Dopo Donnie Darko (2001), che ormai – meritatamente o meno – si è istituzionalizzato in un cult movie generazionale, dopo Southland Tales – Così finisce il mondo (2008), che ha decisamente raffreddato la critica, Richard Kelly approda a una terza prova che, purtroppo, non lo riscatta: The Box – C’è un regalo per te riconferma l’involuzione di un autore che sembrava la nuova promessa di certo cinema contemporaneo e, in qualche modo, porta alla luce le contraddizioni di uno stile che fatica a trovare un baricentro. Non è solo questo. Qui la stessa scelta di contenuto era impegnativa e portava con sé un importante confronto tanto con la brillante idea originaria – il racconto breve “Button! Button!” di Richard Matheson – quanto con l’ottima trasposizione televisiva nell’episodio “La pulsantiera” della celeberrima serie Twilight Zone (Ai confini della realtà). Per resuscitare queste due piccole perle “tele-letterarie” era fondamentale trovare la giusta chiave interpretativa, ai fini di riplasmare efficacemente l’idea primigenia entro i codici angusti del lungometraggio mainstream: la rilettura di Richard Kelly e l’operazione di riadattamento finiscono invece col costruire un film bifronte che, se aggancia lo spettatore nella prima parte, lo disorienta completamente nella seconda.
L’introduzione di registri mistici e visionari sopraggiunge in un momento in cui è già ora di tirare le fila ed è talmente esasperata da non riuscire a ricomporre le premesse dell’inizio. Va detto, l’apertura convince: nella descrizione degli interni e nel tratteggio della vita familiare piccolo-borghese apprezziamo l’allestimento di inquadrature ben calibrate avvolte in un’atmosfera retrò dal sapore pubblicitario e, paradossalmente, godiamo di una buona gestione dei tempi drammaturgici. Qui anche l’architettura della suspense, che si appoggia ai ritmi lenti e ipnotici di stampo hitchcockiano, produce un buon coinvolgimento psicologico. C’è poi un realismo di fondo, supportato dall’accurata ricostruzione d’epoca e dalle scenografie suggestive, che incontra felicemente la fotografia luminosa degli anni ’70 e che concorre a creare un mood di drammaticità fredda e straniante. In alcune scene la Diaz riesce persino a dare il senso della presagio serpeggiante e della quiete apparente che ricorda “l’orrore immobile” di certe atmosfere lynchiane, mentre il Signor Steward (un convincente Frank Langella) incarna un maligno subdolo e sotterraneo, capace di ammaliare con la grazia e la sinuosa pacatezza della tentazione.
Con l’inizio del secondo tempo, però, il film compie una sorprendente e ingiustificata virata di registro: la vicenda si complica, apre ulteriori piste narrative e, nel tentativo di amplificare la tensione, annacqua il nucleo emotivo che era riuscito a mettere in piedi, disattivando tutto il potenziale psicologico che aveva innescato. La riflessione sull’egoismo come motore della Storia, il senso di colpa, la responsabilità, il rimorso, la naturale inclinazione al male della specie umana, la portata autodistruttiva del denaro, tutto si sposta da un piano individuale (o familiare, se vogliamo) ad una cornice lata e futuribile (la missione aliena, l’ipotesi del complotto, il coinvolgimento degli organi di Stato) che inibisce le corde emotive dello spettatore. Il timone perde completamente rotta nel momento in cui assistiamo – un po’ divertiti, a questo punto – all’esperienza mistica della giovane coppia. Qui la regia decide persino per un occhiolino a Kubrick (il monolite d’acqua e la breve esperienza nell’Aldilà). Insomma, Kelly partorisce una creatura indomabile e sigilla il pacchetto con un messaggio sicuramente suggestivo – la fisiologica vocazione autodistruttiva della specie umana – ma inquinato in nuce da una facile moraletta cristiana. Il meccanismo della scatola è sicuramente deflagrato, forse anche troppo, ma non ne abbiamo compreso le conseguenze.