Prosegue da Storia della video arte VIII
Come si è detto, rispetto agli Stati Uniti e all’Europa, l’Italia non costituisce con la medesima velocità un sistema di ricerca e valorizzazione delle pratiche video. Terminata l’esperienza di Art/Tapes/22 a Firenze nel 1977, negli anni Ottanta continua l’attività del centro di videoarte di Palazzo dei Diamanti a Ferrara, a cui si affianca, come sottolinea Vittorio Fagone, “il contributo di organismi come la Biennale di Venezia, le giornate bolognesi de L‘immagine elettronica, i festival di Porretta Terme, Salsomaggiore, Camerino, quello di importanza storica costituito dalle due manifestazioni di Video Roma, [che] costituiscono un punto certo e vitale di riferimento di una situazione che oggi può essere registrata come al culmine di una chiara maturazione”[1].
Quindi, il panorama dei video in Italia presenta da una parte una ricerca artistica interessante e “matura”, dall’altra non si sviluppa un adeguato sostegno di tipo istituzionale; è piuttosto l’effimero, costituito da eventi, festival e giornate dedicate, a supportare e diffondere il linguaggio video italiano. D’altronde questa tendenza era già emersa alla fine degli anni Settanta, con la comparsa di gallerie dedicate, come la Diagramma aperta nel 1971 a Milano da Luciano Giaccari. La ricerca video italiana inoltre, si discosta tanto da quella francese e tedesca quanto da quella americana, non concentrando il proprio agire sulla de-costruzione del medium televisivo, piuttosto orientando la propria vis creativa verso le ibridazioni tra linguaggi video e teatro.
In particolare, oltre alle regie sperimentali (Carmelo Bene e altri), gli anni Ottanta vedono la nascita di un collettivo che incarna queste differenti anime espressive: Studio Azzurro. È il 1981: Paolo Rosa, Fabio Cirifino e Leonardo Sangiorgi fondano un gruppo creativo formato da diverse esperienze e differenti percorsi. Inizialmente Studio Azzurro si occupa di fotografia, a partire dall’esperienza del fotografo di design e interni Aldo Ballo. Con il 1982 e con la collaborazione con Ettore Sottsass per l’allestimento della collezione Memphis nasce il primo video, Luci di inganni. Paolo Rosa, intervistato da Angela Madesani, racconta: “Con questo lavoro abbiamo scoperto due cose per noi fondamentali: la grande capacità plastica del video, che consente di rimodellare continuamente l’immagine mentre la fai, e che l’insieme dell’opera, formata da un percorso di piccole postazioni, generava un ambiente con forti caratteristiche narrative e una grande capacità di coinvolgimento”[2].
Ed ecco Luci di inganni, il primo videoambiente creato da Studio Azzurro: dodici video collocati nello spazio avvolto dalla semi oscurità, con le luci orientate sugli oggetti esposti, provenienti dalla collezione Memphis. Ogni schermo è una sorta di icona di un teatro in miniatura, in cui è riflesso l’oggetto reale: i video riflettono e prolungano la dimensione dell’oggetto di design, creando nell’osservatore l’illusione di una vita oltre il reale. Da subito emergono i caratteri della ricerca di Studio Azzurro, poi chiaramente enunciati dalle parole di Paolo Rosa: il linguaggio video come medium duttile e la relazione tra il video e lo spazio circostante.
Attraverso questi due elementi il gruppo dà vita al videoambiente: una definizione che viene contrapposta a videoarte, poiché quest’ultima non rappresenta adeguatamente gli intenti e i risultati perseguiti da Studio Azzurro. È infatti la loro stessa definizione del termine a chiarificare la differenza: “Le video installazioni (videoambienti) associano un dispositivo elettronico ad uno spazio fisico, componendo racconti che si estendono nel tempo in frammenti indipendenti, la cui unità è ricostruita dalla visionarietà dello spettatore, disponibile a farsi coinvolgere dall’opera. Le installazioni sono luoghi in cui avviene qualcosa, eventi più che opere”[3].
L’idea dell’accadimento nello spazio non è di per sé una novità: già grande parte dell’arte concettuale si poneva in relazione con l’ambiente intorno a cui si configurava l’opera, facendo di essi, e dell’osservatore, un tutt’uno. La Land Art, ad esempio, con le opere di Oppenheim, chiedeva all’ambiente interazione e scenario, attraverso gli spazi aperti e i fenomeni climatici. Il passo che compie Studio Azzurro è tuttavia differente, seppur in qualche modo consapevole delle precedenti operazioni artistiche e delle coeve sperimentazioni internazionali: muovere il medium video verso la tridimensionalità dello spazio e della percezione dell’osservatore e, contemporaneamente, dare vita a uno spazio in cui il video compia l’ulteriore passo di creare la quarta dimensione, il tempo dell’agire.
La ricerca di Studio Azzurro continua, e dopo circa due anni, nel 1984 Cirifino e soci propongono uno dei video ambienti più noti, se non il più noto in assoluto, della loro produzione: Il nuotatore va troppo spesso ad Heildeberg (The swimmer). Citato ovunque come manifesto della poetica del gruppo, Il nuotatore è un videoambiente costituito dalla sincronizzazione di ventiquattro monitor e tredici programmi video, e realizzato con dodici videocamere collocate lungo il bordo della piscina, a pelo d’acqua, e dodici monitor per la registrazione simultanea della lunga nuotata dell’attore Aurelio Gravina. Inoltre, ogni scena contiene tre differenti livelli collegati tra loro: il primo piano dell’acqua, la traiettoria che permette la composizione della figura, e lo sfondo della scena. Il tutto accompagnato dalle musiche composte da Peter Gordon.
L’effetto è assoluto: si è ossessionati dalla continua ripetizione del gesto atletico della bracciata, si segue incessantemente l’azione del nuotatore, idealmente all’interno di una narrazione fatta esclusivamente da immagini. La stessa stanza, in cui il videoambiente è realizzato per la prima volta, ha un che di subacqueo: il sotterraneo buio di Palazzo Fortuny a Venezia, ovviamente, sotto il livello dell’acqua della laguna.
Nel frattempo, fuori dallo scantinato, Maurizio Calvesi, storico dell’arte, inaugurava la quarantunesima edizione della Biennale, sul tema Arte e arti. Attualità e storia. Questo rapporto geografico è interessante, poiché Studio Azzurro, fino ad ora, non ha mai partecipato alla Biennale, pur incarnando, all’epoca, lo spirito sperimentale del video italiano e configurandosi oggi come un soggetto imprescindibile per comprenderne la storia e l’evoluzione.
La definizione outsider artists non è fuori luogo in questo caso. Una situazione borderline che non è spiegabile se non nell’intenzione di Studio Azzurro di non limitarsi ad un solo campo d’azione, e di evitare in questo modo le facili etichette. L’ambito artistico si incrocia così con il teatro, altro carattere propriamente italiano, soprattutto dopo le esperienze degli anni Settanta.
Nasce così, nel 1985, Prologo a Diario segreto contraffatto, un videoambiente costituito dall’azione di sette attori e quindici monitor, che ripropongono parte dell’agire scenico visibile fuori dal set teatrale. Il video, realizzato per il regista sperimentale Giorgio Barberio Corsetti, è inoltre considerato il primo di una trilogia, che si completa successivamente con Correva come un lungo segno bianco (1986) e con La camera astratta (1987, premio Ubu per il videoteatro).
Nello stesso periodo, Studio Azzurro si avvicina anche al corto e al lungometraggio con Facce di Festa (1981), Lato D (1982) e L’osservatorio nucleare del Sig. Nanof (1985): una sperimentazione continua. Al di là della relazione con le istituzioni artistiche del paese, la ricerca di questi artisti prosegue verso la direzione della interattività, l’elemento che ancora mancava (indirettamente) ne Il nuotatore. È nuovamente il teatro a offrire l’ambiente ideale per realizzare il connubio tra video, spazio e interazione con La camera astratta, del 1987. Presentata alla Documenta 8 di Kassel, l’opera è la realizzazione scenica di uno spazio mentale, abitato da “sensazioni, ossessioni, memorie e immagini”.
L’azione di Studio Azzurro è un confronto diretto tra la corporeità dell’uomo e la natura immateriale del video, attraverso l’azione di sette attori che entrano ed escono dai monitor: una visione creata con l’uso di due scene separate, monitor e videocamere che rendevano visibile sul video ciò che era invisibile dalla platea teatrale. Videoambienti, installazioni ambientali in teatro, ma non solo. Negli anni Ottanta il gruppo elabora anche alcuni progetti di video sincronizzati, ossia la trasmissione simultanea di più programmi. È il caso di Il combattimento di Ettore e Achille , del 1989.
Il racconto tratto dall’Iliade diventa così oggetto di un doppio sguardo, costituito da due monitor che osservando l’azione, mostrano la differenza o l’identità di ciò che viene osservato: così lo sguardo e il pensiero si riversano in questo lavoro, mostrando l’azione dei due ballerini che si scontrano e s’incontrano. Anche Aleksander Nevskij, sempre del 1989, utilizza l’espediente tecnico della moltiplicazione sincronizzata dei punti di vista: ispirato alla pellicola del 1938 di SerghejEjzenstejn, e con la musica di Prokofiev diretta da Daniele Abbado, il video è costituito da 2 schermi sincronizzati, che ripropongono le immagini del film originale. Anche in questo caso, quindi, l’azione si incontra con la ricezione: come sottolineava già Duchamp, ce sont les regardeurs qui font les tableaux.
Segue con Storia della video arte (X)