Copertina del libro In un paese di madri
Titolo: In un paese di madri
Autore: A.M Homes
Anno di pubblicazione: 2009
Titolo originale: In a country of mothers
Traduzione: Adelaide Cioni, Tiziana Lo Porto
Editore: Feltrinelli, Milano
Collana: I narratori
Pagine: 294
Prezzo: 17, 50 euro
ISBN: 978-88-0701-788-9

Jody non era stata capace di proteggere la parte più fragile di sé, e così era scomparsa. Senza qualcuno lì a difenderla, la vera Jody non era riuscita a sopravvivere. Come la sua madre biologica non era riuscita a prendersi cura di lei neonata, e la madre adottiva non era stata capace di badare alla sua bambina malata, Jody non aveva saputo prendersi cura di sé. Nessuna di loro era stata utile all’altra. Era questa la verità della sua infanzia, della sua vita; la verità non detta che aveva temuto per tutta la vita.
In un paese di Madri, A.M. Homes

Raggiunsero il mio orecchio remoti canti di sirene americane dai nomi esotici quali Michael Cunningham e New Yorker. Entrambe le voci riportavano della scrittrice A.M. Homes, la prima ammaliandomi con codeste parole: “È una delle più coraggiose, più impressionanti scrittrici sulla scena letteraria di oggi. Non rinuncia mai a rischiare, e comincia a sembrarmi che possa essere capace praticamente di tutto”; e la seconda seguitava che, la novelliera, era tra i  “venti scrittori per il nuovo secolo”. Essendo io più un San Tommaso che un Ulisse, nella canicola estiva acquistai dunque a caro prezzo il libello…

In quest’ultimo lavoro, In un paese di madri (edito nel Belpaese dalla casa editrice Feltrinelli), la penna della Homes traccia immagini e figure sulle immacolate facciate senza la minima sbavatura, come fosse un “madonnaro”, utilizzando colori primari dalla giustezza madornale e affinando profili con maestria di precisione. Ne germina una scrittura scorrevole e pulita, asciutta e ben tornita — forse troppo? —, che concede gran respiro e senso del ritmo alla sintassi. La ricorrente presenza di dialoghi nel tessuto narrativo, inoltre, fa sì che alla mente tornino le sceneggiature cinematografiche.

A.M. Homes

Non ci si aspettino arabeschi secenteschi, allegorie ardite o proustiani periodi, dunque. Se siete amanti dei tempi e dei tropi d’aulici cantori, non so quanto questo scritto vi possa incantare. Di struttura tripartita, manco fosse una pièce bien fait di Eugène Scribe, la trama complessiva dell’opera è costantemente tenuta a fil di piombo, e continuando, l’ordito è saldamente vincolato: sono esigue le digressioni azzardate, se non quelle ingegnosamente affidate ai riverberi dei personaggi per dar loro il dovuto costume. Dopotutto gli strumenti utilizzati dalla compositrice sono da ingegneria letteraria: la Homes insegna scrittura creativa alla Columbia University! A portar un po’ di ristoro a cotanto autenticismo accademico, ci pensa il così detto sense of humor disseminato qua e là in retta misura. Fuor di dubbio, però, rimane la peculiare capacità dell’autrice di condensare la realtà e di riproporla in forma di fiction.

In passato la narratrice ci aveva fatto partecipi, con immaginifiche vicende, dei labirintici rapporti all’interno della famiglia, portando alla luce una realtà latente composta da nevrosi, pulsioni e fobie. E dopo aver raccontato la propria personale esperienza dell’adozione nel memoir La figlia dell’altro — con grande coraggio: nomi veri, storia vera -, con questo romanzo rielabora l’argomento da un’altra prospettiva. La volontà è di indagare quale sia il sentimento di una madre che dà un figlio in adozione; ma anche di capire i meccanismi di relazione che intervengono nel rapporto tra paziente e analista.

In un milieu cristiano-ebreo upper-middle class tra le avenue della Grande Mela, ci viene narrata la vicenda di due donne. Jody Goodman, ventenne agli inizi nel mondo del cinema, si ritroverà sulla soglia dello studio di Claire Roth, psicanalista quarantenne, sposata con un avvocato, due figli, e un grande, smisurato segreto: quando era diciottenne aveva dato in adozione una figlia costretta dalle pressioni dei genitori… “Aveva lavorato sodo per costruirsi quella vita, quel matrimonio, quei bambini, e adesso sospettava di aver fatto tutto per procurarsi una copertura, in modo che nessuno si accorgesse dell’inganno. Viveva nel terrore di essere scoperta”.

Jody è una giovane ragazza che è stata in terapia per riuscir a forgiare la sua identità, nel tentativo di emanciparsi dalla famiglia che l’aveva adottata dopo aver perso un figlio. Fortuitamente va in cura da Claire perché si ritrova a dover prendere una decisione importante: se andare alla scuola di cinema a Los Angeles oppure no. Rispettate le distanze, con amletica memoria si potrebbe rileggere la situazione con un teschio in mano: partire o non partire? Qui sta il problema. L’eventuale partenza sottoporrebbe Jody all’ennesimo lutto dell’abbandono, dovendosene andare dall’altra parte dell’America lasciando i genitori, e offrirebbe il fianco ad uno sconosciuto divenire portatore di dolcetti e scherzetti. Tra transfert, controtransfert e resistenze (“Chi di psico-analisi s’intende, sa dove piazzare l’antipatia che il paziente mi dedica” esclamava tempo fa il Dottor S.), Claire inizia a cambiare il tema delle sedute e a rivolgere le sue attenzioni ai particolari dell’adozione di Jody: i luoghi, le date, i modi e le persone sembrano coincidere con la sua vicenda giovanile.

A.M. HomesLa psicanalista si ritrova a perdere la distanza necessaria, nella sua mente si instaura a poco a poco la certezza che Jody è quella figlia che credeva ormai perduta. Cerca così di recuperare quel senso di colpa che per anni l’aveva consumata e con cui aveva convissuto, e mentre i pazienti le portano nel suo studio i problemi del mondo, lei ne sogna uno nuovo da costruire con la sua “nuova/vecchia” figlia. Purtroppo, quest’equilibrio precario non ha storia. Jody Goodman e Claire Roth, come cartine tornasole, esprimono e subiscono la potenza di un amore inibito alla meta e la “maestà dell’essere madre”: Jody non vorrà scomparire, ma diventare un’altra irriconoscibile; Claire invece, si lascerà trascinare da sentimenti di ossessivo affetto che porteranno alla rovina le due donne all’acme finale. Un thriller psicologico dall’estremo tragico, un romanzo molto newyorkese, o forse “occidental-popolare”. In fuga dal passato e dalla propria identità, schiacciati da una realtà difficilmente accettabile, in un’incessante lotta tra l’io sociale e quello più personale, la Homes attraversa queste pagine fitte di elementi autobiografici affidandosi a Freud come medico curante.