“Il passato è una terra straniera. Là le cose si fanno diversamente”. Iniziava così un romanzo di Hartley (The Go Between): la frase potrebbe essere un bel riassunto del lavoro di Carlo Ginzburg. Lo scarto storico tra passato e presente è ciò che spesso ci impedisce di capire le opere d’arte, di tradurle col nostro sguardo contemporaneo. È ciò, d’altra parte, che in Arte e illusione faceva dire a Gombrich che per capire i Greci dovremmo disfarci del Rinascimento.

Il Rinascimento, infatti, introduce un’altra forma della rappresentazione (la prospettiva, per esempio), che influenza tutta l’arte e il pensiero successivi fino ad oggi. Difficile comprendere il passato attraverso un punto di vista che non è quello dell’epoca. Poiché le cose si rappresentavano diversamente, il nostro sguardo ora non può vederle se non deformate, prive del loro valore originario.

Carlo Ginzburg osserva gli affreschi del Giotto
Ginzburg, con un bellissimo studio su Giotto, esplicita tale difficoltà, che è alla base del lavoro storico, ne fonda il paradigma e — se vogliamo — ne è in qualche modo anche la condizione di possibilità: non possiamo che reinterpretare il passato con gli occhi del presente. Non possiamo, detto altrimenti, astrarci dal presente, dal suo modo di vedere, pensare e rappresentare. Il passato dev’essere tradotto nell’oggi per poterlo rendere comprensibile.

Bisogna vedere il documentario di Jean-Louis Comolli, Le peintre, l’historien et le poète: ventisei minuti di piano sequenza durante i quali Ginzburg, aggirandosi per la Cappella degli Scrovegni di Padova, ricostruisce i rapporti reali o immaginabili nelle forme e nei contenuti tra l’opera di Giotto e La Commedia di Dante. La Commedia e la Cappella degli Scrovegni sono due straordinari viaggi nel tempo che ci aprono le porte della comprensione del presente.

Cappella degli Scrovegni

Tra le varie tracce seguite da Ginzburg, c’è una riflessione illuminante sul lungo commento che Proust fa di Giotto ne La recherche. Ci soffermiamo su questa osservazione per vedere come Ginzburg risolva — accogliendola — l’aporia del lavoro storico evocata fin qui. Swann ricorda una sguattera di Combray e la descrive in questo modo: “La povera ragazza, ingrassata dalla gravidanza perfino in viso, perfino nelle gote che ricadevano dritte e quadrate, somigliava infatti abbastanza a quelle vergini, robuste e virili, matrone piuttosto, nelle quali sono personificate le Virtù nell’Arena”.

La Caritas di Giotto, Cappella degli Scrovegni, PadovaLa sguattera, dunque, somiglia a una delle Virtù raffigurate sulle pareti della cappella degli Scrovegni. La cappella è decorata da Vizi e Virtù rappresentati sotto forma allegorica. Le figure, quindi, rinviano attraverso simboli ai caratteri dell’animo umano. La Caritas, per esempio, è rappresentatà dalla maternità. Continua Proust : “E mi rendo conto ora che quelle Virtù e quei Vizi di Padova le somigliavano ancora per un altro aspetto. Nel modo stesso come l’immagine di quella fanciulla era accresciuta dal simbolo aggiunto che portava davanti al ventre, senza aver l’aria d’intenderne il senso, senza che nulla nel suo viso ne traducesse la bellezza spirituale, cosí, senza parer sospettarlo, la possente massaia che è rappresentata nell’Arena sotto il nome di Caritas, e di cui la riproduzione era appesa alla parete della mia stanza di studio, a Combray, incarna questa virtú senza che alcun pensiero di carità sembri aver mai potuto essere espresso dalla sua faccia energica e grossolana”.

Così come la Carità non viene raffigurata psicologicamente con l’espressione sul viso della matrona, la sguattera di Combray non sembra subire l’effetto della sua condizione. L’affresco di Giotto è antipsicologico, perché mette in scena non l’influenza della qualità umana sulla psiche della donna, bensì un simbolo che da solo rinvia a una serie di conoscenze culturali presumibilmente possedute dagli spettatori dell’epoca: l’allegoria della raffigurazione rinvia alla Caritas e in quanto tale assume senso agli occhi di chi osserva senza alcun bisogno di lavorare all’effetto della carità sul volto della “matrona”.

Lo sguardo estremamente psicologico di Proust, invece, mette in relazione quel viso con quello della sguattera di Combray per illuminare un aspetto mentale: una sorta di disinteresse — o distacco — dei soggetti femminili nei confronti di quanto sta accadendo dentro di loro. Proust legge Giotto psicologicamente, con il proprio sguardo, e lo utilizza per interpretare un evento che non è dovuto al modo della rappresentazione, l’allegoria, ma a un fattore psicologico come quello dell’apparente noncuranza dell’essere incinte.

Perciò è nella differenza di prospettive che la Virtù di Giotto diventa significativa, e tale differenza ci permette di cogliere il diverso modo di rappresentazione del Medioevo, distante da quello contemporaneo, come sottolinea Ginzburg. Nel parallelo tra due fenomeni simili, il distacco o disinteresse del volto femminile sono dovuti a cause diverse, cioè l’allegoria in Giotto e la psicologia in Proust: il passato assume senso.

Il lavoro di questo grande scrittore del Novecento — che, come abbiamo visto, reinterpreta con gli occhi della sua epoca, con attitudine psicologica, le raffigurazioni allegoriche e antipsicologiche di un grande artista del Trecento — ci permette di cogliere forme estetiche che resterebbero altrimenti mute. È dunque nella frizione tra due modi di vedere e rappresentare il mondo che il passato si fa intelleggibile nel presente. Secondo Ginzburg, per la precisione, nella diversità tra lo ieri e l’oggi lo scarto storico si presentifica. Non è tramite l’aderenza del punto di vista o il disfarsi delle nostre conoscenze che il passato ci può parlare. Ginzburg, come già accennato, risolve — accettandola — l’impossibilità del lavoro storiografico: è solo attraverso gli occhi del presente che possiamo appunto permettere alla storia di presentificarsi. Il passato ci parla però non per vicinanza, bensì grazie alla distanza presa da se stesso.