Al Teatro Verdi di Trieste, nei giorni precedenti al debutto della Norma allestita lo scorso febbraio da Federico Tiezzi, c’era una presenza silenziosa che si aggirava per il teatro con occhio vigile. Una signora dall’accento toscano che aggiustava orli e lacci, studiava lunghezze e scollature, verificava la distribuzione di armature ed elmi, osservava attenta la vestizione delle parrucche, dava indicazioni ai truccatori sulle tonalità di rossetto e ombretti. Percorreva incessantemente piani e corridoi, ispezionava camerini e scene, costantemente a caccia di dettagli, quasi avesse paura che potesse sfuggirle qualcosa. “È la signora Buzzi, la costumista” — mi spiegarono le sarte sottovoce, con un certo tono rispettoso — “una che sa il fatto suo”.
Cristina Favento (CF): Quali sono, secondo lei, le caratteristiche indispensabili per un buon costumista?
Giovanna Buzzi (GB): (Ride, nda) Troppo generica questa domanda! Intanto dipende se è un costumista di cinema, di prosa o di lirica, che sono già tre cose un po’ diverse nell’ambito dello stesso mestiere. In tutti i casi, uno deve entrare in sintonia col regista che dà la sua chiave di lettura dello spettacolo. Per esempio, qui, stiamo facendo Norma e di Norme ce ne possono essere diversissime versioni. Innanzitutto, quindi, devi capire e lavorare in stretta collaborazione con lui. Poi devi documentarti sui riferimenti sia storici, che pittorici o musicali. Devi avere la documentazione più solida possibile sulle vicende storiche del periodo, per capire l’epoca in cui l’opera è stata scritta la musica ma anche l’eventuale epoca in cui si potrebbe ambientare. Dopodiché devi partire liberamente, seguendo una strada più tradizionale oppure inventandoti delle cose tue. Il risultato può essere il più diverso ma devi sempre partire da una base di conoscenza, della storia dell’arte, della musica, dello spettacolo teatrale.
CF: Quali sono i suoi modelli, se ce ne sono? Ha dei riferimenti specifici che l’hanno indirizzata nel suo mestiere?
GB: Ho lavorato per trent’anni con Pierluigi Pizzi, che nasce come scenografo costumista e da tanti anni fa anche il regista, solo di lirica. Poi sono nata nella sartoria di Relli, che è una delle più importanti sartorie italiane a Roma. E ho avuto anche la fortuna, la prima volta che ho messo piede in un teatro, di lavorare al Don Carlos alla Scala fatto da Luca Ronconi per la stagione del bicentenario. Ho lavorato al laboratorio di progettazione teatrale di Ronconi e quindi questi sono i grandi personaggi che mi hanno fatto amare il teatro.
CF: Quando ha iniziato il suo percorso era orientata verso questa professione?
GB: All’università ho studiato storia dell’arte però quando mi sono iscritta non sapevo dove sarei andata a parare. Ho sempre disegnato per conto mio ma il mestiere l’ho imparato poi proprio entrando dentro i teatri, dentro le sartorie, facendo l’assistente, il percorso completo dalla gavetta, respirando proprio l’aria del teatro, l’aria della sartoria, lavorandoci dentro, facendo qualsiasi cosa ci fosse bisogno. Sono mestieri che si imparano più con la pratica che non sui libri.
CF: Decisamente. E che succede, in senso pratico, una volta che si è documentata e fatta un’idea precisa?
GB: A quel punto mi lascio andare! (ride, nda) Allora disegni, poi ci sono altri incontri col regista, con lo scenografo, il lavoro insomma procede di comune accordo. Certi suggerimenti li do io, certi loro. Bisogna anche vedere chi sono i cantanti, chi gli attori.
CF: Che tipo di interazione c’è con le altre professionalità?
GB: Il bello di questo lavoro è che sia individuale che collettivo. Hai la parte di studio e di prima elaborazione che è individuale, e ovviamente devi scegliere i tessuti, i materiali, tutto. Poi dai disegni ti devi misurare prima in sartoria coi sarti, con quello che fa le scarpe, con quello che fa le parrucche, col laboratorio che ti fa la lavorazione, quindi è un lavoro collettivo. E ancor di più quando arrivi in teatro e provi i costumi alle persone. Il momento di verifica reale è la prova costume. La prima volta che vedi tutti i costumi assieme sul palcoscenico con le luci e i movimenti ti accorgi se la cosa funziona oppure no. Fino alla prima è un montare di un lavoro. Nella lirica, secondo me, è fondamentale l’apporto di tutti. Se fosse solo musica sarebbero dei meravigliosi concerti, e invece c’è anche la parte visiva. Quando funzionano e sono buonissime sia quella musicale che visiva, allora scoppia quella scintilla in più che a volte c’è, a volte no. Quando c’è lo spettacolo si può dire veramente riuscito.
CF: Ha dei ricordi particolari, un allestimento al quale è rimasta particolarmente legata proprio dal punto di vista dei costumi?
GB: Finito qua (la Norma di Tiezzi al Teatro Verdi di Trieste, nda), vado a rifare alla Scala Il viaggio a Reims di Rossini, che feci nell’84 con Abbado, Ronconi, Aulenti e tutti i cantanti più grandi che c’erano in quegli anni. questo quindi è uno degli spettacoli che ricordo con più intensità. Anzi, ora lo so adesso come sarà (rifarlo, nda) perché dopo tanti anni non so se avrà la stessa forza.
CF: Le è capitato di fare dei cambi radicali in corso d’opera, anche in fase già avanzata di produzione dello spettacolo?
GB: Come no! Fino al debutto tutto si può fare. È capitato che abbiamo tinto non so quanti costumi tra l’antigenerale e la generale (le prove che si fanno con il cast completo in costume la sera prima del debutto, nda). Coi costumi ho sempre la sensazione di poter intervenire (in qualsiasi momento, nda), a me farebbe molta più paura il lavoro dello scenografo, perché se non hai dei macchinisti e dei tecnici che ti montano una cosa non puoi intervenire. Col costume prendi un paio di forbici o lo butti dentro a un pentolone, è più facile riuscire a cambiarlo. Poi magari non è vero, perché se devi cambiare cento costumi non è così semplice. In ogni caso, l’idea di poter intervenire personalmente mi rassicura un po’ di più.
CF: Che consiglio si sentirebbe di dare a chi sona di intraprendere la sua stessa professione?
GB: Dopo aver studiato gli anni giusti ma non troppo — non suggerirei di perder troppo tempo dietro a specializzazioni o università di moda o di costume —, di infilarsi prima possibile dentro a un teatro, una sartoria, un laboratorio scenografico. Per cominciare insomma dalla pratica. E poi bisogna esser sempre curiosi, il bello di questi mestieri è che ogni volta ricominci da capo, il lavoro non è mai uguale alla volta precedente. Anche se fai dieci volte Aida saranno sempre dieci Aide diverse. Questa è la cosa più bella.