SmotherBarcellona. Fine del maggio 2010. Primavera Sound Festival, palco Pitchfork. Non il palco del cuore, per chi scrive. L’indie rock spacciato per buono, da quelle parti, è troppo, ma occorre esserci e capire se quello per i Wild Beasts era solo un colpo di fulmine o può essere un amore un po’ più serio.

I quattro inglesi attaccano con grande naturalezza le tracce di Two Dancers, il secondo album, dopo l’esordio-esperimento di Limbo, Panto. La folla conosce le canzoni a memoria. I Wild Beasts collocano il baricentro emozionale nelle viscere, con la grazia tipica di chi non rifugge il languore dei sentimenti. Anche per questo, è vero amore.

Originari di Kendal, cittadina nel nord-ovest dell’Inghilterra, già dall’esordio giocoso con il singolo Brave Bulging Buoyant Clairvoyants, nel 2006, si mostrano ben diversi dalla pletora di ritrovato e fastidioso brit-pop degli anni 2000. E a fare la differenza è Hayden Thorpe, voce solista multisfaccettata come cristallo, capace di mirabolare dalla marzialità del registro tenorile alla dolcezza sensuale di un falsetto ammaliante.

Messa da parte l’affiliazione all’insulso grembo generatore di cloni 80’s, la stampa specializzata si rende conto d’essere di fronte, invece, a un art pop ricco di personalità, di certo nutrito da influenze passate, ma assolutamente capace di prenderne le distanze per creare nella gioiosa indipendenza da ogni maestro. Il pubblico non resta indifferente. Tutto è pronto per il passaggio ad una più visibile etichetta e, nel 2008, esce, per la Domino, il primo album Limbo, Panto, che, ascoltato sulla lunga distanza, è atto di felice sperimentazione, inconsapevole bellezza, ingenuità disarmante. Finalmente cosciente d’aver realizzato un ottimo biglietto da visita, la band, nel 2009, dà alle stampe Two Dancers, dove, come amante divenuta sicura di sé, può osare con più disinvoltura.

Il risultato rasenta la perfezione: il dinamismo della voce di Hayden è ulteriormente arricchito dal contro-canto baritonale del bassista Tom Fleming, il barocchismo d’ascendenza Associates – riveduto e corretto da una drammaticità più sottile – non guasta, il languore maestoso à la Antony Hegarty si allarga ad abbracciare pulsioni ed emozioni più vigorose. La danza che ne consegue non ha nulla a che fare con i battiti patinati da indie club o con la svenevolezza del twee pop, ma è richiamo ancestrale agli umori umani, alle passioni, ai dolci antagonismi, in una costante, palpitante tensione tra cuore e testa, con un fulcro collocato però nelle zone basse, senza, per questo, cadere mai nella disgrazia di una gratuita volgarità.

Two Dancers finisce in molte classifiche di fine anno e le aspettative crescono. Trascorrono due anni – forse quelli necessari a tastare il polso della situazione – e il successo diventa non un punto d’arrivo, ma la premessa da cui partire per non rischiare di ripetersi, forti di una consolidata fascinazione di critica e ascoltatori. Il 9 maggio 2011 esce – ancora per la Domino – Smother.

L’ascesa ai piani superiori di una piramide dal sound sempre più ricercato appare da subito ben riuscita. L’utilizzo delle tastiere si alleggerisce di qualche – seppur irresistibile – surplus precedente, l’alternanza delle voci rivendica un meno angusto spazio, la tensione è meno appariscente e più matura. Il risultato è quello di uno spleen ancora una volta sofferto, ma con più discrezione, con una maggiore padronanza nel gestire la propria emotività, prestando attenzione – stavolta – in egual misura tanto alla forma quanto alla sostanza.

L’album si apre con Lion’s Share, elettronico smarrimento delle coordinate interiori à la Morrissey, e il capogiro a sangue caldo di Bed of Nails – nella quale fa capolino ancora una volta il fantasma bellissimo di Billy Mac Kenzie con i suoi Associates – viene poi stemperato dal primo piano in chiaroscuro di Tom, che rende omaggio allo spirito celestiale nell’Eden dei Talk Talk.

Wild Beasts

Il climax arriva presto, come nell’esplodere di una passione troppo a lungo sottomessa al giogo delle circostanze. Loop the Loop parte con una chitarra desolata, protetta dal caldo tocco delle tastiere nel proprio arrancare dolcemente affranto. Hayden tocca con grazia il firmamento, vocalizzando con la sontuosità dei grandi, in un rapimento che non lascia scampo e che prosegue in una trama sonora più diluita e cinematica, accostabile a certa produzione di James Blake, nella sensualità morbosa di Plaything. Dopo l’ulteriore incursione di Tom in Invisibile, il singolo Albatross consegna la scatola chiusa, contenente le linee guida del disco, e, poco prima della fine, con Burning – di nuovo quasi tutta per Tom – si staglia ancora una volta, distante e sfocata,  la figura di Mark Hollis.

Il lungo epilogo (End Come Too Soon) è deliquio serico e denso come nettare, che, per sua stessa natura, lascia spazio – in alcuni momenti – ai soli strumenti, per concedere ad Hayden di tornare a ricamare l’aria e a sussurrare con inebriato abbandono tutta la sua estasi.

Distanti anni luce da ogni emulazione e capaci di prendere le distanze anche da se stessi, pur nella fedeltà alla miracolosa purezza dell’inizio, i Wild Beasts di Smother – come nell’atto sempre più complice di una storia d’amore – rinnovano le nostre certezze, senza privarci della memoria dell’innamoramento di Two Dancers, naturalmente.