Mentre scorrono, sullo schermo, ampie vedute di una natura millenaria, frondosa e veneranda, sovrastate dalla voice over auratica di uno o più dei personaggi, identificare Terrence Malick e il suo stile inconfondibile, maturato nei cinque film diretti dal 1973 a oggi, è quasi un colpo d’occhio. Certo, seguire poi il regista lungo il filo – ammesso che un filo sia rintracciabile – della riflessione filosofica che attraversa la copiosità pantagruelica delle immagini, in quest’ultimo film, The tree of life, Palma d’Oro al recente Festival di Cannes, come nei precedenti, è un’altra faccenda.

The tree of life

Frutto del lavoro intenso di anni e di un montaggio estenuante che ha portato a escludere una fetta cospicua del girato – e in ritardo, di conseguenza, rispetto agli appuntamenti festivalieri ufficiosamente concordati nelle ultime stagioni – The tree of life è ora, finalmente, visibile. Rimane assodato che un’opera simile non può essere vista soltanto, ma va meditata. Le spetta un livello di approfondimento che nessuna recensione, anche la più estesa, può garantirle.

Basterebbe l’epigrafe tratta da Giobbe, uno dei più struggenti libri veterotestamentari, per offrire un saggio dell’opera, e incanalare il critico verso un’interpretazione incentrata sulla sofferenza dei giusti e sull’apparente indifferenza di Dio. Ma un’interpretazione simile sarebbe irrimediabilmente parziale, perché, se da un lato è indubbio che il regista statunitense, autore come sempre anche della sceneggiatura, sviluppi il suo potente poema filmico intorno agli spasmi del dolore insanabile di una madre che ha perduto due dei suoi figli, e del figlio sopravvissuto ormai adulto e abitato da un male lacerante, The tree of life non comprime la propria ambizione in un unico contenitore.

Il dolore attira domande che si concatenano in pensieri spurii, tesi a una verità lubrica e sfuggente. Interrogativi strazianti e spudorati sul significato ultimo dello stare al mondo, sul mistero della vita, sullo scandalo della morte, sulle forze che trainano l’esistenza – la Grazia, indifferente a qualsiasi torto l’uomo possa perpetrare, o la Natura, votata solo alla soddisfazione di se stessa? – in un crescendo spirituale e immaginifico che trascende il piano ontogenetico per guadagnare una prospettiva cosmica, dalla quale scrutare il mondo, le sue leggi indifferenti alla presenza umana, l’origine dei fenomeni biologici.

The tree of life

Malick esige molto dal cinema e dallo spettatore. Non teme di volare alto, dimostrando – ostentando quasi – una fede nella settima arte e nella sua grandezza restia a qualsiasi compromesso con la volgare mediocrità del piccolo schermo (che sappiamo bene averci colonizzati). E questa “storia” (virgolette d’obbligo, dato il carattere fondamentalmente a-narrativo del film) lo conferma. Al centro ci sono la provincia americana degli anni Cinquanta e una famiglia media, gli O’Brien: una madre amorevole (l’eterea Jessica Chastain, eccezionale), un padre controverso, tirannico ma non privo di slanci affettivi (un Brad Pitt, anche produttore, alla sua migliore interpretazione) e tre bambini. Ma c’è anche un uomo adulto, Jack (Sean Penn), mai riemerso dalla relazione conflittuale con quel padre autoritario né dalle disgrazie abbattutesi sulla famiglia. Le voci della madre e di Jack si alternano, guidate da un montaggio frammentario che riflette, meglio di qualsiasi didascalia, lo smarrimento e l’incompiutezza di personaggi fragili che faticano, come ogni essere umano posto dinanzi allo spettacolo soverchiante dell’ineluttabile, a raggiungere la presenza a se stessi. Voci che si domandano se esista una strada per la liberazione dal patimento provato.

Ma ecco che d’un tratto il montaggio rallenta, e la macchina da presa migra, lasciando le terre degli uomini per approdare a visioni della natura selvaggia o del cielo, forse i custodi di un segreto che a noi, ancora, sfugge.

The tree of lifeE se quel segreto fosse, in una parola, l’amore? Proprio mentre sta toccando il fondo, Jack ode, nei padiglioni della memoria, l’insegnamento che, un giorno, gli dispensò la madre: l’amore come unica via per la serenità e la pace interiore. È forse la spiaggia dell’amore quel litorale, pervaso da una luce candida – lode al direttore della fotografia Emmanuel Lubezki – in cui, alla fine, Jack ritrova sé bambino, e i fratelli, e la madre, e, a sorpresa, riabbraccia il padre temuto e odiato? Malick non offre risposte univoche, ragion per cui dobbiamo contentarci d’ipotizzare. Fuori discussione, tuttavia, è la grazia abbacinante di una sequenza che non lascia indifferenti nemmeno l’occhio più miope e i cuori coriacei.

Grazia che, purtroppo, non sempre Malick dà prova di possedere lungo i centosessantatre minuti del film, scivolando, a più riprese, in errori sui quali è difficile sorvolare, considerando la statura del cineasta. Se l’apparato di simboli e allegorie dispiegato, nella maggior parte dei casi, suggerisce una concezione elevata e – perché no? –  aulica dell’immagine, della quale abbiamo un grande bisogno, in altre scelte testimonia invece l’ingenuità di una dismisura autoreferenziale disarcionata da qualsiasi criterio che regga, dando l’idea di scene e di trovate letteralmente sfuggite di mano. Imperdonabile la comparsa dei dinosauri (peggiorativi, per giunta, nella loro rudimentalità, dell’estetica del film), a corredo della riflessione sul principio della vita animale. Troppo estese e ingombranti le “panoramiche” sulla galassia, quando s’intende alludere all’esistenza di un ordine sovradeterminato (i carrelli verticali sul cielo non bastavano?).

Malick sembra aver smarrito, già a partire dalla sua opera seconda, la misura inappuntabile del suo lungometraggio d’esordio, La rabbia giovane, che, nella ponderazione policletea con cui bilanciava l’immensità di una natura inesauribile e la miserabile bassezza dell’animale umano, rimane, probabilmente – non se ne abbiano a male gli adepti di Malick – la sua prova migliore. A connotare i tre film successivi (I giorni del cielo, La sottile linea rossa, The New World) sono stati una ricerca via via più sperimentale e un respiro sempre più ampio, che raggiungono il coronamento in The tree of life, ma lasciano anche intendere che la perfezione va ancora conquistata. O ritrovata.

Terrence Malick