Peter SparrowOne, presentato al Science Plus Fiction 2009 dal giovane regista ungherese Peter Sparrow, è un film visionario e onirico. È una di quelle scommesse che non molti cineasti al primo lungometraggio oserebbero fare. Una sceneggiatura intrigante e volutamente ambigua regge inquadrature insolite, montaggi sperimentali e un interessante proliferare di spunti di riflessione. Non ci sono risposte ma solo tanti ami. Niente interpretazioni, solo visioni. Così come sono da elaborare i dati del misterioso libro, restano negli occhi le immagini da codificare di Sparrow. E se l’intento dichiarato del regista era il proporre una diversa e molto personale esperienza di cinema, la scommessa può dirsi vinta.

Cristina Favento (CF): Iniziano dalla lettura che ha ispirato questo film: come mai Stanislav Lem e perché quel testo (la sceneggiatura ispirata al suo One Human Minute[1], ndr)?

Peter Sparrow (PS): Sono incappato in questa breve storia quando ero un adolescente e, da allora, mi è sempre interessato il modo in cui si poteva visualizzare. In una delle primissime frasi del testo si diceva che dalla storia sarebbe stato impossibile trarre un film, anche se tutto il contesto della storia è visivamente in tensione. L’ho trovata una sfida.

CF: Come hai costruito la sceneggiatura?

PS: All’inizio dovevamo capire questa trama nella sua graduale “struttura mista” poiché non sono abituato ad usare le storie per raccontare, ma per permettere allo spettatore di arrivare alla mia comunicazione visiva. Per me la storia è sottomessa all’immagine e non il contrario. Solitamente creo uno scheletro simmetrico come base, e poi costruisco le mie idee come fanno i musicisti, o i pittori: in maniera molto intuitiva, libera e giocosa, sostenendo l’idea che “l’improvvisazione è la radice della creazione”. Per questo motivo la mia sceneggiatura non vuole mai essere pronta, ma deve essere continuativa.

CF: Questo è il tuo primo film, come sei arrivato alla regia? Da dove hai iniziato, e qual è il tuo obiettivo?

PS: Dirigere per me non è una scienza. Credo sia una comunicazione tra un singolo individuo e gli altri. Ho cercato di essere onesto con i miei attori e la mia troupe, e penso che questo sia l’unico modo per garantire che il mio film sia capace di essere onesto anche con il pubblico.

CF: Guardando le immagini, la struttura, il suono… L’impressione è che, invece di una struttura da “cinema di narrazione”, tu abbia usato una sorta di linguaggio poetico nel tuo lavoro, non è vero?

PS: Secondo me, il linguaggio originale è il poema.

CF: Quali sono secondo te le regole – se ce ne sono –  nel girare un film?

PS: Che non ci sono regole.

CF: Quando hai presentato il tuo film a Trieste, hai parlato di “mirando a e non raccontando nulla alle persone”, in modo di far vivere loro un’esperienza. Che cosa intendevi?

PS: Non lo so. Probabilmente volevo dire che non mi piacciono delle affermazioni perentorie nell’arte, preferisco chiedere.

Una scena del film

CF: È inolte interessante la tua opinione riguardo ai film come degli strumenti artificiali che non possono essere veramente chiari. Puoi spiegarci meglio anche il concetto dei limiti ambigui fra pieno e vuoto, tra ciò che che le persone possono capire e accettare nel cinema, e quello che invece non possono?

PS: Le persone credono di dover capire, anziché credere di poter capire. Io sono molto più attratto da ciò che non capisco. I miei film cercano sempre di far realizzare allo spettatore che egli pensa in una maniera in cui nessun altro pensa, ha mai pensato o penserà mai.

CF: Ti sei anche lamentato perché questo non sembra una scelta popolare, quali sono le difficoltà nel fare film oggi?

PS: Se non sei interessato ai soldi, è difficile ottenerne.

CF: Dovrebbe esserci una netta divisione tra arte visiva e cinema, secondo il tuo parere?

PS: No, al contrario…

CF: Pensi che questo modo di procedere sia possibile solo nella fantascienza o è stato un caso che tu abbia scelto questo genere per iniziare?

PS: Non ho mai considerato il mio film come sci-fi. Sono stato subito associato a quel mondo proprio per via di Stanislaw Lem.

CF: Continuerai su questa strada o hai idee diverse per il futuro?

PS: Molto diverse.

CF: Quali sono i tuoi modelli? Hai menzionato il Neorealismo italiano, come mai? E chi altro ha influenzato i tuoi lavori?

Peter SparrowPS: Ho parlato di Neorealismo, nello specifico ho citato Fellini, perché credo che chiunque non si relazioni con quel cinema non abbia niente a che spartire con il fare cinema. Chiunque o qualunque cosa può avere un’influenza su di me. Basta che sveli qualcosa di non visto.

CF: C’è qualche connessione con la situazione del mondo reale?  È, in qualche modo, l’obiettivo del tuo film l’essere critico nei confronti della realtà o sbaglio?

PS: C’è assolutamente una connessione. Se cerchiamo di essere seri riguardo noi stessi, l’unica posizione che possiamo assumere è quella all’opposto di ciò che chiamiamo realtà.