Venezia
la mobile fermezza
come l’immobile “fermità”
dell’anima.

Il morso di un ratto, Claudio Turina

Claudio Turina riceve il premio Un poeta per la pace

Che cosa sarebbe la vita senza poesia? Che senso avrebbe l’esistenza senza la speranza? Con queste domande si apre la prefazione, scritta da Daniele Spero, della raccolta di poesie Il morso di un ratto di Claudio Turina (Franco Puzzo Editore). Missionario e scrittore, ma soprattutto cittadino del mondo, Turina attraversa i paesi più poveri della terra aiutando le persone sofferenti e bisognose. Per tentare di dare delle risposte ai quesiti sopra citati, e per capire quale animo spinge questo uomo, abbiamo avuto il piacere di parlare con lui in occasione del festival Iperporti dove ha ricevuto il premio “Un poeta per la pace 2008”.

Domenico Policarpo (DP): Lei è un missionario laico della carità di Madre Teresa di Calcutta, opera nelle zone più povere della terra come la Tanzania, il Perù e Bombay. Ci può parlare di questo suo impegno?

Claudio Turina (CT): Gli impegni svolti sono parecchi, perché ormai sono quasi vent’anni che io mi occupo, diciamo di “carità”; perché Madre Teresa ha fondato i missionari della carità. Io sono stato missionario laico della carità, laico in quanto non sono diventato un religioso — bisogna fare una differenza —, però ho preso i voti religiosi come i frati e come i missionari. È durato per alcuni anni, non li ho rinnovati perché ho uno spirito abbastanza libero, indipendente e, di conseguenza, o si è ubbidienti, oppure non si possono rinnovare i voti. Ho cominciato in India, a Bombay, in una grande casa di moribondi di Madre Teresa di Calcutta che si chiama Shanti Daan. Ho pubblicato anche un libro sull’India, si chiama Shanti Daan. India, nel quale parlo dell’interno di questa casa dove vivono quattrocento moribondi.

Come vede (mostra le immagini del suo libro Servo inutile, nda) in questo libretto c’è una fotografia: qui vediamo anche Shanti Daan, a Bombay. È importante che io precisi questo, perché lì inizia la mia vita, a Shanti Daan, in questa enorme casa di quattrocento moribondi, dove si convive con loro. Si entra e si fa la vita dei moribondi. Li si cura dalla mattina alla sera, anche la notte, perché sono là, e se uno ha bisogno, bisogna aiutarlo. Poi mi sono occupato di bambini di strada a Bombay: abbiamo comprato alcune case per loro — nel libro Servo inutile c’è la descrizione delle opere svolte. Successivamente sono andato a Delhi, dove abbiamo fondato una missione. Tutto questo succedeva nell’arco di diversi anni ovviamente.

Una volta rientrato in Italia, sono ripartito per la Guinea Bissau, ad occuparmi di un progetto per l’AIDS in un lebbrosario, perché nell’intero lo stato della Guinea Bissau non avevano la possibilità di fare il test per sapere chi fosse positivo all’AIDS. Realizzato questo, ho capito che il mio spirito è un po’ particolare, deve andare da progetto a progetto: vedere, aiutare, donare e andare via, salutare. Proprio per non attaccarmi, per non edificare in me un di fantasia di proprietà. Ed è molto difficile perché ciascuno di noi ha questa fantasia di voler diventare dirigente, proprietario e pavoneggiarsi. Insomma, l’ego aumenta facilmente. Io ho capito che avrei dovuto donare e poi liberarmi per non far nascere in me questo sentimento di possesso. Ecco perché, molte volte, sono stato anche equivocato. Spesso mi hanno detto: “Ma come, poi abbandoni, perché abbandoni?”. No, io non abbandono ma dono, è diverso. Se io dono non è più mio (ride, nda).

DP: Si ha la sensazione che chi potrebbe intervenire efficacemente sui problemi dei paesi del terzo mondo non lo faccia. Di contro, si ha quasi la sensazione che si stia tornando ad un certo tipo di “colonialismo silenzioso”. Cosa ne pensa di questa situazione?

CT: Io dovrei parlare di carità e certamente non di politica. Oltretutto sono invitato a Trieste per ricevere il premio “Un poeta per la pace”, quindi… (ride, nda), sono molto imbarazzato. Attualmente mi occupo di questo progetto in Africa, in Tanzania, dove nel 2005, cioè tre anni fa, dopo un’esperienza bellissima sulle Ande in Perù, ho realizzato il libro Come le pietre inca, e con i proventi di questo libro ho donato l’acqua a duecento mila persone in Tanzania. Dunque, conosco il problema, non solo della Tanzania ma anche di altri paesi. Ci sono delle situazioni molto complicate, molto difficili da spiegare, grandi interessi economici che non dovrebbero interessarmi perché io devo occuparmi di chi ha bisogno e basta. Certo si vedono le cose, non siamo ciechi.

Alcuni bambini aiutati da Turina

DP: Lei ha ricevuto, dall’Unione Cristiana Evangelica Battista d’Italia, il premio Martin Luther King. Dopo quello che sono stati il sentimento e la volontà del ’68 – quando era forte la voglia di cambiare il mondo – oggi, nonostante il degrado spirituale ed il dilagante nichilismo, come si fa a sognare ancora?

CT: Nei diversi libri che ho pubblicato, importanti e meno importanti, parlo sempre del sogno, perché non potrei vivere senza, assolutamente. Per me il sogno, l’ideale, l’utopia sono fondamentali. Vivo di questo. Faccio tutto gratuitamente perché vivo del mio. Quindi raccolgo e dono, non tengo per me niente. Se non avessi il sogno, se non sognassi… soprattutto se non avessi fede, se non credessi, se non avessi il sostegno di Gesù Cristo — da cattolico quale sono – non farei niente, o lo farei per un breve periodo e poi lo abbandonerei.

Perché ci sono tantissime persone generose, pronte, brave, buone, ma cosa fanno? Un gesto e poi dimenticano, si stancano: “Ah, non mi piace più”. Anche i matrimoni finiscono, come mai? “Ah, non sentivo più niente”. Non è questione di sentire, l’amore è un’altra cosa. L’amore fa parte del sogno. Due persone non posso amarsi se non hanno un sogno in comune, impossibile. Io non posso intraprendere un progetto se non che assieme all’altra parte, in questo caso il bisognoso. Il bisogno ci unisce. Io ho bisogno di aiutarlo, lui ha bisogno del mio aiuto. Ma entrambi abbiamo bisogno, questo è il nostro sogno da realizzare. Certo non possiamo salvare il mondo, però…

DP: Come abbiamo già detto, qui a Iperporti lei riceve il premio “Un poeta per la pace” 2008. Che significato ha per lei questo premio?

CT: Tra poco sarò invitato a dire qualche parola, ed è tutto il giorno che penso a che cosa dire (ride, nda). Anche perché, questo riconoscimento arriva dopo che ho ricevuto la menzione speciale in Campidoglio per i diritti umani, per ciò che faccio. E soprattutto per come lo faccio: indistintamente, al di là delle religioni, della cultura, della pelle. Per questo motivo hanno scelto me, non perché sono più bravo degli altri. Per questo premio, “Un poeta per la pace”, penso che abbiano scelto me soprattutto per via di ciò che ho scritto, per le poesie. Mi rende felice perché ho avuto ragione di sognare, ho scritto sognando. Nell’ultima pagina (della raccolta di poesie Il morso di un ratto, nda) c’è una mia lunga lettera scritta a Graziella Atzori intitolata L’utopia (mi regala la raccolta di poesie).

DP: La ringrazio per il regalo…

CT: Qui dietro, alla fine del libro, c’è L’utopia.

DP: Parlando di poesia: in questa società post-moderna, velocissima, che tende ad omologare e che pensa soprattutto ai profitti, c’è ancora lo spazio per la poesia?

CT: Io penso che fino alla fine del mondo esisteranno i poeti. Non esiste il mondo senza il poeta e senza la poesia. Direi che la vita stessa è poesia, stranamente, a volte, anche la rabbia, l’ira, il litigio può essere poesia, dipende, purché non sia malvagio.

DP: Lei presenterà a Iperporti Il morso del ratto. Ci può parlare della nascita dell’opera? Le volevo chiedere se è previsto anche in questo caso — come per il libro Sabbia – che i proventi vengano devoluti in beneficenza?

CT: Il morso di un ratto si riferisce ad una poesia che ho scritto a Bombay mentre medicavamo i bambini di strada, perché il nostro lavoro era di andare per le strade a medicare i bambini normalmente pieni di infezioni, di scabbia, ecc. In uno di questi slam, cioè bidonville, una mattina eravamo a medicare tanta gente — c’era sempre la folla -. Arriva un bambino piangendo con una mano insanguinata, e mi schizza un po’ di sangue sulla mano. Io, ben consapevole di quello che comporta il sangue e le infezioni che mi poteva trasmettere, mi sono scostato.

Immediatamente mi sono sentito male perché ho capito che non avrei dovuto fare quel gesto. Appena tornato nella casa dove abitavamo, comunque nello slam anche noi, ho scritto Il morso di un ratto, il titolo di questa poesia. Anche le altre poesie le ho scritte sul luogo di “lavoro”. Come il romanzo Sabbia, che mi ha dato parecchie soddisfazioni ultimamente — è uscito da poco —, anche Il morso di un ratto serve per la raccolta fondi, per il progetto dei nostri orfani in Tanzania, dei quali mi occupo personalmente. Ne abbiamo ben novantotto, che facciamo studiare e vivere dignitosamente.

DP: Che impressione le ha dato la città di Trieste e questo festival, Iperporti ?

CT: Trieste la conosco benissimo, molto bene, ed il festival penso che sia in via di sviluppo, work in progress. È molto bello, molto interessante perché vedo che riescono — a parte me — a individuare delle persone speciali. Per esempio il vincitore del premio internazionale (Gonçalo M. Tavares, nda) viene dal Portogallo, Ben Jelloun veniva dal Marocco, poi c’era ancora prima Alvaro Mutis e poi altri sempre da paesi lontani, da noi quasi sconosciuti. Questo è molto importante.

DP: Vestendo i panni del lettore, qual è il libro che le ha fatto cambiare il modo di vedere il mondo, che le ha “aperto gli occhi” e che ci consiglia caldamente di leggere?

Lev TolstojCT: Il libro che certamente non dimentico mai, al quale penso spesso, è Il regno di Dio è dentro di voi di Leone Tolstoi che pochi conoscono, e questo mi dispiace. Poi ce ne sono tanti altri, ovviamente. Diciamo che Tolstoi è molto vicino a me, cioè io sono vicino al suo pensiero il quale ha inciso molto sulla mentalità e sul modo di fare del mahatma Gandhi che io ho conosciuto molto bene in India — ovviamente la sua storia, i suoi luoghi, i posti dove ha vissuto e lavorato. Sono molto legato all’India come pensiero, dunque unisco la scrittura di Tolstoi, la figura di Gandhi e, ovviamente, quella di Gesù Cristo.