Se ascoltiamo due lavori dati alle stampe dal violoncellista Zeno Gabaglio — il primo, solista, Uno, e il secondo, in collaborazione con Andrea Manzoni alle tastiere, e cioè il progetto Gadamer — possiamo riscontrare uno degli elementi probabilmente fondanti, centrali della musica contemporanea, o meglio uno degli elementi principali che ne informa la problematicità e che è insieme uno dei fattori originari di essa: la ricerca della forma, e si intende una ricerca della forma dopo che questa è stata persa, è sfuggita.
Per addentrarci in una questione tanto complessa come questa, è di estrema utilità la lettura di una nota che lo stesso Gabaglio appone al primo lavoro di cui qui si parla, Uno. Scrive Gabaglio: “Questo disco è uno perché la musica che ci sta dentro è nata da un solo strumento, in un solo momento performativo e nell’unità estemporanea di gesto ideativo e gesto esecutivo ”. È proprio ciò che qui noi abbiamo posto in corsivo che rappresenta un punto centrale della questione, e cioè lo statuto stesso dell’improvvisazione, questo slancio apparentemente immediato — cioè non-mediato —, questa ricerca della forma. Gabaglio qui parla di un’”unità”, una unità di atto del pensare e di eseguire (due “gesti”): è lo svolgersi creativo dell’improvvisazione, non una serie di variazioni di un tema precedentemente dato, ma il suonare a partire dal nulla, da un momento-zero.
Questa “unità estemporanea”, e cioè simultaneità, è in effetti immediata, oppure è a sua volta mediata da un momento precedente che ha determinato o aperto (a seconda che si voglia porre l’accento sulla necessità o sulla libertà, anche se sarebbe bene pensarle insieme) il momento stesso in cui si dà l’avvio all’improvvisazione, che vive di una relazione reciproca fra atto del pensiero e atto dell’esecuzione, dove nessun momento è un primum assoluto? La risposta non è affatto ovvia, ma è già qualcosa aver problematizzato la questione. Interroghiamo però la musica stessa di Gabaglio, splendida quando esprime melodie suggestive come in Chiara e le sue variazioni, e estremamente interessante quando si muove nell’ambito più sperimentale e contemporaneo della ricerca di una forma.
In quest’ultimo caso siamo posti di fronte al tratteggiare quelli che Fabrizio Garau ha chiamato “paesaggi sonori più che […] composizioni strutturate”, in riferimento alle tracce meno “convenzionali” di Uno. Una questione simile si solleva per le tre tracce di improvvisazione presenti in Gadamer, in cui tale compito è svolto da Gabaglio insieme a Manzoni.
In entrambi i lavori, alla ricerca di un forma — i momenti propriamente più “astratti” dei brani — si accompagna il trovare una forma e poi di nuovo perderla, perché sfugge. È quello che si ravvisa soprattutto all’interno di Uno, dove una sorta di immobilità sonora prelude all’insorgere di forme: è un’immobilità che è in realtà momento della ricerca, del prepararsi, dell’emergere della forma. Ma essa, una volta colta, continuamente sfugge, si dilegua, ed è questo un carattere preciso della musica contemporanea.
Al contempo, occorre ripensare tutto questo cogliere e sfuggire come a un processo unitario, occorre ripensare a tutto il movimento come a un insieme, e in questo modo appare tutta la ricerca della forma nel suo complesso come una struttura. Si infrange così la deriva irrazionalistica raramente non di moda negli ultimi anni, secondo la quale ogni struttura imbriglierebbe la assoluta creatività del soggetto, anzi, non si potrebbero dare più strutture, ogni forma sarebbe la costrizione, la forzatura di un fluire incontenibile del suono. Non solo Chiara e le sue variazioni stanno qui a mostrare la possibilità e la bellezza della forma, ma anche tutti i brani di ricerca mostrano questo movimento del suono verso la forma e il suo dileguare, un movimento continuo.
Quale forma, oggi? La ricerca delle forme, il processo che Gabaglio mostra in ogni suo momento, è insieme liberazione dalle forme false e ormai false del passato e momento della crisi, in cui nuove forme non sorgono stabilmente. Oppure questo è il tempo delle forme che sfuggono? Sia pure così, ma anche questa è una forma. Ma oltre a ciò che è caduto, l’interrogativo è posto da ciò che resta. E cioè, se la forma oggi è così problematica perché la sua cristallizzazione, la sua fissità può apparire, suonare come falsa, perché le grandi opere del passato ci parlano ancora (e sono grandi proprio perché ci parlano)? Semplicemente perché, oltre ad essere opera dello spirito di quel tempo, sono assurte al livello di ciò che è universale, una parola che gli irrazionali alla moda amano poco. Ma universale è anche lo straniamento (o almeno così pare ai nostri occhi oggi), che serpeggiava già negli ultimi maestri delle forme e venne espresso successivamente da quelli che quelle forme destrutturarono.
Ciò, però, non si compie senza problemi, come indicava Adorno quando ravvisava nelle stesse serie di Schönberg l’irrigidirsi in nuove forme, nate dal tentativo di farle saltare tutte. Tutto ciò è come sempre segno dei tempi, e si offre al pensiero il problema enorme di ciò che è manifestazione del proprio tempo e di ciò che attingendo pur ad esso lo supera, ed è l’universale, come il vero. Oggi, come Gabaglio mostra, si lavora anche direttamente sull’emergere, nell’emergere della forma, mostrando tutto il processo. Quanto questa forma sia solo di questo tempo e quanto colga, anche negativamente, dell’universale, ad oggi ci è estremamente difficile determinarlo. Molti problemi sono stati così aperti, e sono rimasti tali; in ogni caso, l’arte di Gabaglio ci ha imposto delle domande essenziali.