In una lettera spedita al conte Arrivabene, Giuseppe Verdi critica il rapporto tra parola e azione in Charles Gounod, arrivando ad affermare che, nonostante la musica stupenda, Gounod no sappia ben delineare i caratteri, i personaggi (5 febbraio 1876). In altre parole, secondo lui, il libretto, ovvero il testo scritto nelle opere di Gounod, non è capace di produrre gli effetti di meraviglia, stupore ed emozione. Produrre tali effetti sarebbe fondamentale per proiettare sullo spettatore i valori del dramma, la sua passione, la sua morale, quindi la vera essenza creativa dell’autore.
A parere di Verdi, l’opera lirica deve trarre ispirazione da un testo drammatico, per poi essere rielaborata dal compositore e dal librettista in modo da trasmettere attraverso la musica e l’impianto scenico tutta la gamma di emozioni che il testo drammatico racchiude. Quindi, in estrema sintesi, a Gounod veniva rimproverata una lacuna da questo punto di vista, anche se gli veniva riconosciuta la capacità di scrivere musiche deliziose. Con un’iperbole azzardata ma efficace, qualcuno ha sostenuto che, per il suo saper rendere gli effetti drammatici del testo, Verdi può essere accostato al regista francese Alain Resnais, mentre, per la profonda inquietudine che ben traspare nelle sue opere, Gounod è molto affine al regista polacco Roman Polanski! Sta di fatto che, dopo la bellezza di 77 anni, Romeo Montecchi e Giulietta Capuleti fanno la loro ricomparsa in Arena e di questa vecchia polemica per dotti e saggi non resta che qualche riga sui manuali di storia della musica. Forse per via di queste vecchie critiche, le opere liriche di Gounod, in particolare il Faust e Roméo et Juliette, assai popolari in Europa, risultano ancora poco rappresentate e apprezzate in Italia. A dire il vero, negli ultimi anni, Kraus prima, Gheorghiu e Alagna poi, hanno contribuito a rinverdire Roméo et Juliette, che sia quest’anno sia il prossimo è presente in cartellone all’ Arena di Verona.
Il compositore francese, formatosi precedentemente nel mondo dell’operetta, quindi abituato a prendere il pubblico per la pancia, adatta il lavoro shakespeariano forse più noto per una commedia lirica in cinque atti su libretto di Jules Barbier e Michel Carré. Prima rappresentazione al Théâtre Lyrique di Parigi, 27 Aprile 1867: vena melodica felicissima, amalgama timbrica di rara bellezza, il tutto condito con quattro duetti tra i protagonisti, in un’opera costruita con grande abilità da Gounod. In Francia è un successo, in Italia arriva tardi, come l’ennesima riduzione teatrale del Bardo, dopo le versioni di Zingarelli e Vaccaj che avevano consacrato Maria Malibran come il più grande soprano del XIX Secolo. Dopo quasi due secoli, assieme all’anfiteatro veronese e Castelvecchio, i luoghi di questa storia d’amore sono diventati la fonte di reddito principale per il comune scaligero. L’assalto alla casa di Giulietta è una tappa impresindibile per ogni turista. Per questo motivo, l’opera di Gounod all’Arena sembra proprio collocata nella sua cornice naturale e ideale. Il trinomio Shakespeare-anfiteatro romano-opera lirica convince in pieno, nonostante le innumerevoli forme d’intrattenimento contro il quale il teatro d’oggi è costretto a confrontarsi.
Quindi, la tragedia shakespeariana per eccellenza ritorna sul palco dell’ Arena e sotto la regia di Francesco Micheli, rivive la saga dei Capuleti e dei Montecchi, famiglie storiche della città scaligera, in una scenografia rosso acceso, quasi fuoco, che prevede la suddivisione del palco in due emicicli speculari. Gli uni da una parte e gli altri dall’altra! Lo scontro tra queste due famiglie rappresenta una costante nella storia dell’uomo, ovvero il contrapporsi di due fazioni: guelfi e ghibellini, liberalisti e protezionisti, cattolici e protestanti e così via.
Le tensiocostruzioni in alluminio che stanno lì a simboleggiare le due famiglie, divise ma uguali sia per pregi sia per difetti, non concedono praticamente nulla alla tradizione, anzi, sembrano derivate da uno di quei film anni Settanta, dove il futuro aveva i contorni e i caratteri dell’antico. I giovani amanti che Shakespeare aveva trasformato da sfortunati e disonesti a veri e propri archetipi dell’amore tragico di ogni tempo, sono inseriti da Micheli in ambienti – per così dire – baroccheggianti, con l’utilizzo però di materiali tipici dell’epoca moderna, quali alluminio, plastica, vetro ecc. L’ambientazione tardo-cinquecentesca rimane lievemente impressa nei costumi di scena, sfarzosi e pieni di quel gusto rinascimentale che fece da cornice al teatro seicentesco. Una delizia per l’occhio!
In sintesi, un impatto scenico incredibilmente affascinante che contagia prepotentemente il pubblico, questa volta non troppo numeroso. Dirige l’orchestra dell’Arena il maestro Fabio Mastrangelo: regolare, corposo anche se leggermente poco dinamico, soprattutto se prendiamo in considerazione tutto quello che succede sul palco. Debuttanti in Arena sia Nino Machaidze nel ruolo di Juliette, sia Stefano Secco nella parte di Roméo. La prima è dotata di un fascino incredibile, al quale non corrisponde ancora a una dote necessaria, quella di trasformare il personaggio fino al punto di morte. Nino possiede una voce in fase di raffinazione e ogni tanto gli acuti risentono di questo work in progress. Secco è uno di quei tenori, al debutto assoluto in Arena, di rara eleganza vocale e scenica, dal timbro lirico gradevolissimo, anche se spesso la sua voce si assottiglia e sfugge all’udito delle c.d. ultime file. Da sottolineare la prova di una veronese acquisita, Cristina Melis, figlia del M° Gustavo Melis, raffinatissimo mezzosoprano alle prese col ruolo della nutrice Gertrude. Discreti gli altri interpreti, ma nulla di più.
Insomma, una serata di opera pirotecnica e piena di spettacolari figure acrobatiche, che non lascia certo indifferente il pubblico – principalmente anglosassone e teutonico – presente nell’anfiteatro veronese. Certo, alla fine, per quanto questa sia una tragedia incredibilmente triste, lo spettatore applaude e ride, si commuove ed esclama. Nel finale, Romeo si avvelena perché crede Giulietta morta, la quale, invece, si sveglia e alla vista del suo amato, si trafigge con il di lui pugnale. Solo nelle morte, nella tragedia, nello scorrere del sangue, le due famiglie capiscono l’inutilità di tale interminabile guerra. Purtroppo, questa è solo fiction, tragedia teatrale, artifizio letterario, che ben poco spazio è in grado di conquistare nell’animo di un genere umano costantemente in preda a quell’affannosa e impellente urgenza di sopprimere il bene altrui per accrescere quello proprio.