Seconda opera in cartellone, se si esclude l’onnipresente Aida (sempre più uguale a se stessa), Madama Butterfly, fonte di tanto dolore per Puccini, costretto a scappare dalla Scala di Milano in occasione della prima assoluta di questa opera orientaleggiante. Un giorno qualcuno dovrebbe prendersi la briga di spiegare il motivo per il quale un così importante numero di opere liriche che oggi rendono ancora spendibile il nome dell’Italia nel mondo, al momento della loro apparizione siano state cassate aspramente, non solo dai critici che si sa essere, appunto, critici per vocazione, ma da gran parte del pubblico pagante. Cosa non funzionò in “Un bel di vedremo” – una delle arie più incredibilmente sensuali dell’intero repertorio operistico italiano – o nella voce della bellissima sua prima interprete, Rosina Storchio, amante di Toscanini e tra i primi grandi soprano del novecento.
Ad ogni modo, tornando ai giorni nostri, la Butterfly a cui abbiamo assistito nella irripetibile cornice dell’Anfiteatro scaligero, segna il trionfo nudo e crudo del realismo più spinto, che si esprime in una sontuosa parata di chimoni “multicolor” e, sparse sulla scena, figurine giapponesi, per un trionfo totale di umanità orientale. Emi Wada firma i costumi della Butterfly così come nella Turandot e, si sa, Wada è un giapponese tutto tondo, capace di vincere uno strameritato Oscar per i costumi di uno dei più convincenti affreschi visivi di Akira Kurosawa, ovvero quel docu-film, “Ran”, che tanto assomigliava a un Macbeth in chiave orientale.
Il colpo di scena, ormai marchio di fabbrica del regista toscano, arriva quando con un complesso gioco di macchine di scena, appare la casa di Cio-cio-san, interpretata da una habituè dell’Arena. Stiamo parlando di Hui He, sicuramente abile nel fraseggio e capace di emissioni salde e convincenti, ma decisamente mediocre dal punto di vista scenico e interpretativo, come un poco tutti gli interpreti orientali in genere. Il Pinkerton di Carlo Ventre non desta alcun tipo di sussulto nel cuore dello spettatore, assolve alla sua funzione dal punto di vista vocale, mancando di restituire la trasformazione profonda di un personaggio che passa dalla vanità irriverente al rimorso per avere sedotto e abbandonato una giovane geisha della città di Nagasaki.
Il mezzosoprano georgiano Anita Rachelishvili non ha ancora un profilo sulla nota enciclopedia online Wikipedia, ma questa lacuna sarà colmata ben presto, perché stiamo parlando di una delle più importanti promesse della lirica mondiale. Lanciata dalla Scuola del Teatro alla Scala di Milano, il giovanissimo mezzosoprano georgiano (che da come l’impressione di potersi cimentare pure in partiture più elevate), debutta l’anno scorso in Carmen e, attesissima, si presenta per la sua prima “outdoor” nell’anfiteatro veronese, dove Toscanini suggeriva di giocare a bocce, piuttosto che cantare. Anita sembra in piena forma sia dal punto di vista vocale sia da quello estetico, che in era di televisioni e contratti pubblicitari non guasta affatto. Al suo fianco troviamo un Don Josè interpretato da Marcello Alvarez che quando è al suo meglio ha la capacità di farti venire i brividi, come in effetti a molti è capitato l’altra sera. Anita ha una voce morbida e perfettamente appoggiata, nonostante la sua giovane età, capace di acuti ben al di sopra di quanto viene normalmente richiesto ai mezzosoprani, inoltre, si muove sul palco in modo talmente sensuale ed estroso da indurre lo spettatore a valicare le barriere che lo dividono dal palco. Alvarez paga una certa discontinuità, ma regala momenti ineguagliabili, per via di qualità vocali che oggi non si sentono facilmente in giro. In particolare, il duetto con Micaela “ La fleur que tu m’avais jetée” scalda quella metà del pubblico femminile emotivamente indifferente alle avvenenze della bella georgiana. Silvia Della Benetta è una Micaela, come dicono i saggi, “da rivedere”, nel senso che pare dotata di ben altri mezzi rispetto a quanto mostrato. Il toreador Escamillo ha la voce di Mark S. Doss, ma non certo la verve necessaria per interpretare un personaggio che necessariamente deve esprimere una grande varietà ed estensione vocale, decisamente lacunosa in Doss. Regolari gli altri interpreti.
Quello che si rileva è un inspiegabile calo di pubblico in occasione della prima della Carmen di Bizet: opera lirica di maggior impatto dal punto di vista ludico, ma poco e male apprezzata dal pubblico italiano e in particolar modo veronese. Ridotto è anche l’apparato scenografico, rispetto all’anno scorso, almeno ciò appare a prima vista. Collaudatissimo allestimento, che da ben quindici anni gira il mondo, la Carmen di Zeffirelli ha riscosso tanti consensi quanto critiche, per via dei suoi costumi fastosissimi curati da Anna Anni e a proposito delle coreografie pirotecniche del bolzanino-madrileno El Camborio, collaboratore storico di Zeffirelli regista teatrale e cinematografico. “Last but not least”, come dicono gli inglesi, menzione speciale per l’affascinante direttore bulgaro Julian Kovatchev, ovvero ultimo direttore d’orchestra premiato personalmente dal maestro Herbert von Karajan in occasione dell’ultimo omonimo concorso da lui stesso diretto. La sua direzione è limpida e capace di posare l’accento nei momenti di maggiore espressività dell’opera. Le due celeberrime arie “Et tu lui diras que sa mère” e “Je dis que rien m’épouvante” scatenano gli applausi della folla, che sembra accorgersi della bravura di questa stella mondiale della musica classica.