Beatrice Biggio (BB): Uno dei tuoi documentari più conosciuti riguarda l’uragano Katrina che ha colpito New Orleans, puoi raccontarci di come è nato quel lavoro?
Leslie Woodhead (LW):In quel periodo avevo iniziato a fotografare, non so perché ma mi aveva sempre intrigato. Queste due passioni, la fotografia ed il Jazz, sono sempre state parte della mia vita. Poi, finalmente, nel 2005 ho avuto la fortuna di mettere le due cose insieme in un film riguardante un fotografo jazz i cui lavori vengono spazzati via durante l’uragano Katrina, e così ho fatto un film su di lui, con lui, sul suo tentativo di ricostruire l’archivio delle sue splendide fotografie jazz che vanno dal 1940 a New Orleans fino ad adesso, a Los Angeles dove ora vive. E adesso sto facendo un libro con lui, quindi è stata una grande fortuna la possibilità di mettere queste cose insieme, non dimenticherò mai quanto io sia stato fortunato.
BB: Passiamo al documentario che hai presentato qui al Trieste Film Festival. Nel 1962 tu eri lì, al Cavern, a registrare. Com’è…
LW: Com’è successo? Praticamente per caso: ero molto giovane, avevo appena cominciato la mia carriera in televisione alla compagnia televisiva di Manchester, e stavamo facendo dei piccoli film su tutti quei contrasti che stavano accadendo nella nostra regione, e uno di essi riguardava la musica. Facemmo un film con la tradizionale banda di ottoni nello Yorkshire, e cercammo la cosa più agli antipodi che potessi trovare, e qualcuno mi parlò di questi ragazzini di Liverpoll che avevano iniziato a far rumore, non avevano ancora inciso nulla ma chiamai un tale di nome Brian Epstein che mi disse di andarli a vedere, e fu straordinario. Facemmo un piccolo filmato con loro durante una pausa pranzo al Cavern Club, e poi loro conquistarono il mondo. Fu una cosa straordinaria da vedere, la velocità con cui avvenne.
BB: Quindi parlasti con loro quella notte, credi che avessero idea di quello ciò che stava per succedergli?
LW: Si, parlai coloro. E no, intendo dire, avevano tutta l’arroganza che ti aspetti potessero avere. Ricordo che Paul McCartney disse “Abbiamo scritto tutte queste canzoni ma nessuno vuole ascoltarle”, quindi stavano facendo principalmente cover di canzoni r&b Americane, quasi nietne di loro, non era il mio genere di musica ma era assolutamente da rimanere a bocca aperta, mi prese letteralmente lo stomaco, era così eccitante! Quando filmammo durante la pausa pranzo era praticamente la prima volta sul palco di Ringo con la band, poiché erano circondati dal pubblico che diceva “Vogliamo Pete, vogliamo Pete!” il loro precedente batterista, quindi stavano appena cominciando a diventare i Beatles in quel periodo. E nessuno poteva immaginare che costa stava per accadere loro, è una storia fantastica, che ho osservato affascinato, poiché li ho ovviamente seguiti lungo quegli anni. Tornarono diverse volte presso i nostri studi TV a Manchester durante la metà degli anni ’60, anche solo per dire ciao. Ma poi iniziarono ad andare in orbita (ride).
BB: Nel film ci sono molti personaggi, molte persone con cui parli, e tutti dicono che hanno fatto la differenza, che hanno “rockeggiato”, che hanno “rockeggiato” l’impero. Come mai? Perché i Beatles e non i Rolling Stones, per esempio.
LW: Perché, è una domanda molto interessante tra le altre cose, non è che non ci fossero fans dei Rolling Stones nell’Unione Sovietica, c’erano ovviamente. Ma c’era qualcosa riguardo i Beatles che andava ben oltre l’essere rock and roll. I ragazzini russi amavano la melodia, innanzitutto, ne andavano matti, a volte anche la melodia sentimentali. Quindi le canzoni che i Bealtes stavano facendo, in particolare quelle che Paul scriveva, Michelle, Yesterday, quel tipo di canzoni “scioglieva i loro cuori” come diceva uno dei miei amici sovietici “rockettaro”. Non capivano nemmeno il testo, quindi era la sensazione della musica, la gioia che esprimeva e la libertà che sembrava provenire che fece la differenza, e sciolse il cuore di milioni e milioni di adolescenti sovietici. E come qualcuno spiegava nel film che è andato in onda ieri sera, il tempismo fu assolutamente perfetto. Arrivarono nell’Unione Sovietica nel preciso momento in cui la vita stava diventando veramente noiosa per i ragazzini.
Mr. Brezhnev era appena salito al potere, c’era meno libertà, c’era maggior controllo da parte dello stato, non c’era gioia ne sesso in ciò come disse qualcuno, e dall’altra parte c’era questa carismatica, eccitante, in qualche modo pericolosa band, pericolosa nel senso che prendeva in giro le autorità, il che è una cosa che la leadership comunista aveva sempre visto di cattivo occhio, sapevano di essere minacciati ma non sapevano in che modo, e venire presi in giro era un grosso, grosso problema, non sapevano come comportarsi in merito. Milioni di adolescenti scoprirono che potevano ridere dei loro leader, o perlomeno dimenticarsi di loro e andare avanti con le loro vite, a modo loro, nelle loro case, e staccarsi da ogni tipo di pensiero di far parte di una struttura socialista. E, gradualmente, si inserirono in un paese dove la cultura aveva sempre avuto un notevole impatto nel promuovere il cambiamento, voglio dire, per due secoli artisti, musicisti, scrittori teatrali, poeti, avevano cambiato il modo di vedere le cose in quella parte del mondo. Loro rientrarono perfettamente in quello schema.
BB: Ti sei interessato ai paesi dell’est per tutta la tua vita. La tua vita da Spia, puoi dirci qualcosa al riguardo?
LW: Nel 1950 la mia fu l’ultima generazione di ragazzi in Inghilterra che dovevano fare la leva obbligatoria, e io venni reclutato nella R.A.F., la Royal Air Force, e mi venne insegnato il russo così da diventare una spia di basso livello che “origliava” a Berlino prima che venisse costruite il muro. Dovevo ascoltare i piloti sovietici che volavano dentro e fuori dalla Germania dell’Est, e scrivere una lunga serie di rapporti. Molto, molto noioso, mi sembrava di “guardare i treni” ma, per un anno, è ciò che feci. E niente di tutto ciò fu una parte importante, o affascinante, di ciò che stava accadendo in quella parte del mondo.
BB: Realizzasti ciò che stavi facendo? Pensavi che fosse un lavoro da spia, o qualcosa d’altro?
LW: Non so cosa fosse, era un lavoro, molto noioso, abitudinario. Solo quando feci un film al riguardo, qualche anno fa, mi resi conto della grande disegno di ciò che stavamo facendo, e di come questo si inserisse nella guerra fredda, poiché nessuno ce ne aveva parlato, e non eravamo incoraggiati a fare domande. Ci veniva detto soltanto di continuare a scrivere quei messaggi quasi senza senso dei piloti, la parte più abitudinaria dei loro voli. Quello che non sapevamo era che c’erano persone in grado di tirare fuori un senso da quelle cose, e che riuscivano a costruire un “disegno” del movimento delle truppe, se ci fosse o meno un rischio che i sovietici stessero per scontrarsi con l’Europa occidentale. Eravamo una piccola, piccola parte di quel disegno.
BB: Hai anche girato in Iran in un determinato periodo. Come ti sei sentito?
LW: Faceva molta paura…
BB: Cosa ne pensi della situazione attuale?
LW: Adesso è orrendo, ma ci fu un breve momento, quando girammo quel film — non mi ricordo che anno fosse — nel quale si ravvisava una piccola crescita di opportunità, di possibilità in Iran. Fu un momento molto strano, poiché eravamo stati in grado di intervistare un certo numero di giovani studenti che avevano tenuto in ostaggio gli americani nell’ambasciata, oltre ad aver intervistato gli ostaggi. Fu possibile farlo lì. Anche se fu molto rischioso. Voglio dire, era molto facile trovarsi al momento sbagliato nel posto sbagliato, mi era stato confiscato il passaporto perché, per una strana convinzione, in una fotografia che avevamo scattato poteva esserci un edificio di sicurezza sullo sfondo.
Ma fu comunque possibile farlo, e riuscimmo ad avere qualcosa anche dall’archivio di ciò che accadde nel 1979 quando iniziò la rivoluzione Iraniana. Rimane una delle poche cose, o forse l’unica, che venne fatta al riguardo con la collaborazione di coloro che tenevano gli ostaggi, perché poco dopo divenne impossibile. E adesso è molto spaventoso e sospetto che, anche se ci vorrà un po’ di tempo, si stia arrivando ad una conclusione di quella rivoluzione, ci sono molti ragazzi. Voglio dire, anche quando noi filmammo, quasi metà della popolazione era sotto i quindici anni, tutti parlavano in segreto di come erano stufi della polizia religiosa e delle restrizioni che venivano messe alle loro vite. Sono passati altri 10 anni da allora, e le persone sono ancora più arrabbiate, quindi qualcosa scoppierà, credo, ma è un regime molto resistente, non credo che se ne andrà sena combattere.
BB: Cosa mi puoi dire sul tuo progetto in Etiopia, va ancora avanti, stai facendo qualcosa al riguardo?
LW: No, ho fatto abbastanza, ho girato sei film con lo stesso gruppo di pastori nomadi in una angolo dell’Etiopia. Adesso c’è un problema reale per loro, perché , a nord di dove si trovano loro, sta per essere messa una diga al grande fiume lungo il quale sfamano le loro “vite” e fanno crescere i loro raccolti. E non è chiaro se saranno capaci di sopravvivere, visto che dipendono unicamente da quello. Mi piacerebbe fare un film al riguardo, ma sarà molto difficile, perché le autorità sono determinate, e probabilmente sono costrette a costruire questa diga per provvedere al fabbisogno di energia elettrica di milioni e milioni di Etiopi molto poveri, ma rimane una questione aperta di come potranno andare avanti quelle persone, che noi filmiamo sin dal 1974. Se potranno continuare quella vita, anche se la loro vita ha iniziato a cambiare rapidamente già da tempo, e adesso cambierà ancora di più, credo.