Pordenone è una di quelle città che mia nonna definì giustamente “mal sistemada”. L’anello che permette l’accesso in città è murato dal cemento dei capannoni dei centri commerciali. Come cantava De Gregori: “Tu da che parte stai? Da chi ruba nei supermercati o da chi li costruisce rubando?” nell’eterno divario sociale tra imprenditore e operaio, Pordenone è per poco Friuli, ma non è ancora Veneto.

Pordenone

Del razionalismo dei suoi palazzi ho sempre fatto volentieri a meno, soprattutto perché, per evidenti ragioni anagrafiche, ho mancato il movimento punk The great complotto, che pare essere stato dalla fine degli anni Settanta, proprio a Pordenone, l’epicentro nazionale della ribellione “from UK”.
Ricordo che proprio in quegli anni, le boutique del centro avessero inchiodato degli spuntoni sui muretti delle vetrine, cosicché quegli sinistrati straccioni non potessero sedercisi sopra o appoggiarci le birre in bottiglia.

Pordenonelegge nasce nel 1999, in una città ripulita dai punk ma che rimane geometrica e desolante come una qualsiasi città del nordest arricchita e perbenista. L’operazione di ammodernamento e riscatto sociale ha fatto sì che invece di ciondolanti creste e chiodi, per le piazze del centro arrivassero autori e bancarelle di libri, ogni anno c’è un animale diverso a fare da mascotte alle locandine e ai programmi serratissimi che si svolgono in città. I chiostri dei palazzi dove hanno luogo gli incontri hanno l’eredità architettonica della Serenissima, l’accoglienza raggiante degli angeli custodi, i giovani volontari che gestiscono le infinite code che si accalcano all’entrata, dove gli spettatori si organizzano anche ore prima pur di non perdere l’autore che hanno visto a “Che tempo che fa”.

Inaugura la XII edizione Paolo Mieli, che sale sul palco dopo le autorità tutte in divisa d’ordinanza grigio antracite. Lo storico impartisce una lezione sul Foscolo/Jacopo Ortis, sui moti che prepararono l’Italia all’Unità e sugli intellettuali che si distinsero nel Risorgimento. La discesa di Napoleone, ricorda Mieli, era vista in tutta Europa come un’invasione mentre in Italia venne accolto come colui che avrebbe permesso il rivolgimento. Come sempre, aggiunge Mieli, noi abbiamo bisogno di qualcuno che provenga da un altro paese per convincerci di quello che può realizzare il popolo sovrano.
Di questa sete di cambiamenti parlerà anche Baricco, invitato per la premiazione del suo Questa storia del 2005. Durante l’intervento, Baricco si dilunga sull’entusiasmo che mosse i giovani a partecipare alla Grande guerra. Pur essendo un pacifista convinto, dice, quello che manca alla nostra scombinata generazione è proprio la volontà e la convinzione che un cambiamento possa partire solo dall’unità, dall’aggregazione organica al fine di mutare una situazione con l’azione.
In sede di conferenza stampa, Baricco ha parlato del mestiere di scrittore, di come la fase di ricerca sia ben più appagante della scrittura, momento in cui gelosamente produce senza comunicare a nessuno l’idea della sua nuova fatica, per questo glissa le domande insidiose dei colleghi, che cercano l’esclusiva su Mr Gwyn, titolo del nuovo libro appunto, ambientato a Londra e che ha per protagonista uno scrittore. “Non mi piace che si parli troppo di un libro, ogni parola in più è inutile, bisogna semplicemente leggerlo. Mi piace costruire delle storie, ma è anche vero che l’attenzione del lettore è concentrata sull’attesa dell’esplosione, la sfida di colui che scrive è costruire una storia e poi demolirla, ma come se fosse un’esplosione programmata. Ecco, per me saper scrivere è come imparare a disporre la dinamite al punto giusto.”

Alessandro Baricco

A proposito del mestiere dello scrittore gli chiedo come nasce l’idea di fondare una scuola di scrittura creativa. Sembra offeso, precisa che si tratta di una scuola di narrativa, e che fu fondata diciotto anni fa con intenti e risultati decisamente antesignani rispetto all’interesse nato tardivamente, per esempio, nelle Università “A noi piaceva l’idea che fosse come una scuola di artigianato, allora nessuno pensava che fosse possibile dare gli attrezzi del mestiere per insegnare come usarli, posso assicurare che tra le pubblicazioni degli allievi non c’è un libro che assomigli ad un altro. Questo significa che la creatività di ognuno rimane comunque soggettiva. Poi l’interesse per le scuole di narrativa si è propagato e ne sono nate altre. Noi amplieremo la scuola Holden di Torino fino a sette volte, permettendo quindi l’accesso a molti più allievi.” C’è veramente bisogno di così tanti artigiani della scrittura, mi chiedo? Se mi avesse invitata a cena avrei voluto parlare con lui dell’articolo uscito su Repubblica giusto un paio di giorni prima. Era un estratto del libro di Anna Maria Ortese Da Moby Dick all’Orsa bianca, sul fatto che tutti creino ma nessuno legge: “Scriviamo per piacere a noi stessi, nel migliore dei casi; nel peggiore, agli altri. Siamo la più fastidiosa espressione della nullità, nella più arretrata delle nazioni.”

PordenoneleggeDella narrativa italiana presente negli scaffali delle librerie ha parlato il giovane Cristiano Cavina, che per Marcos y Marcos ha pubblicato quattro libri, l’ultimo, Scavare una buca, parla della “coltivazione della pietra” nelle cave sugli appennini romagnoli, dove lo scrittore vive e lavora come pizzaiolo: “Se entro in libreria due terzi di libri di autori italiani sono gialli. Di questa fetta, un ottanta per cento di gialli o polizieschi è ambientato a Bologna. Ho paura ad andare a Bologna, sembra che debba esserci un omicidio o un’autobomba ogni dieci metri. Per questo ho deciso di scrivere un libro senza le derive della denuncia, per come sono cresciuto il lavoro manuale ha una dignità di racconto che spesso viene sottovalutata, è un po’ come dare il microfono a gente che non ha la possibilità di esprimersi.” È un ragazzo semplice questo Cristiano, e l’unico autore di cui ho comprato un libro. Sembra appena tornato da un rave, con la barba folta e il piercing, ma parla di suo figlio, che crescerà con la cava alle spalle, dove a forza di scavare, dice un compaesano di Cavina, arriveremo all’inferno. Tutt’ora è facile trovare dei fossili nelle cave e giustamente Cristiano osserva: “Se fra qualche anno troveranno i resti della nostra civiltà, si tratterà di bulloni e micce di esplosivo”.

La devitalizzazione dei principi morali che reggono la civiltà illuminata in cui dovremmo crescere e vivere, è anche il tema de La seconda mezzanotte di Antonio Scurati. Un libro apocalittico in cui l’ipertecnologia porta, secondo la visione futuristica di Scurati, a svendere ai cinesi Venezia per farne un parco di divertimenti e vizi. Chiedo all’autore perché ha scelto di ambientare il libro nel 2092, quando è già realtà che Venezia si sia arresa all’orda asiatica senza quasi accorgersene.
“Sono cresciuto a Venezia e sicuramente ho notato questo cambiamento. Stavo pensando al libro già da molto tempo, soprattutto quando ho avuto la netta cognizione che Venezia si sia svuotata negli anni, perdendo proprio la caratteristica di città per coloro che ci vivono, non solo per quelli che la visitano. Ho scelto il futuro perché è un modo per sottrarsi al presente. Nel nostro paese abbiamo avuto la sciagura di vivere per trent’anni gli anni ottanta: l’ottimismo, la spinta ai consumi, i sorrisi forzati, la Tv commerciale hanno occultato il fatto che l’Italia si stesse impoverendo. L’immoralismo dell’ottenere senza sforzi ogni tipo di vantaggio e profitto ci ha reso infecondi e ha contribuito al vuoto morale nel quale viviamo ora. Per questo credo che ciò che capiterà nel futuro sarà l’involuzione della nostra civiltà, diventeremo razzisti e xenofobi, perché la decadenza e la fine del sogno di modernità deresponsabilizza la nostra cecità. Invece di anelare a un cambiamento, troveremo un altro nemico e quindi un capro espiatorio.”

PordenoneleggeNel modulo della rassegna che gli angeli fanno compilare agli spettatori, c’è una voce che chiede se Pordenonelegge abbia accresciuto la mia cultura. Ho risposto decisamente sì. Si tolga il fatto che Pordenone sia una vetrina piccola e periferica, che il carnaio di presenti sia spesso demoralizzante, che sia una scusa per promozioni editoriali, eppure l’evento ha l’unico demerito palpabile che i reading, le riflessioni, gli incontri, gli autori spesso si accavallano in termini di orari, così si è costretti a scegliere. Se la crisi dei valori ci ha condotto nell’arida condizione della non scelta, i libri continueranno ad esistere e ad insegnarci come scegliere, spesso, possa essere delegato alla lettura, che ha da sempre il potere di insegnarci a vivere.
Ho trovato molto poetiche anche le interpretazioni di chi non è scrittore di professione, Battiston nei panni di Orson Welles intervistato da Mereghetti e Giuseppe Cederna che presenta il suo Piano americano sull’esperienza di un attore italiano su un set hollywoodiano.
La versatilità della scrittura, la trascrizione dei propri pensieri in codici universali è al contempo un’urgenza e una condanna, un esercizio di solitudine contro la solitudine. I libri sono di chi li legge, non di chi li scrive, sostiene qualcuno, o forse come dice Galeano “Scrivere è rispedire al mittente le lettere d’amore che si ha dimenticato”. Se scrivere è combattere un demone, leggere è il siero per annientarlo: ” Cos’è l’uomo se tu lo abbandoni alla sola ragione fredda, calcolatrice? Scellerato, e scellerato bassamente.”