Parigi negli anni folli: il Bal è una rinomata sala da ballo e un ‘hôtel d’amour’, un luogo dedicato alle feste e ai piaceri.
Le stesse mura accolgono oggi il progetto dell’associazione Amici Magnum, spazio espositivo che ha aperto i battenti lo scorso settembre. Dedicato al documento visivo e all’indagine delle condizioni di produzione, diffusione e ricezione delle immagini, il Bal si occupa della rappresentazione del reale attraverso l’immagine in tutte le sue forme: fotografia, video, cinema, nuovi media. E non lo fa solo attraverso mostre, ma realizzando dibattiti e conferenze, performance artistiche e programmi pedagogici che insegnino a tutti, ai bambini soprattutto, a sviluppare uno sguardo critico sul documento visivo attraverso dei codici sociali, politici e culturali: l’immagine vista come macchina per pensare.
È una mostra videofotografica quella che fino al 17 aprile ha voluto focalizzarsi sugli inediti album di famiglia di cinque artisti internazionali (Cinq etranges album de famille), che ci fanno rivivere in modi e aspetti completamente differenti i delicati legami di parentela, personali e non, che si sono trovati a esplorare. Delicati, perché la più grande intimità può rivelare tratti di totale estraneità, incomprensione o follia. E la fotografia ha sempre avuto un ruolo importante nella ricostruzione dei tratti identitari di una famiglia, soprattutto attraverso gli album. Quanto presentato al Bal non ha nulla di nostalgico: è atto casomai a sviscerare ciò che Roland Barthes definiva “la forza coscienziale delle immagini”.
Emmet Gowin (1941), primo artista presentato, ha trovato fonte di ispirazione nel suo matrimonio con Edith, celebrato nel 1964. Da allora ha fotografato quotidianamente la consorte e quattro generazioni di parenti nelle rispettive abitazioni. La zona delimitata forma una sorta di “cul de sac”, un’enclave isolata al di fuori del tempo. Caratterizzate da una solenne complicità e da un’inquietante stranezza, le fotografie sembrano cogliere un momento di bilico, quello in cui la chiusura del mondo familiare rischia di divenire il luogo della propria follia.
Erik Kessels (1966) crea un video che ritrae la sorellina mentre gioca a ping-pong. Potrebbe essere una normale ripresa amatoriale, ma la ripetizione forzata delle immagini, degli istanti che ritornano continuamente su se stessi e il ritmo costante della musica (composta da Ryuichi Sakamoto) implicano la presenza di una crescente minaccia. Sempre Barthes suggerisce che è come se alcune fotografie “rinviassero ad un centro sottaciuto”. A un punctum, non visibile, che colpisce lo spettatore. In questo caso è la ridondanza a costruire uno straniamento immaginativo. D’altronde, non è fuorviante evidenziare la radice comune delle nozioni di étrange e étranger, che si riflette in quella italiana tra strano e straniero. Se l’accezione di stranezza viene storicamente attribuita a chi viene da lontano, è forse per esorcizzare il fatto che le stranezze più esorbitanti sono quelle che si producono negli ambienti a noi più vicini, che d’un tratto abbiamo talmente sotto gli occhi da non riconoscere più.
Les aventures de Guille et Belinda et le sens enigmatiques de leurs réves (Le avventure di Guille e Belinda e il senso enigmatico dei loro sogni) è il racconto visivo di Alessandra Sanguinetti, che occupa tutto il piano interrato del Bal. La Sanguinetti fotografa la vita di due cuginette, dalla loro infanzia fino all’adolescenza inoltrata. Se le protagoniste restano le stesse, i loro corpi, i loro sorrisi, le loro aspettative si modificano sensibilmente, al punto che persino Guille e Belinda, alla fine, paiono chiedersi come hanno fatto, a piccoli passi, ad arrivare lì dove sono, così come sono. La stranezza, lo straniero, dimora già nei loro stessi occhi.
Quello della famiglia è un tema caro alla fotografia. Un po’ per gli album, come ricorda il titolo dell’esposizione, che sembrano porte appena socchiuse e poi subito richiuse sul loro passato, che resta un imperscrutabile magma di forme appena accennate. Un po’ perché anche la fotografia ha la pretesa di fissare le istanze mentre tutto il resto scivola via. La famiglia è il luogo ambiguo dove tutto cresce pur restando immobile, dove tutto cambia ripropondendosi continuamente nelle stesse forme, negli stessi legami.
La famiglia è pensosa nell’accezione di Barthes, quando Barthes dice che “in fondo, la Fotografia è sovversiva non quando spaventa, sconvolge o anche solo stigmatizza, ma quando è pensosa”. In questo senso, “l’immagine-documento” che costituisce l’oggetto di studi del progetto Bal non ha niente a che vedere con uno statico riferimento a documenti visivi. Al contrario, come spiega Mitchell nel suo Iconology, l’immagine per essere capita deve essere abbordata come parte della sfera sociale nella sua integralità. Riprendendo Howard Becker, “parlare di significati che deriverebbero da immagini che si lasciano leggere come testi è una cosa; dibattere sul senso che le immagini acquistano e possiedono nella società nella sua complessità e globalità è un’altra cosa”.
Questo l’obiettivo dell’esposizione, che ci fa riflettere sul ruolo dell’arte fotografica contemporanea come mezzo di recupero e reinterpretazione delle rappresentazioni tradizionali. Questo il ruolo del centro di ricerca Bal. Restiamo curiosi di vedere cosa altro ci proporrà in futuro.