Anche quest’anno il S+F, fortunato festival fantascientifico triestino, si è dimostrato molto generoso: il pubblico ha potuto godere di una rosa di pellicole selezionatissime, partecipare a incontri con maestri del calibro di Roger Corman e assistere a dibattiti di alto valore umano e intellettuale.
Ma c’è sempre un angolo buio, meno frequentato, che tuttavia non ha nulla da invidiare alle altre iniziative.
La sezione cortometraggi ha richiamato un pubblico sicuramente ristretto (appassionati del genere e qualche curioso intento a coprire il quarto d’ora che lo separava dalla proiezione successiva) ma, va detto, c’è un piccolo viaggio anche lì, sospeso, tra i tre, i nove, i quindici minuti. Se si è passata una mezzoretta in sala corti, ci si è subito resi conto di come la fantascienza (termine ombrello che raccoglie anche tracce di fantasy e horror), sia probabilmente il genere più congeniale alla forma cortometraggio; anzi, in qualche modo, potremmo dire che la fantascienza trova attraverso questa particolare modalità espressiva un luogo privilegiato. La compressione spazio – temporale e la necessità di un’idea forte (che spesso scivola nel cliché) permettono di giocare una grande sfida sul fronte delle dilatazioni immaginative e delle creazioni d’atmosfera.
Non va dimenticato, peraltro, che la fantascienza (come anche l’horror) è un genere puro che predilige la spettacolarità e l’alto contenuto emotivo e che spinge lo spettatore ad un’esperienza quasi epidermica. Ad ogni modo è curioso osservare come la selezione di quest’anno abbia dato particolare evidenza di questo connubio genetico: in effetti, ogni assaggio fantascientifico, ha richiamato alla mente filoni conosciuti e lungamente frequentati, e ripercorso suggestioni che hanno dato vita, nel corso della storia del cinema, a veri e propri micro-generi.
Ma non è solo questione di contenuto, anche lo stile gioca un ruolo fondamentale: i rinvii e le tangenze a determinate cifre registiche si sono spesso resi espliciti o comunque fortemente riconoscibili. Konvex-T (Svezia), ad esempio, solo per citare un caso tra i tanti, aveva tutta l’aria di una parto cronemberghiano. In questo senso il vincolo della brevitas e la visione in successione sembra dar contezza di un gusto e di una sensibilità tutt’interna all’umore nazionale. Generalizzando, le prove nordiche (Svezia e Norvegia) sono accomunate da un sentimento di degrado d’ambiente, livido e ostile, tipico di quei territori cinematografici, mentre la mise en scene dei corti italiani insegue quel descrittivismo a volte didascalico di certa produzione nostrana. Danse macabre, canadese, si colloca invece su un piano di forte sperimentazione visiva.
In qualche modo, insomma, la visione dei cortometraggi sembra offrire una lettura semplificata ma illuminante delle diverse direttrici narrative e stilistiche che il genere fantascientifico utilizza come una sorta di armamentario pronto all’uso, con la differenza che qui – per ovvie ragioni – non sono permesse troppe sovrapposizioni di registro. Sembra infatti che, limitati dal short format, gli autori siano costretti a posizionarsi chiaramente dentro un micro-genere e a sfruttare il tempo a disposizione per imbastire un universo dall’immaginario forte e credibile.
Il bambino diavolo di Breed (Spagna) si lega infatti ad un sotto-filone immortale che richiama la tematica forte della madre che genera il figlio del diavolo. Infiniti i richiami a cult, dalla Rosemary di Polanski a Omen il presagio, per citare solo degli esempi; qui, tuttavia, la storia è trattata con un realismo raggelante e gli effetti speciali lavorano sul profilo del maligno in maniera sorprendente. D’altronde, a ben pensare, la matrice vampirista gode di ottima salute soprattutto negli ultimi tempi (Twilight, Lasciami entrare).
Ma inseguiamo un altro filo: quello del catastrofico, micro-genere monumentale che si rinnova a scadenze regolari. In H5N1 (Italia) si opta per la sotto-categoria virus letale. Lo spettatore è proiettato in uno scenario di desolazione post atomica, immerso nella cornice immaginativa di una pandemia destinata ad estirpare definitivamente il genere umano. In chambers (Norvegia) invece si spinge in territori limitrofi; affine al registro di 28 giorni dopo, questo cortometraggio sonda la deriva sociale e psicologica di una possibile catastrofe senza però offrire i contorni nitidi dell’antefatto; ma la tematica della malattia che spazza via l’impronta umana la ritroviamo anche in Vespers (Regno Unito), dallo stile onirico; qui lo spettatore è immerso in un’atmosfera di agghiacciante presagio e guarda attonito l’ultimo uomo sulla terra alla disperata ricerca del simile.
Di impronta decisamente cronemberghiana – a riprova del fatto che la cifra del regista canadese rappresenti quasi un genere a sé – anche Else (Francia) e Konvex-T (Svezia). Nel primo assistiamo ad un lento e inesorabile morbo che ha i contorni di una mutazione genetica: la protagonista, una giovane donna, viene progressivamente fagocitata dall’ambiente circostante che la decompone e la cementifica. Nel secondo siamo ai limiti della repulsione visiva: Konvex-T è la storia un giovane operaio che produce delle cisti sottocutanee dalle quali si auto-generano organismi mostruosi. Immancabile il filone zombie che ritroviamo in Plague (Regno Unito): lontano dalle atmosfere alla Romero, qui troviamo dei non morti – proiezione delle paure di un trafficante d’armi – talmente artefatti da risultare per contrappunto ancora più reali.
Un’altra ramificazione di genere insegue il pattern della macchina che si ribella all’uomo. Pathos (Italia) è un processore teconologicamente avanzatissimo in grado di simulare virtualmente i sensi. In questo cortometraggio, vediamo la testa di un uomo collegata – per via di una sorta di cordone ombelicale – ad un enorme computer. La strana creatura si trova costretta a pagare con una carta di credito l’accesso ai cinque sensi artificiali che sembrano offrire emozioni potenziate. L’idea del sesso e della violenza vissuta in una sorta di trans cerebrale ricorda il fortunatissimo Strange Days. In Virtual Dating troviamo lo stesso clichè, sebbene imbevuto con buona dose di sarcasmo. In questo interessante film francese, una giovane donna acquista un uomo telecomandato per poter vivere una sera romantica, ma il robot sembra gradualmente riconquistare una coscienza e ribellarsi violentemente alla donna. Il rinvio è a A.I Artificial Intelligence e all’imminente Avatar.
Di sapore ben diverso risulta invece The traveller (Regno Unito) che mette al centro il discorso sulla possibilità di manipolazione spazio temporale. La storia è quella di una bambina che trova un orologio capace di far rivivere episodi di vita vissuta. La linea narrativa – anche se di tutt’altra cifra – è quella di Ritorno al futuro, una delle saghe più celebri del cinema contemporaneo. Su ancor differente dimensione si colloca Danse Macabre (Canada), nel quale si sfiorano le sponde della videoarte. In un’atmosfera inquietante assistiamo ad una vera e propria profanazione: un corpo cadaverico viene mosso, spostato e rovesciato attraverso dei complessi macchinari.
La Germania presenta un film tutto di cornice proponendo l’orribile segreto di una stanza d’albergo. The room è un film che corre lungo il filo dell’ambientazione, di per sé claustrofobico (l’ascensore, la stanza, il ripostiglio), che sembra costituire un’altra nicchia all’interno del genere. Ovviamente non possono mancare le sperimentazioni animate: La Main des Maitres (Francia) e Man still goes to the moon (Bosnia) aprono un ulteriore scatola cinese. Qui il mood è tutto plasmato sull’intensità del segno grafico e sui tempi del racconto che, specialmente nel primo, seguono un movimento lentissimo, a tratti fotografico, dove la musica gioca un ruolo determinante.
Insomma, questo corollario di assaggini fantascientifici non offre, come si potrebbe pensare, un dettaglio bensì un totale ed esplora territori certamente esclusi al lungometraggio: la necessità della sintesi più estrema, l’assoluta coerenza, l’architettura attenta e calibrata. Tutta una serie di non detti, non visti e non sentiti hanno la capacità di dilatare gli orizzonti immaginativi risvegliando inquietudini e proiezioni fantasmagoriche che ogni spettatore – quasi in seduta psicoanalitica – custodisce originalmente dentro allo scrigno privato delle sue paure più intime.