celebrità dell’allestimento non è certo passata inosservata sulla scena. Forte della sua esperienza, il tenore americano ha sapientemente gestito il ruolo con una voce decisamente matura, ma ancora corposa e ben impostata nonostante qualche emissione non troppo limpida disseminata qua e là, dovuta probabilmente ad una certa usura delle corde vocali che cominciano a risentire, comprensibilmente, degli anni che passano. Imperfezioni da nulla, comunque, se consideriamo l’eccellente interpretazione complessiva. Ardente e sanguigno, Kunde ha delineato un Tamas convincente dal punto di vista scenico oltre che vocale, incarnando efficacemente tutto il furore e la passione caratteristiche del suo personaggio con sublime espressività.
Scenicamente più impacciato, invece, il Conte di Mario Cassi, piuttosto legato nei movimenti e nei gesti. Il baritono, partito in sordina con la cavatina “Ah! Nel cor mi suona un grido”, lievemente sbiadita, ha avuto una prestazione vocale in crescendo, sbocciando pian piano con il procedere dell’opera e fiorendo infine nel secondo atto con la cabaletta “Questa soave immagine”, dandone un’interpretazione decisamente convincente, con un ottimo fraseggio e bei colori, sfruttando finalmente appieno le ammirevoli qualità vocali che gli sono proprie, fino a quel momento rimaste in ombra.
Nel ruolo di Ida ha cantato il soprano bulgaro Kremena Dilcheva che ha abilmente sopperito ad evidenti carenze tecniche e un timbro abbastanza anonimo con un perfetto physique du role e grande disinvoltura scenica, parendo uscita direttamente dalla Primavera di Botticelli, un po’ per fisionomia personale e un po’ per i costumi da lei indossati.
Hanno completato il cast Leonardo Galeazzi e Dario Russo: il primo molto convincente nel ruolo di Guido, elegante nel portamento e dotato di un timbro interessante; il secondo, interprete di un Rolando sostanzialmente corretto.
La bacchetta è stata affidata a Roberto Rizzi Brignoli. Il direttore bergamasco ha concertato bene riuscendo a ricavare bel suono e bei colori dal Coro e dall’Orchestra del Bergamo Musica Festival. Criticabile il volume molto alto che spesso ha oscurato le voci di alcuni solisti, dovuto però non tanto al volere di Brignoli, quanto ad un difetto della buca di questo teatro, forse troppo scoperta.
Nella fremente attesa della Maria di Rohan, prossima rarità proposta dal Teatro Donizetti, possiamo dire che questa Gemma di Vergy decisamente riuscita sotto ogni punto di vista rappresenti senza ombra di dubbio una scommessa vinta e, ci auguriamo, un saldo punto di partenza per questo Bergamo Musica Festival all’insegna dell’azzardo e della bellezza.
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