
Autore: Elizabeth Strout
Traduzione: Silvia Castoldi
Titolo originale: Olive Kitteridge
Anno di pubblicazione: 2008
Prima ed. italiana: 2009
Editore: Fazi Editore, Roma
Collana: Le strade
Pagine: 381
Prezzo: 18,50 Euro
ISBN: 9788864110332
Nessuno sa tutto,nessuno dovrebbe illudersi. Come se avesse saputo ciò che Harmon non sapeva, che le vite si saldano insieme e a volte le fratture non guariscono. Posò la testa contro la parete dell’androne, giocherellò con la gonna nera ed ebbe l’impressione di aver capito qualcosa troppo tardi, e che probabilmente era così che funzionava nella vita.
Gli aceri si arrossano. Il vento sale, il mare si fa bizzarro, schiumoso. È l’autunno. Olive Kitteridge pianta i tulipani, ogni bulbo ha in sé un fiore per la primavera che verrà. Crosby, Maine. Possiamo immaginarla. Una piccola città dove tutti si conoscono; dove tutti pensano di conoscersi. I racconti di Elisabeth Strout sono intrecciati tra loro come un tappeto di foglie autunnali: ogni foglia ha una sua particolare forma, il suo sistema di nervature, la sua irripetibile declinazione cromatica, ma trova pieno significato soltanto nell’essere sovrapposta, sottoposta, legata alle altre. I personaggi stretti in un triangolo di cielo, di oceano, di boschi, appartengono ai loro giardini, alle case di legno salse, che sono nido e prigione, sogno e impotente tentativo di fermare tra quattro mura l’irrequieta forza della marea. La vita. Giovane, montante nel secondo racconto – forse l’unico con lieto fine -, nera come il tempo che si dispiega ora lento, ora brusco, inesorabile sempre, e mangia illusioni e promesse, nel resto del libro.
Olive Kitteridge — protagonista, attrice di spalla, comparsa o autrice di memorabili detti — entra in ogni racconto come una divinità imponente e altera, come presenza critica e concreta, come spirito severo e incidente. Eppure questa dea, davvero giunonica d’aspetto, spigolosa di carattere, scendendo tra gli uomini ne condivide la fragilità. Sposata al mite farmacista Henry, impazzisce di disperazione quando muore il collega insegnante Jim O’Casey, di cui era segretamente innamorata, incrinando in modo irreparabile i rapporti familiari; inflessibile madre di Cristopher, opprime il figlio con il suo rigore e lo circonda poi di morboso affetto spingendolo verso un’esistenza smarrita e squilibrata. È una donna di cui Henry Kitteridge può dire “In tutti gli anni che siamo stati sposati, non credo che tu abbia mai chiesto scusa una volta. Per nulla”. Superbia in fondo, oppure l’insicura intransigenza di chi non sa sbagliare, di chi non sa dire: “Non puoi vincere. Nemmeno quando fai del tuo meglio”. Eppure noi la salviamo perché è assurdamente innamorata della vita, perché vecchia valchiria malata non si arrende alle ferite degli anni. Perché è capace di consigliare ai suoi studenti: “Non abbiate paura della vostra fame. Se ne avrete paura sarete soltanto degli sciocchi qualsiasi”.
Intorno a Olive personaggi di ogni età – le sette età della vita di Shakespeare non sono citate a sproposito – affollano questo suggestivo campo di battaglia in riva all’Atlantico, aperto a tutti i venti. Come è aperta a tutti i venti la vita nel suo sorprendente, inesauribile dispiegarsi di forme e situazioni; nel sole che si infila tra le tende, nella pioggia che oscura le stanze, nella neve che copre e chiarisce. Per il tempo che ci è concesso.
E se il nostro è un tempo spesso doloroso, se il nostro è uno sguardo che non riuscirà mai a cogliere il senso segreto del nostro essere al mondo, Elisabeth Strout dice in tutta la sua pienezza l’avventura umana. È pienezza la parola chiave di questo libro. Non siamo in grado di conoscerci fino in fondo, non conosciamo gli altri se non incidentalmente ma abitiamo il mondo e lo riempiamo di noi.
Lo cambiamo con i nostri gesti, lo coltiviamo come un giardino. Possiamo farlo pieno con le nostre parole: è quello che ha fatto Elisabeth Strout.