“Il mondo è quel disastro che vedete, non tanto per i guai combinati dai malfattori, ma per l’inerzia dei giusti che se ne accorgono e stanno lì a guardare”
Albert Einstein (1879-1955), fisico tedesco.
Sguardo primo.
Fucine Mute è sempre stata un libero calderone di sguardi. E fortunatamente continua ad esserlo, anche se – secondo Freedom House – l’Italia è stata declassata a paese in condizione di semilibertà di stampa. Mi stavo chiedendo come la usiamo questa libertà, e se la usiamo abbastanza, finché c’è. A tutti noi la risposta.
Sguardi altrui.
Nel numero di questo mese proseguono le esplorazioni chartacee grazie all’intervista realizzata dall’intrepida Lorenza Pravato alla giovane autrice emergente Francesca Bonafini e all’irresistibile recensione di Domenico Policarpo, dedicata al Dizionario di letteratura a uso degli snob di Fabrice Gaignault. Irresistibile, dico, perché vi si coglie il frutto di uno sguardo timido e appassionato assieme, così è il nostro Policarpo.
È uno sguardo colorato, spiritoso e iperbolico, invece, lo sguardo di Lorenza, che un po’ si butta, un po’ si intimorisce, un po’ crea. È uno sguardo in movimento, insomma, in evoluzione. Come quello di Cristian Bugatti, in arte Bugo, catturato da Sara Visentin, che ha saputo pazientare e cogliere finalmente l’attimo al New Age di Treviso. Da tutt’altri universi musicali giunge invece Zeno Gabaglio, ritratto da Giorgio Grimaldi, eppure anche le sue improvvisazioni al violoncello suggeriscono l’idea di uno sguardo altrettanto irrequieto.
E poi cinema cinema cinema: è questa una sezione di Fucine Mute i cui contributi non scarseggiano mai, che non smette di entusiasmare e di far riflettere, in un appassionato tentativo di decifrare la magia di quegli sguardi che hanno saputo emozionarci. La promettente Valeria Blanco, sempre a zonzo tra un set e l’altro, ha incontrato per noi questo mese Margherita Buy, alle prese con il difficile ruolo interpretato ne Lo spazio bianco. Daniele Piovino, dopo alcune felici incursioni nel cinema underground made in USA, ha pensato di volgere lo sguardo alle pareti di casa Italia, per capire come vanno le cose secondo Umberto Massa.
Hanno portato avanti i propri lavori con puntuale dedizione anche Marta Zacchigna e Matteo Cavalli. La prima – nell’ambito della trattazione incentrata sui trailers cinematografici – dedicandosi allo studio dell’interpellazione diretta, il secondo proseguendo l’analisi degli ambienti domestici di celluloide attraverso un’incursione nelle camere da letto più amate degli spettatori cinematografici di ogni tempo.
Immancabile all’appello anche il nostro Paolo Ghiotto Marin, che continua a farci innamorare e disamorare di Cuba, e a travolgerci nel suo flusso di coscienza da argonauta dallo sguardo critico ma allo stesso tempo sognante.
Filosofico è invece l’approccio al mondo di Alessandro Alfieri, che si tratti di cinema, teatro o arte. Questa volta si è trattato di una mostra dedicata a Hirosige che si è trasformata in un pretesto di esplorazione dei rapporti tra Oriente e Occidente.
E sullo sguardo nostro, di noi fuciniani, che dire? È uno sguardo di attesa. A tratti incazzato, se pensiamo a dove finiscono certi finanziamenti e alla fatica che facciamo noi, invece, per tirare avanti, con le unghie, coi i denti, e con la voglia di continuare ad esserci. A tratti sconsolato, se guardiamo un po’ più in là, se allarghiamo lo sguardo.
Corrispondenze.
Restringendolo, invece, senza parlare al plurale e ricollegandomi all’apertura di questo editoriale: non so che dire. Sarebbe un momento questo – storico, nazionale, culturale, sociale, personale, redazionale, eccetera – nel quale molte cose andrebbero dette. Eppure non escono. Così è. Forse è questione di tempo, non di inerzia si spera, o più probabilmente è questione di modo. Il modo nel quale si dicevano le cose prima sembra non bastare più. Perché guardandosi attorno, sempre più frequentemente, ci si accorge di come non ci sia corrispondenza. Tra dire e fare, tra dire e sentire, tra dire e dare. Il dire centra sempre meno col resto. Si dice senza corrispondenza. Senza limite, senza pudore, senza pausa. O senza che poi succeda nulla. E anche di quel dire con un minimo di corrispondenza rimane poco.
Ma sto scrivendo senza un filo, e mi fermo dunque qui senza proseguire perché non so ancora dove voglio andare a parare. Non so neppure se il discorso avrà un seguito, né quando. Mi sento, in questo momento, una persona senza sguardo. Aspetto e spero che non sarà troppo tardi se e quando riuscirò a trovare un nuovo modo per dire. Per non rimanere tra quelli, giusti o meno non si sa, che restano a guardare.