Arrivare a Grañón il 31 dicembre, a piedi, tentando di farsi strada nei banchi di nebbia e maledicendo i dodici chili del proprio zaino, è più di quanto possa sperare qualsiasi pellegrino. Dopo tre giorni di viandanza nei campi di patate e nelle vigne congelate de La Rioja (la regione spagnola dei vini per eccellenza), sei finalmente arrivato. Ci saresti potuto arrivare in autobus in questo villaggio sperduto di trecento anime, ma non sarebbe stata la stessa cosa. La coscienza europea è nata pellegrinando, diceva Goethe, e tu vuoi essere europeo fino in fondo, una volta tanto.
L’albergue (che in castigliano non significa hotel, bensì rifugio, generalmente spartano) di San Juan Bautista è ricavato dall’antica canonica a lato dell’omonima chiesa, che vanta una straordinaria pala d’altare del XVI secolo. È uno degli spedali più noti del Cammino di Santiago e il perché non è legato a ragioni architettoniche o artistiche, quanto alla forma di ospitalità che qui viene fornita: rimane aperto tutto l’anno grazie a dei volontari – è questo anche il tuo caso – che si alternano ogni quindici giorni e non solo la porta rimane sempre aperta, ma all’entrata spicca una cassetta delle offerte su cui campeggia la memorabile scritta “lascia quello che puoi, prendi quello che ti serve”.
La sera di capodanno, la nochevieja, come la chiamano in Spagna, siete in dieci. Ognuno con la sua storia, e subito ti rendi conto che le storie dei pellegrini “invernali” (per distinguerli dai pellegrini “estivi”, fra le cui nutrite schiere si annidano molti turisti o, come vengono definiti con una certa indisponenza, turigrinos, quelli che un tempo si sarebbero detti “falsi bordoni”) sono materiale eccezionale per uno scrittore. Perché per mettersi in cammino in dicembre, sfidando la neve, i venti tutt’altro che miti degli altipiani iberici, la solitudine, bisogna avere una storia, e spesso non basta una bisaccia a contenerla.
François[1], ad esempio, è belga, ha una quarantina d’anni e due occhi spiritati. Come molti dei pellegrini che hai incontrato nei tuoi cammini non è partito per fede (nemmeno tu, d’altronde). È un manager, o meglio: era un manager. Lavorava dodici ore al giorno finché il cuore non gli è scoppiato in petto. Dopo un mese scarso di ospedale e riabilitazione è andato a Saint Jean Pied de Port e si è messo in marcia sotto la neve. Di fronte al caminetto ti mostra le foto dei suoi figli, che può vedere soltanto due volte al mese. Guarda le foto e sorride, quindi sbotta in un riso isterico, si alza, si accende una sigaretta, ritorna con del vino. Non riesce a stare seduto per più di due minuti. Vuole camminare, lasciarsi alle spalle l’infarto e la vita di prima, svuotare la testa. Tra un bicchiere di rosso e l’altro ti fa leggere gli sms delle sue due figlie (con il maschio invece ha un pessimo rapporto, ma sogna di portarlo a fare il cammino, l’anno che verrà), dicono che lo amano e gli manca molto. Lui si commuove, tu abbassi lo sguardo, gli versi da bere, rimanete in silenzio.
È il primo capodanno umano della tua vita. Niente abiti da sera, niente prenotazioni, niente ore di chiacchiericci e balli amatoriali che si trascinano stancamente finché qualcuno non ti dà un passaggio. Qui ognuno cucina qualcosa, e chi non cucina lava i piatti, dà una mano a rassettare, o mantiene vivo il fuoco nel caminetto. L’età non conta: si va dal ventenne coreano che ha deciso di fare il cammino prima del temibile servizio militare (in Corea del Sud dura due anni e, da come ne parla, non sarà una passeggiata), ad una coppia di docenti universitarie texane che portano con semplicità i loro cinquant’anni passati, poi un regista e attore toscano (l’insuperabile hospitalero a cui dai il cambio), un poeta triestino (l’amico fraterno che ha deciso di seguirti in quest’avventura), un simpatico rugbista veneto, una ragazza coreana e una giapponese, minute entrambe, che ringraziano senza sosta ed elargiscono sorrisi a qualsiasi convitato rivolga loro un’occhiata, sia solo di striscio. Si parla in una sorta di esperanto rinvigorito da gesti, di qualsiasi argomento, mai di lavoro o di soldi: qui la tua professione non ha ragion d’essere, né i metri quadrati della tua casa – potresti essere un ladro, un assassino, avrai sempre il tuo piatto di minestra, la tua fetta di pane e il tuo bicchiere di vino. Oltre ad una stretta di mano quando, l’indomani, riprenderai il cammino.
Inizi il 2011 imparando a spaccare legna. Ce n’è una montagna accatastata in giardino, dono natalizio del paese all’albergue. Piano piano cominci a conoscere le persone e i ritmi di Grañón, fai la spesa (con i donativos lasciati dai pellegrini) nelle due botteghe, nella macelleria, nella panetteria, cercando di spendere la stessa cifra in ogni posto, e così fai nei tre bar. Il parroco è arrivato da nemmeno due mesi, dopo aver condotto una missione in Amazzonia per dieci anni e aver fatto il cappellano del carcere di Logroño per cinque. Non ti chiede mai di andare a messa, non veste mai l’abito talare e le ore che passi con lui trascorrono a cercare tronchi buoni nel bosco, di quelli che ti mandano avanti un camino per giorni. Intuisci che ha fatto parte del movimento di Teologia della Liberazione e, quando ti dice che se fosse per lui avrebbe già venduto le reliquie e l’oro della pala d’altare per dar da mangiare a chi ne ha bisogno, ti verrebbe da dirgli che è un buon uomo, ma con i preti non ci sai fare.
Le giornate ti sembrano più lunghe che in Italia. Sarà per il sole, che tramonta un’ora dopo, o sarà per gli incontri, che ogni volta ti lasciano una strana sensazione addosso, come un’ansia insaziabile di ascolto e di scambio, un desiderio a dir poco famelico. Lo senti crescere con prepotenza una sera in cui ti scaldi davanti al fuoco con Patxi, un ragazzo basco partito in compagnia di un amico. Non credo in Dio ma, dice, camminando riprendi a credere negli uomini. Parlate sottovoce perché gli altri dormono e non volete svegliarli. Ti chiede se la porta qui rimanga davvero sempre aperta, anche di notte. Fai cenno di sì con la testa, poi aggiungi che i primi due giorni l’idea di quella porta spalancata ti intimoriva ma che ora non solo ti ci sei abituato, ora non potresti farne a meno. C’è bisogno di tempo per tornare ad essere umani, pensi. Il problema, semmai, è restare umani quando si torna al caos della propria vita, in città, con la propaganda xenofoba che travolge gli usci, li fortifica, fino a trasformarli in mura invalicabili.
Che il Cammino di Santiago faccia bene non solo a chi lo fa, ma anche a chi lo abita, è provato dalla storia di Grañón. Un villaggio nato intorno a questa secolare via di peregrinazione e grazie ad essa tuttora popolato. I pellegrini portano soldi, permettendo alle piccole botteghe, ai minuscoli bar, a ogni seppur microscopica forma di attività commerciale, di sopravvivere. Portano inoltre, nei loro zaini pesanti, finestre sul mondo che qui, altrimenti, potrebbero schiudersi solo attraverso il monopolio televisivo. Per cui capita di parlare con degli anziani che hanno coltivato i campi tutta la vita e scoprirli più aperti di te, che hai studiato e parli (male) le lingue e ti credi un viaggiatore solo perché hai preso qualche treno notturno e hai fatto un paio di volte l’autostop. Loro non si sono mai mossi da qui, eppure, superato il primo strato di fisiologica diffidenza, subito ti offrono da bere, ti raccontano storie che rimarranno nelle tue orecchie chissà per quanto tempo e ti trattano come uno di famiglia. Mentre sorseggi con loro un bicchiere di patxaran (un tipico liquore navarro), pensi che vivi da cinque anni in un condominio di nemmeno venti appartamenti e ancora non conosci tutti i tuoi vicini, né, molto probabilmente, mai li conoscerai.
Ogni giorno ti svegli, prepari la colazione, pulisci, tagli la legna, fai a piedi i 7 km che ti separano da Santo Domingo de la Calzada (un po’ perché gli autobus sono pochi, un po’ perché vuoi sentirti più simile alle persone che accoglierai), fai la spesa, cucini. Gesti rituali che ingrossano il senso di attesa. Chi arriverà oggi? Sarai in grado di dargli le cure di cui ha bisogno? Lo saprai ascoltare? A queste domande che ti ronzano nella testa e nello stomaco risponderanno Kim, una coreana trentaseienne che ti dirà di aver perso da poco la madre e il padre, di essere stata lasciata dal compagno, di non sapere più cosa fare della sua vita; Jean, un diciottenne belga in cammino solitario da un mese e mezzo, magrissimo, silenzioso e innamorato del fuoco, con due genitori divisi che abitano uno in Russia e l’altra in Marocco; Luis, un quarantenne spagnolo che vive in un villaggio occupato sui Pirenei, con una vita difficile alle spalle e un presente fatto di pensione di invalidità e medicine; e poi tutti gli altri viandanti – alla fine saranno una trentina in quindici giorni – con altre storie, anche belle, molto belle, dette o appena accennate, con una smorfia, una parola gettata nella brace, ché si faccia cenere e nessun altro la possa ascoltare.
Quando arriva il nuovo hospitalero a darti il cambio ti assale un crampo in pancia. È finita, torni ad essere il meschino piccolo borghese di sempre, sedentario, mediamente informato e istruito, attaccato a internet come al seno di tua madre. Decidi allora di posticipare il ritorno: fai lo zaino e ti metti in cammino, verso Burgos, di nuovo a battere le piante dei piedi contro la terra. Sul sentiero che taglia la magnifica desolazione di Castiglia, solo e ancora frastornato dalle voci che hai fatto tue, ti riprometti di cambiare vita. Non immediatamente, un passo dopo l’altro, senza strappi. Sai che dovrai dire molti no, perdere amicizie, rifiutare lavori, disfarti di molti oggetti che affollano le stanze del tuo appartamento e, alla fine, togliere la serratura dalla porta, provare a fare sì che l’umano vinca sul disumano.
Triste che questo tipo di esperienza si possa vivere solo lontano da casa. C’è bisogno di nuove forme d’accoglienza urbane, contro la xenofobia verso il vicino di casa, l’ho capito quando il mio vicino ha lasciato cadere i resti del salame mangiato a cena davanti alla mia porta.
Però, un bell’esercizio!
Margherita
Mi pare di essere lì, se chiudo gli occhi posso anche muovermi al buio lì dentro, le scale, la porta…il bagno angusto, fu una delle tappe più belle del cammino, dicembre 2006, chissà perchè mi viene da pensare, è un’immagine, a una torre campanaria ma non sarà, confondo probabilmente con altro rifugio… uno degli ospiti quella notte arrivato dopo la cena, era un professionista del cammino quei tipi che frugano negli zaini mentre dormi in cerca di soldi perchè miserabile,perchè alcolizzato, perchè fallito,disperato, che ha perso anche l’ultimo treno della dignità, bastava chiedesse… e non era manco vecchio, sulla quarantina, venne scoperto da uno svizzero precisino, fiscale,riservato, erano le due di notte, ci fu un gran trambusto, si accesero le luci e dopo una piccola discussione tra noi dove ognuno disse la sua, il tipo non fu cacciato via, rimase a dormire con noi,nel suo lercio sacco a pelo, la mattina un bastardino festoso, il suo cagnetto, l’attendeva giù nel cortile dentro uno scatolone di cartone. Ognuno gli diede qualcosa perchè non avesse da rubare ancora, almeno per qualche giorno…aveva uno sguardo di infinita riconoscenza, mai lo scorderò…