Barry LevinsonBarry Levinson, cineasta di Baltimora ha compiuto 67 anni lo scorso 6 Aprile, è un vero e proprio factotum. Regista, attore, produttore, sceneggiatore cinematografico e televisivo, ha alle spalle oltre 40 anni di carriera. Nel 1999, l’American University of Washington gli ha conferito la laurea honoris causa nelle belle arti per il suo impegno in ambito cinematografico. Tirando le somme, nonostante alcuni clamorosi flop troppo pretenziosi, possiamo solo applaudire questo “pezzo” dell’amata e odiata Hollywood, autore di pellicole di alto livello, ammirato e ben voluto dagli attori da lui diretti e dai tecnici con cui ha collaborato.

Levinson ha iniziato la lunga strada nello show-business americano come scrittore di testi per tv e teatri locali, evidenziando brillanti tendenze cabarettistiche e satiriche, che si ripresenteranno puntuali nelle sceneggiature di alcuni dei suoi film degli anni successivi. D’altronde, da uno che è stato tra gli sceneggiatori dell’Ultima follia di Mel Brooks (1976) e autore del Carol Burnett Show, non ci si poteva che attendere pellicole pungenti ed esilaranti commedie che spaziano dalla satira politica a quella di costume.

Ecco prendere vita l’irriverente quanto esilarante disc-jokey Robin Williams in Good Morning Vietnam, oppure i “salva empeachment” (Roberto De Niro e Dustin Hoffman) di Sesso e Potere, l’esibizionistaJoe Pesci di Jimmy Hollywood e l’arguto e frizzante showman, di nuovo Robin Williams, ne L’uomo dell’anno. È proprio questa vena umoristica a portare alla luce le migliori qualità di Levinson dietro la macchina da presa, anche se l’autore non ha mai lasciato trasparire un vero e proprio stile di regia: ha mantenuto, piuttosto, un atteggiamento sobrio, distribuendo bene le storie nelle fasi cruciali, senza esaltazioni o evoluzioni sceniche. Bisogna riconoscergli, inoltre, notevoli abilità professionali nella scelta dei propri cast poiché si è spesso circondato di attori di primo livello; sono noti, infatti, i sodalizi con Robin Williams e Dustin Hoffman (chi non ricorda il suo Raymond in Rain Man, che gli valse un meritatissimo Oscar?). Ben sei diversi attori da lui diretti hanno ricevuto nomination dall’Academy Awards.

Rain man per la regia di Barry LevinsonLevinson predilige da sempre storie incentrate sulle persone. Basti pensare alla sua prima regia, A cena con gli amici (1982) e all’autobiografico Avalon (1990), entrambi ambientati nel Maryland, a Baltimora; al pluricandidato agli Oscar Bugsy del 1991 (10 nomination, nemmeno una statuetta) o ancora al “mezzoriuscito” Sleepers (1996) e alla sopra citata punta di diamante della sua filmografia Rain Man, col quale vinse l’Oscar per la Miglior Regia.
“Oggi è sempre più difficile realizzare film sugli esseri umani” lamenta però il regista, “sono come una specie in via d’estinzione. Troppo spesso si tende a semplificare la storia senza entrare a fondo nei personaggi”. Ma è questa una tendenza che poco lo riguarda: nonostante si sia cimentato con pellicole di vario genere, Levinson ha sempre messo in risalto le vicende umane dei tanti personaggi da lui diretti.

E se alcuni clamorosi insuccessi al box-office ne hanno pregiudicato la posizione, tanto da costringerlo ad allontanarsi fisicamente da Hollywood, è pur vero che ha saputo rialzarsi, offrendoci ancora storie brillanti e graffianti come le sue prime sceneggiature. Il momento più basso della carriera di Levinson è toccato forse all’azzardato e pessimo, Toys (sfortunata stavolta l’accoppiata con Williams), troppo pretenzioso e poco necessario. Evidentemente, il quasi settantenne del Maryland ha manifestato altrove il connubio perfetto tra talento cinematografico, comicità cabarettistica e humor satirico. Ripercorrendo le tappe del suo percorso verso la mecca del cinema, troviamo ottimi esempi storie convincenti, appassionanti, ironiche e con personaggi di spessore. Come la commedia sportiva Il migliore con Robert Redford e il family d’avventura Piramide di paura prodotto da Steven Spielberg, oltre a quelle citate sopra.

È un dato di fatto che, se non si è dotati del talento visivo di Stanley Kubrick, Sergio Leone o Akira Kurosawa, e non si posseggono le capacità stilisiche di Alejandro Inarritu o Gus Van Sant, ogni tentativo di sconfinare rispetto ai propri limiti rimane vano. Così nascono i disastrosi Sfera, film psico-fantascientifico che si rifà liberamente al Solaris di Andrej Tarkovskij sebbene ufficialmente tratto da un romanzo di Michael Crichton, e il “mobbing thriller” Rivelazioni, entrambi scarsamente supportati da sceneggiature mediocri e da una regia piatta. Fino al grottesco e più che noioso L’invidia del mio miglior amico, dove (assieme forse a Toys e al sufficiente Bandits, passato però inosservato) si intuisce un accenno di “manierismo registico”.

Diciamolo apertamente: la regia di Barry Levinson ha un ritmo prettamente televisivo, quasi da sit-com, che giustamente fa il paio col suo spiccato senso dell’intrattenimento e con l’esperienza maturata, agli esordi, negli show in cui ha lavorato. Non vuole essere questa un’analisi dispregiativa nei confronti del regista americano, bensì un tentativo di mettere l’accento sulle sue doti migliori. Ci sono registi portati per un certo tipo di pellicole, al di là delle quali, semplicemente, faticano ad esprimere le loro qualità. Non si sarebbero potute chiedere al maestro Hitchcock un’opera storica o una commedia “cinepanettone”, così come non potremmo aspettarci un film d’autore dai Vanzina. Sono stati pochi i registi capaci di spaziare tra un genere e l’altro rimanendo sempre al di sopra dell’accettabilità cinematografica; in alcuni casi si è arrivati addirittura ad una media da capolavoro: uno su tutti, il compianto Kubrick. Ma si potrebbero citare anche Francis Ford Coppola e lo stesso Spielberg.

Non è questo dunque il destino di Barry Levinson, regista dalla spiccata propensione per la commedia, a volte politica, a volte “black”, a volte melò. Non a caso la sua ultima e ben riuscita fatica non è altro che l’adattamento di Storie amare dal fronte di Hollywood, romanzo satirico e viscerale di Art Linson. Qui Levinson dà libero sfogo alla sua bravura nell’affrontare storie umane piene di vicissitudini strampalate e situazioni grottesche e, soprattutto, alla sua abilità di creare i tempi comici fulcro di questo genere di pellicole, che ormai potrebbe dirigere ad occhi chiusi.

Locandina del film Disastro a Holliwood per la regia di Barry LevinsonDisastro a Hollywood è uno splendido film, che analizza, criticandolo con sagace ironia, il lucente mondo dello “star system” adagiato lassù nei colli di Los Angeles. La fa da padrone un istrionico De Niro, nei panni di Ben, produttore in declino e uomo sull’orlo di una crisi di nervi. Da una parte ci viene presentato il professionista alle prese con le sue tante problematiche quotidiane (dal regista visionario esageratamente “pulp” del suo ultimo film che non accetta censure al suo lavoro, all’attore Bruce Willis, nel ruolo di se stesso, restio a tagliarsi per le riprese la folta barba da rabbino che lo rende irriconoscibile), dall’altra l’uomo con le sue mille fragilità: un divorzio alle spalle e uno in corso non del tutto accettato, sbalzi d’umore, nevrosi e una figlia (Kristen Stewart) di poche parole e non così innocente come sembra.

Levinson si diverte divertendoci, svelando i retroscena della Mecca del cinema. Ci racconta un mondo sfarzoso e pieno di contraddizioni. Tra deliri e stravaganti manie, ci conduce di soppiatto nella Hollywood esclusiva degli “addetti ai lavori”. Usando la logica narrativa del “cinema nel cinema”, ci fa spiare attraverso l’occhio indiscreto dell’obiettivo, invitando lo spettatore a rilassarsi, quasi fosse davanti allo schermo di casa. La regia audace, più moderna rispetto ai suoi canoni, passa da un’inquadratura mobile di tipo giornalistico — utilizzata durante le scenate del Bruce Willis personaggio, evidentemente a suo agio nella parte — alla magistrale scena d’apertura (cinque minuti di puro coinvolgimento in cui lo spettatore reale assiste alla proiezione in sala dell’anteprima del film di Ben, in un’altalena di inquadrature convulse tra immagini sullo schermo e reazioni variopinte del pubblico “irreale”).

Risulta qui convincente e appropriato il montaggio veloce che ci conduce ora sullo schermo “fittizio”, dove esanime si esibisce Penn, ora nella sale dove ci vengono mostrati cenni di disgusto, sorrisi sardonici e facce annoiate degli gli spettatori. Tra uno stacco e l’altro, assaporiamo le espressioni di Ben, tra l’ imbarazzato e lo speranzoso, sino al gran finale, supportato da una coinvolgente colonna sonora.

Set del film Disastro a Holliwood per la regia di Barry Levinson

La regia frenetica — a volte si nota qualche influenza oliverstoniana — ma pulita risulta idonea alla narrazione, sorprendendo i più scettici che si aspettavano l’ennesima pellicola dal ritmo fiacco e con la solita sceneggiatura contorta. Invece, proprio utilizzando lo stile innovativo esibito nei meno fortunati L’invidia del mio miglior amico e Toys, le cui regie erano parse nettamente sopra le righe e alquanto inappropriate, Levinson costruisce una commedia frizzante e audace che diverte lo spettatore e la critica (grandi consensi all’anteprima durante il Sundance Film Festival), grazie anche alla spumeggiante sceneggiatura dello stesso Linson.

Il cast sembra divertirsi e sullo schermo trasmette humor da ogni fotogramma. Autoironici, spassosissimi, del tutto nei loro panni Penn e Willis (buffissimo con quella barba), grandissime le caratterizzazioni di Stanley Tucci (lo sceneggiatore amante della seconda moglie di Ben) e di un John Turturro (agente Hollywoodiano con disturbi intestinali) che non avevamo più trovato così spiritoso dai tempi del “Grande Lebowski”.

Le donne di Ben sono le belle e mature Michael Wincott, Robin Wright Penn (ex-moglie ancora innamorata) e Catherine Keener, la benpensante e moralista produttrice esecutiva del film che non condivide il finale sanguinolento del regista tossicomane. Ma, come anticipato, è De Niro a convincere nella sua prova comica più brillante. Dopo il debole Sfida senza regole (quello del tanto sospirato ritorno con Al Pacino) non ci saremmo aspettati un “Bob” in così grande forma. Nemmeno lontano parente del non brillantissimo Jack Bayrnes di Ti presento i miei, De Niro dà splendidamente vita a questo produttore in crisi, esausto e avvilito, allietandoci con le sue disavventure e i suoi poco canonici rapporti sociali. Eccezionale nella prima litigata col barbuto Willis, in cui perde le staffe e si ricompone in un secondo…

Insomma, bravo veramente questo nuovo Barry Levinson. Alla sua diciannovesima opera lo vediamo finalmente più “trasgressivo” e intrepido nella ricerca di nuove soluzioni stilistiche. In questa pellicola mette in gioco tutte le sue potenzialità e fa centro con un risultato di ottima fattura. A questo punto non resta che vedere se la tanto “cara” Hollywood avrà il coraggio di riaccoglierlo tra le sue possenti e dorate braccia…

Set del film Disastro a Holliwood per la regia di Barry Levinson