Ho conosciuto Roberto Magro grazie ad Elisa, che oltre ad essere mia cugina, nutrì una passione per la giocoleria e per il Théâtre Vivant fin da un’età più o meno ragionevole, suscitando l’incredulità di noi familiari quando indossava lunghi abiti sgargianti che si faceva confezionare dalla nonna, saliva sui trampoli e dall’alto svettava per le strade estive delle feste paesane. Ri-assennata, cominciò ad occuparsi dell’organizzazione di spettacoli teatrali, e, stancatasi del tourbillon dei contratti-contentino, ha rianimato i suoi agganci circensi e proprio col Magro vorrebbe curare le sorti e le tournée della compagnia Magda Clan. Qui però gli incroci hanno condotto me, perennemente indaffarata a non annoiarmi, a stanziarmi per un periodo imprecisato nella Val Colvera, pedemontana maniaghese, comune di Frisanco, luogo di provenienza del nostro Roberto. Intuisco quasi subito che sia una persona difficile da trovare: chi è molto impegnato tiene sempre il cellulare spento, poi richiama chi gli va, ma grazie al mio lasciapassare e alla sua amabile disponibilità, lo convinco a venirmi a trovare nel mio eremo infestato dai ghiri.
È mattina tardi e il monte Raut trattiene a fatica le nuvole che si addensano promettendo temporali, ci sediamo in terrazza sulle sedie sponsorizzate dall’Algida, posiziono il mio computer per registrare l’intervista ma provvidenzialmente annoto tutto nell’agendina. Difatti, grazie alla mia encomiabile preparazione professionale, perdo tutto perché mi si scarica la batteria. “Sono così maldestra”, dico imbarazzata, lui, con un sorriso sardonico, ma anche un po’ paterno, mi dà il benvenuto nel club dei fuori programma. Non chiamatelo direttore artistico, né freakettone, non coinvolgete parole antipatiche come “organizzazione” o “palinsesto”: Roberto è con fierezza un anarchico, un baluardo dell’auto gestione del patrimonio personale di ognuno, nel rispetto della libertà di ogni potenziale o esigenza.
Nell’epoca in cui “precario” è sinonimo di schiavismo e parassitismo, Magro ha scelto la strategia più semplice: scollarsi dal vischio dei retaggi culturali, dai bisogni di possedimenti, dai non-luoghi che hanno neutralizzato le nostre esistenze, e vivere serenamente tutti i luoghi. Ma quelli veri, perché sfruttando l’etimologia di una lingua che è cara ad entrambi, Roberto non potrebbe essere definito altro che réalisateur, letteralmente che “rende tangibile”, “attua praticamente”. Con la lungimiranza vorace degli scavezzacollo, lascia gli studi di psicologia a Padova e ricorda che quelli furono gli ultimi anni in cui pagò un affitto. Da lì le tracce si confondono: dall’Europa al Sud America, Roberto ha creato, prodotto e intessuto una rete di amici che ha condiviso il suo visionario quanto ramingo stile di vita. Compagni di esperienze che hanno soprattutto partecipato con entusiasmo ai suoi progetti, nati dal sodalizio della stessa passione. Non ultima la vallata in cui è nato e cresciuto, dove, nel 2002, in forma ancora embrionale, nasceva Brocante, il festival itinerante di circo contemporaneo. Ora si festeggiano nove anni di vita, la settimana dal 25 al 29 luglio animerà la Val Colvera di fiabesche acrobazie.
Valentina Avoledo (VA): Come nasce l’idea e perché hai scelto Frisanco?
Roberto Magro (RM): È nato tutto come un invito rivolto ai miei colleghi e amici a venire in Val Colvera per creare uno spettacolo che fosse per i locali. Non avevo in mente nulla che fosse riassumibile in un cartellone, né avevo pensato a locandine, pubblicità, volantinaggio, sovvenzioni e tutto questo genere di impedimenti che avrebbe compromesso la spontaneità dell’iniziativa. Volevo che la gente del posto si divertisse con i nostri spettacoli, che non sarebbero stati possibili se i paesani stessi non avessero fornito ciò di cui disponevano: non avremmo mai montato il trapezio se non ci avessero concesso l’uso di una determinata terrazza; il signor Primo, di Borgo Menis, ogni anno falcia il prato di casa sua proprio per permettere a noi di usarlo. Una sera dovemmo interrompere il montaggio di un attrezzo perché si era rotto un martello: trovammo quel martello riparato la mattina dopo, riposto dove l’avevamo lasciato. Quando arrivammo, nel 2002, la compagnia era composta solo da otto elementi, per lo più francesi e belgi che si stupirono di come fosse stato facile coinvolgere la gente e creare una festa in cui tutti si sentivano di aver dato il loro contributo.
VA: Nonostante per definizione la realtà montana sia piuttosto chiusa.
RM: Quell’anno chiamai il sindaco, con cui ho sempre avuto un rapporto molto disteso, e gli proposi l’iniziativa: mi diede a disposizione le piazze del comune, un’area per i camion e il campeggio ma disse subito che non c’erano soldi. Io precisai che non mi interessava il profitto, volevo uno spazio tranquillo in cui poter praticamente “esercitare”, ma volevo anche regalare qualcosa di autentico alla gente della mia valle. E soprattutto nelle prime edizioni, ancor prima che nascesse l’associazione Brocante, ebbi da subito l’impressione che i miei concittadini, contrariamente a quanto pensassi, hanno veramente considerazione per l’artista, portano rispetto per il duro lavoro che sta dietro alle abilità tecniche e creative.
VA: E cosa è cambiato dal 2002?
RM: Da allora la stima dei locali non è sicuramente mutata, come il contributo economico da parte del Comune per coprire i costi di spesa. Io avrei voluto che rimanesse sempre così, perché era una scusa per mettere alla prova gli artisti, decentrarli dai loro appuntamenti affollati, dai teatri, dai palcoscenico. Poi di anno in anno ha cominciato a spargersi la voce tanto che ci raggiunse un ballerino notissimo, di cui parlava tutta Parigi, quando nessuno degli spettatori prestò particolare attenzione alla sua esibizione, fu come se l’incognita di non essere nessuno lo aiutasse a rivalutare se stesso, senza le sbrodolature connesse alla fama e al successo. Per questo volevo che il festival rimanesse piccolo, perché l’ansia di andare in scena è come se corrodesse il rapporto naturale che si potrebbe creare tra artista e l’abitante: la compartecipazione fa in modo che il paesano stesso sia attore alla pari. In concreto: lo spettacolo varia in base alla presa di corrente che mi fornisce una casa, quindi c’è uno scambio equo, come il baratto.
VA: Come si vive con le radici mobili?
RM: C’è sicuramente uno scoglio sociale da superare, sembra che non sia concepibile un vita che non sia scandita dalla ricerca di stabilità, certezze, terra ferma. A me piace pensare che non saprò bene cosa farò domani, né dove mi troverò. Poi è vero che se non fossi attorniato da persone rigorose che sopperiscono il mio traballante senso organizzativo, probabilmente mi sfuggirebbero dei passaggi decisivi. Però è proprio questo che volevo evitare agli albori del festival, mi secca dovermi misurare con la Siae, i permessi e le trafile burocratiche che si palesano quando una manifestazione comincia ad ingrandirsi. Ed è un po’ anche il catalizzatore della vita sicuramente fuori dagli schemi che ho deciso di vivere: non voglio accumulare scartoffie, materiale inutile, sono per la semplificazione dei processi e per l’umanizzazione delle relazioni.
VA: Ammiro il coraggio di quanti si lasciano alle spalle il superfluo, per aderire alle situazioni più diverse, impermeabili a pregiudizi, stereotipi e retaggi. Ma tutto ciò non è, a volte, davvero faticoso?
RM: Per niente, sapessi quante persone ho conosciuto che sono riuscite a sganciarsi da ciò che le costringeva a radicarsi. E sono migliorate soprattutto nei confronti della propria coscienza, perché è come se si fosse espiata. In fondo è necessario prendersi il rischio di vivere, il difficile è farlo capire alle persone che ti stanno vicino. Si è occupato di questo stile di vita anche il nostro sociologo Michele Federico, che ci ha seguito e ha documentato il nostro “neonomadismo”.
VA: Però c’è da dire che sei comunque riuscito e realizzato nel lavoro che fai, sei il direttore artistico della Scuola di Circo di Torino (FLIC), sei chiamato a dirigere spettacoli un po’ in tutto il mondo. Non sempre va così, soprattutto per le ambizioni artistiche.
RM: Credo che se si ha veramente intenzione di raggiungere il proprio scopo e ci si crede con ottimismo, la prima cosa da fare è evitare le distrazioni e i deragliamenti che ci allontanano da quella vocazione: alla determinazione bisogna aggiungere l’applicazione e la costanza, eliminando tuttavia quei bisogni indotti e apparenti, e percorrendo quindi il primo passo per vedere oltre. Quando insegno alla Flic mi preme trasmettere ai miei allievi che il ritorno economico non deve assolutamente essere il fine dell’esperienza.
VA: Tornando al festival, si dice che sarà l’ultimo anno, per lo meno in Val Colvera.
RM: In Italia non ci sono molti festival di circo contemporaneo e sicuramente Brocante ha un’importanza significativa, però man mano che l’interesse si amplifica viene meno l’interscambio artista-abitante di cui parlavo prima. D’altronde Brocante deriva dalla parola “riciclo” quindi per me si tratta letteralmente di un riciclo energetico. Il prossimo anno porteremo in scena un’altra idea e magari in un posto diverso. Se ottenessimo dei finanziamenti regionali, per esempio, avremmo altri vincoli e io voglio ancora che le signore del paese preparino per noi la torta come segno di riconoscenza, è proprio lo spirito della festa che non va danneggiato. Il senso della gratuità è fondamentale.
VA: Nella considerazione che si ha del circo contemporaneo c’è uno scarto tangibile tra l’Italia e oltreconfine?
RM: In Italia è sicuramente da poco che il circo è diventato un concetto svincolato da tendone, animali e domatori, nel resto d’Europa c’è più sensibilità verso le nuove avanguardie artistiche e quindi anche più richiesta di quel tipo di spettacolo, questo naturalmente non agevola l’ideazione di certi festival, come Brocante, pensati con l’intento di rimanere sotterranei.
VA: Da dove provengono quest’anno gli ospiti del festival?
RM: Oltre gli allievi della FLIC, che si metteranno alla prova con un “tirocinio” sul campo, ospiteremo artisti da tutta Europa e persino dal Cile. Purtroppo non ci saranno artisti albanesi, che a mio parere sono i più preparati del nostro vecchio e piccolo continente. L’Albania ha saputo imparare dalla Cina e dalla Russia, proprio l’ex URSS fondò la prima scuola di circo nel 1912.
VA: La scelta di evitare ogni forma pubblicitaria è uno stratagemma per alimentare le aspettative.
RM: Sì, riproporremo a grandi linee lo schema strutturale dell’ultima edizione. Laboratori fin dal mattino, attività e giocoleria per bambini – ho scoperto che alcuni di loro non hanno mai smesso di allenarsi dall’anno scorso –, corsi, conferenze, esibizioni e spettacoli a tema che cambiano secondo le giornate e i luoghi. È un festival itinerante, è come se spostassimo il centro di residenza artistica. È di certo un banco di prova, gli artisti devono spesso destreggiarsi nell’improvvisazione, ma ognuno è libero di fare come crede, non c’è alcuno spettro valutativo, nessun ruolo impostato, se un artista anziché esibirsi vuole occuparsi della cucina quello sarà il palco su cui si misurerà durante cinque giorni. Poi è l’occasione per confrontarci anche tra di noi sulla drammaturgia, sulla scrittura circense ma anche sui temi più disparati in quelle tipiche cene che vanno avanti fino alle tre.