Correva l’anno cinematografico 1982 e, in una scena di Labirinto di passioni riluttante all’oblio, ritrovavamo il personaggio di Marta Fernández Muro, sottopostosi a un ardito intervento di chirurgia plastica, con le fattezze di Cecilia Roth. Dall’altra parte, dibattere di rappresentazione cinematografica della transessualità e tacere il nome di Almodóvar equivale a compiere uno dei torti più grossolani in cui storici e semiologi possano incappare, se è vero, e lo è, che proprio al regista manchego possono essere attribuite alcune delle più complesse e sottili trattazioni su grande schermo del tema, la cui espressione più alta s’incarna, senza ombra di dubbio, in Tutto su mia madre.
Il corpo ha sempre costituito, per Almodóvar, un territorio di frontiera, il teatro di battaglie campali tra forze contrapposte: tra maschile e femminile, per l’appunto, con gli strascichi identitari che ciò comporta, ma anche tra la vita e la morte (Parla con lei), o tra pulsioni antitetiche incubate negli spazi vacanti della coscienza.
Non è stato, quindi, un romanzo degli anni Ottanta dello scrittore francese Thierry Jonquet, al quale La piel que habito s’ispira con incondizionata libertà, a invadere l’orizzonte almodovariano con certe suggestioni. Al contrario, è Tarantola, e la storia che narra con una prosa asciutta e pulsante, a essersi prestato, proprio per la sintonia con l’immaginario del regista, a divenirne il primo (infedele) adattamento.
All’insana tragedia del dottor Richard Lafargue (Robert Ledgard nel film), che sequestra il giovane stupratore della figlia adolescente, e, attraverso una serie di interventi chirurgici, lo trasforma in una donna assoggettata subdolamente alla sua perversa autorità, Almodóvar non si risparmia dall’aggiungere trame e sotto-trame a iosa. Prima fra tutte quella della moglie morta suicida, di cui il giovane Vincente, trasformato in Vera, assumerà l’aspetto, donna che visse due volte affidata alla sensualità lattiginosa di Elena Anaya. A seguire, agnizioni più o meno dirette di quelle amate dal cineasta, tra fratelli che ignorano di essere tali e figli che non conoscono l’identità dei genitori, morti delittuose, lavoranti lesbiche, poliziotti poltroni, madri dominanti. Risultato, un revenge-movie (anche la vendetta è un tema già affrontato, si pensi a Carne tremula) in cui, nell’alveo delle devozioni cinefile almodovariane, un po’ noir un po’ melò, scorre il fluido imbrattante di ossessioni psicotiche e maniacali, da sempre il carburante delle sceneggiature di Pedro, copioso quanto la materia organica (sangue, cellule, epidermide) che, forse per la prima volta, in omaggio a un certo horror in odor di Mary Shelley, il regista esibisce quasi con ostentazione.
Ciò che, tuttavia, difetta rispetto al passato, in quest’ultima pellicola presentata a Cannes, sono una facoltà affabulatoria e una passione capaci di riscaldare davvero lo spettatore, di porlo nelle condizioni di condividere i patemi e il dramma dei personaggi. La pelle che abito conferma, purtroppo, una tendenza impostasi, con la sola eccezione del travolgente Volver, da La mala education a questa parte: la tendenza a un controllo e a una consapevolezza formali sganciati da un sentimento verace, tali da restituire soltanto l’esteriorità di Almodóvar, non la sua anima. In una scena, Vera segue una lezione di yoga alla televisione e uno dei consigli che l’istruttrice impartisce è di non confondere la forma con l’essenza delle cose. Discorso che calza, naturalmente (e questo Almodóvar intendeva) allo statuto di un corpo altro rispetto alla realtà ontologica della persona, ma che potrebbe essere esteso, ironia della sorte, anche al film.
La narrazione si articola in tre atti: uno, ambientato nel 2012, prende a oggetto il risultato compiuto dei propositi vendicativi di Robert; il secondo, un torrenziale flash-back con cui arretriamo di sei anni, ci espone gli antefatti; il terzo consiste in un ritorno al presente, tempo di una traumatica catarsi che ci accompagna verso la conclusione. La terza parte è indubbiamente la migliore, l’unica in cui la diegesi appare abbastanza generosa da accogliere le fibrillazioni di un pathos autentico, nonché la sola battuta davvero folgorante del copione, il gioco (meta)linguistico “Mi chiamo Vera. Vera Cruz” (omaggio a Penelope, protagonista mancata del film). Il finale aperto suggerisce abilmente che la sofferenza, componente irriducibile dell’esistere, è stata soltanto interrotta, non esaurita, e riaffiorerà in un impossibile ritorno alla normalità. Si tratta, però, della terza parte, che se da un lato può legittimamente esigere, dallo spettatore, un tributo fiduciario, non può, sola, riscattare le carenze dei due atti precedenti. Nel primo, il materiale narrativo si affastella alla garibaldina, tra percorsi che non hanno seguito, né molto significato (la figura del Tigre misura quanto superflue siano certe scelte) e dialoghi pesantemente didascalici che, nel tentativo di porre un po’ d’ordine, estirpano ogni mistero. Il secondo somiglia quasi un’impaginazione di certe parti del romanzo, all’insegna, però, di un compiacimento stilistico che smorza la tensione della sintassi spigolosa e acuminata di Thierry.
Ciò che, tuttavia, rischia di procurare le sorprese più spiacevoli ai filologi almodovariani è la direzione del cast. Se Marisa Paredes, va riconosciuto, precipita con intensità negli abissi di un bel personaggio di governante arpia, a metà tra la Mrs. Danvers dell’hitchcockiano Rebecca e l’archetipo, targato Charlotte Brontë, della Grace Pool di Jane Eyre, il ricongiungimento “familiare” più atteso, quello tra Almodóvar e Antonio Banderas, a ventun anni da Legami!, delude. La struttura polivoca, l’etopea tentacolare, le illimitate risorse che connotavano le diverse figure della follia incarnate da Banderas negli anni d’oro, indimenticabili sinergie di perversione, dolcezza, sensualità, luce, tenebra, in una parola, umanità, cedono lo scranno alla bolsa bidimensionalità di Robert. Almodóvar ha preteso, da Banderas, uno sforzo di sottrazione interpretativa. Si nota. Ma se Banderas, attore consumato ed esperto, esegue con precisione acribica il compito assegnato, senza eccedere mai nemmeno di un cipiglio, si ha l’impressione che, dall’altra parte, Almodóvar non apprezzi troppo, o almeno non più come una volta, la versatilità del suo (ex) attore feticcio. Se ogni inquadratura, un tempo, poteva dirsi un atto d’amore verso Banderas, ivi inclusa la celebrazione, sfacciata e pudica al contempo, della straripante fisicità dell’attore, nella Pelle che abito, film incentrato, per giunta, sui corpi, è solo la fredda e distaccata cornice di un attore qualsiasi del cast. Quando, nel finale, vediamo il corpo nudo e senza vita di Banderas riverso sul letto, per un istante, abboccano all’amo della memoria l’epilogo della Legge del desiderio e il cadavere di Antonio (il personaggio, omonimo dell’interprete), appena sacrificatosi in una danza macabra di eros e morte. Un istante, però, perché subito la differenza ci si impone davanti. Se allora Eusebio Poncela accorreva, straziato, ad abbracciare quel corpo esanime, tradendo, a sorpresa, un dissennato e imprevedibile amore, e con Poncela il regista e con il regista il pubblico, nessuno, nella Piel, accorrerà a cingere Robert. Né il regista, né noi.