“Il nostro cinema viene apprezzato più all’estero che da noi in patria”. Così, il regista Ryoo Seung-wan ha parlato della situazione della cinematografia coreana alla 13esima edizione del Far East Film Festival, tenutasi a Udine dal 29 aprile al 7 maggio.
Nel lontano paese asiatico, infatti, nonostante i recenti successi in Occidente di alcune pellicole, il cinema vive una situazione di crisi: sceneggiatori sfruttati e mal pagati, mancanza di creatività delle realizzazioni. Una condizione difficile dovuta ad un sistema vizioso che, negli ultimi anni, si è cristallizzato: se da un lato registi, direttori della fotografia e attori percepiscono stipendi molto alti e, soprattutto, riscuotono successo tra il pubblico, dall’altro gli sceneggiatori vivono nell’ombra. Molti di loro fanno fatica a mantenersi economicamente, a causa dello scarso supporto dato dalle leggi che regolamentano il mondo del cinema. Tanto che non è inusuale che i film coreani delle grandi major vengano scritti direttamente dai registi, senza l’aiuto degli sceneggiatori.
Questo problema porta ad una conseguenza immediata: le pellicole raccontano storie monotone con poca creatività e l’affluenza di pubblico nelle sale cinematografiche è scarsa. Il regista Ryoo Seung-wan, quando è entrato in sala durante la proiezione del suo film in concorso al Festival udinese, The Unjust, è rimasto stupito dalla grande affluenza di spettatori e dal successo registrato, tanto da spingersi a dire che “in Corea non sono mai riuscito ad attirare al cinema più di 500 persone”.
Insomma, pochi film significano poco pubblico, che a sua volta significa scarsa popolarità degli attori. Se, infatti, all’estero come in patria, hanno più popolarità i cantanti, gli attori sembrano essere figli di un dio minore. In questo periodo, il potere d’attrazione al botteghino delle star del cinema, nonostante siano sempre sulle pagine dei giornali e al centro delle cronache scandalistiche, è piuttosto scarso. Le case di produzione non corteggiano più i divi per il successo delle loro pellicole, ma si dedicano soltanto all’innovazione tecnologica: film in 3D, servizi di postproduzione all’avanguardia.
Sebbene la grande industria del cinema abbia vissuto e stia tuttora vivendo un periodo difficile, nel 2010 è esploso il fenomeno dei film a basso costo realizzati da registi emergenti che, in alcuni casi, sono riusciti a sbancare i botteghini con più di mezzo milione di biglietti staccati. The Unjust, realizzato con un budget di media entità, grazie al passaparola è riuscito a vendere 2,8 milioni di biglietti, diventando il maggior film di successo dell’anno.
Ma la Corea non è una terra estranea alla globalizzazione. Anche qui, infatti, il mercato ha posto radici profonde. L’entertainment si è infiltrato nella società, creando una forte discussione sul suo ruolo e sulle sue finalità.
Il famoso attore Ryoo Seung-bum, protagonista di Foxy Festival del regista Lee Hae-young – anch’esso in concorso a Udine – spiega questo fenomeno: “La nostra è una società difficile, in cui le star del cinema sono dei personaggi molto e troppo importanti e l’entertainment nasconde i veri problemi della gente”. La società coreana, infatti, è molto conservatrice, rigida e chiusa in se stessa. Su questo pesa anche la storia di questa repubblica, divenuta una democrazia solo negli anni Novanta, in seguito alla caduta della dittatura militare. Tuttavia, anche dopo vent’anni, il cammino verso il cambiamento procede lentamente: la gente ha ancora paura del potere, dei vari potenti locali e della politica, che si infiltra ovunque e nasconde, spesso, la realtà del paese. E a questo si aggiunge l’intrattenimento, che distrae la società dai propri problemi, cercando perfino di farli passare inosservati. The Unjust, raccontando la storia dell’abuso di potere di un procuratore e le violenze sessuali a cui sottopone le sue vittime, è un chiaro esempio di quello che avviene in Corea.
“Il cinema dovrebbe raccontare la realtà e l’intrattenimento fare solo divertire e ridere” ha sottolineato Ryoo Seung- bum. Si dovrebbe fare un cinema che faccia riflettere gli spettatori, che racconti la realtà dei fatti ed aiuti la gente a capire di più il proprio presente. Per anni, durante la dittatura militare, la libertà d’espressione era un privilegio e il cinema era lo specchio del potere. Oggi, con la Corea del Sud divenuta un paese libero e democratico, bisognerebbe che le produzioni cinematografiche recuperino il tempo perduto.
Molti film, d’altra parte, che non sempre vengono bene accolti dal pubblico coreano, vengono bene apprezzati all’estero. Foxy Festival, commedia scabrosa ma seducente e con alcune scene spinte, non ha soddisfatto del tutto gli spettatori dagli occhi a mandorla. Parlare di certi temi, visti come dei veri tabù, non è facile: la sessualità, il rapporto con essa e le fantasie più intime sono ancora argomenti “intoccabili”. Nella popolazione, soprattutto più anziana, c’è incertezza, timore e vergogna nel vedere al cinema i propri pensieri nascosti. A questa paura, si aggiunge lo stress psicologico a cui i coreani sono sottoposti ogni giorno. “La guerra con il Nord è solo sospesa – afferma Ryoo Seung-bum – ma non è mai finita. Da un momento all’altro potrebbero bombardarci, e la popolazione sente molto questa pressione. Fino a quando la situazione non cambierà, sarà difficile avere una società migliore”.
E il cinema, necessariamente, per parlare alla gente deve riprodurre la realtà. Film come The Unjust sono apprezzati dal pubblico perché si immedesima nei personaggi e nelle trame, magari senza comprenderne la problematicità.
Se, allora, è questa la condizione del cinema, quali sono le speranze per il futuro, affinché sia migliore e aperto al rinnovamento?
Una soluzione la offre il regista Lee Hae-young: “Bisogna che il lavoro degli sceneggiatori venga più valorizzato e considerato, così da portare nell’industria cinematografica nuove idee. Il risultato non sarà semplicemente una società nuova, aperta. ma anche un rilancio della creatività del cinema, che potrà così avere successo non solo all’estero, ma anche in Corea”.