Ulisse, l’uomo dal multiforme ingegno, è stato oggetto di spunto per poeti, scrittori, pittori e musicisti: le pieghe della sua anima sono state accuratamente osservate, i moti del suo spirito magistralmente descritti e, ancora oggi, il personaggio vive tra noi. L’immortalità e la contemporaneità del personaggio vengono sottolineate dalla Contrada attraverso l’allestimento di Capitano Ulisse di Alberto Savinio, uno spettacolo prodotto dalla Contrada stessa, dal Teatro Fondamenta Nuove di Venezia e dalla Biennale di Venezia. Il pubblico triestino ha avuto modo di avvicinarsi al personaggio da una prospettiva molto particolare: quella metafisica. Alberto Savinio, alias Andrea de Chirico, assieme al fratello Giorgio fu, infatti, promotore della scuola metafisica di Ferrara che diede il via alla allora innovativa corrente pittorica.
Ma cosa significa accostarsi alla figura di Ulisse attraverso uno sguardo metafisico? Il regista Giuseppe Emiliani spiega chiaramente agli spettatori il connubio, ricreando sul palco tutti gli elementi caratteristici del personaggio saviniano. Il primo impatto arriva attraverso le scenografie ideate da Andrea Stanisci che proiettano immediatamente lo spettatore verso una tela metafisica: il richiamo alla classicità, i molteplici punti di fuga che costringono l’occhio a cercare l’ordine di disposizione delle immagini, i colori piatti ed uniformi; tutti elementi che conferiscono alla scena la tipica sensazione di mistero, solitudine, allucinazione e sogno dei quadri di de Chirico e Savinio.
Le musiche di Massimiliano Forza allungano le ombre come pennellate decise, fanno danzare colonne secolari, soffermandosi sugli oggetti, e scuotono personaggi e spettatori durante i colpi di scena. L’inedita trasposizione del Capitano Ulisse riprende alcune tappe dell’eroe dell’Odissea, focalizzandosi sui rapporti che il tormentato uomo di mare instaura con le donne incontrate nel suo viaggio: Circe, Calipso e Penelope, interpretate da Vanessa Gravina. L’accento sulle relazioni con il femminile trasla il personaggio dal piano mitico a quello umano, regalando agli spettatori, grazie alla realistica interpretazione di Edoardo Siravo, un Ulisse incompreso, infelice e perennemente insoddisfatto. Per inseguire il suo ideale di donna (Penelope), lascia Circe e Calipso ma, alla fine, quando si ricongiunge con l’immagine del suo desiderio sentimentale, non riconosce l’amata e riparte nonostante l’immensa stanchezza.
Virgilio Zernit, nei panni dell’autore, dialoga con il personaggio ed insieme a lui ripercorre le tappe della sua vita: Savinio, infatti, nasce ad Atene, si sente un uomo senza patria — a causa dei suoi frequenti spostamenti tra la Grecia, Monaco, Parigi e l’Italia — e dedica la sua vita alla scoperta continua della conoscenza. L’inserimento dell’autore nel testo, richiama inevitabilmente la concezione pirandelliana del teatro nel teatro. Savinio, infatti, fu tra i fondatori della Compagnia del Teatro dell’Arte, diretta da Luigi Pirandello. La sensibilità al classico si evince dalla circolarità numerica che il regista mette in scena: le tappe dell’Odissea (in greco nostos) sono, infatti, dodici, numero degli insiemi perfetti; si alternano luoghi in cui l’insidia è manifesta (mostruosità, aggressione, morte) a luoghi in cui l’insidia è solo latente.
Savinio nel suo testo presenta le tre tappe in cui l’ospitalità nasconde un pericolo, un divieto da non infrangere; Emiliani decide di riprendere l’elemento triadico facendo interpretare tre ruoli a Vanessa Gravina, a Maurizio Zacchigna e a Marzia Postogna. Il risultato non è solo un’impegnativa e originale prova d’attore per i protagonisti della pièce, ma una vera e propria immersione nel mondo ellenico. Un testo difficile, una grande lezione di vita per la nostra società eternamente insoddisfatta, che rincorre il mito ma che raramente è in grado di godersi il presente.