Franck Vestiel è un giovane cineasta francese che ha lavorato come assistente di regia per svariate produzioni di genere francesi, da Blueberry di Jan Kounen (tratto dal fumetto di Jean Giraud/Moebius e interpretato da Vincent Cassel e Juliette Lewis) a Saint Ange di Pascal Laugier, da Them di David Moreau a Dante 01 di Marc Caro.
Al Science+Fuction 2008 ha presentato Eden Log, il suo esordio da regista. Protagonista è Clovis Cornillac, interprete sul grande schermo anche del nuovo Asterix, dove ha preso il posto di Christian Clavier nei panni del piccolo guerriero gallico.
Cornillac interpreta Tolbiac, un uomo che si risveglia in un ambiente buio, sotterraneo e cunicolare senza ricordare nulla di sé e di ciò che lo circonda. A poco a poco, lungo un percorso disseminato di misteriosi incontri e mostruose creature mutanti, braccato da minacciosi vigilanti , si farà strada nell’oscurità del labirintico mondo che sembra imprigionarlo per raggiungere la superficie, alla ricerca della propria identità. Nel corso della fuga da un pericolo che non ha nome, ricomporrà lentamente i frammenti per far chiarezza sull’accaduto e sulla società che vive in superficie, denominata Eden Log.
Il film, seppur non originalissimo negli spunti, risulta coinvolgente e riesce a catturare lo spettatore, trascinandolo nello svolgersi incalzante e claustrofobico della storia. Riesce a stimolarne la curiosità grazie all’espediente utilizzato nella costruzione narrativa, lo intriga giocando sull’ambiguità del protagonista. Nonostante la scarsità di dialoghi e la quasi totale assenza del colore, l’intreccio è sostenuto da una puntuale attenzione per la qualità delle immagini e della fotografia ma soprattutto grazie a dei riuscitissimi effetti sonori di grande impatto. Anche la colonna sonora dei Seppuku Paradigm contribuisce a creare le atmosfere giuste.
Le tonalità prevalentemente grigie, gli ambienti claustrofobici e decadenti, l’angosciante sensazione di minaccia e il livello di tensione costantemente sopra il livello di guardia, restituiscono efficacemente l’idea di un mondo semi abbandonato, degenerato, in rivolta, dove tutti sono impegnati in una continua lotta per la sopravvivenza. L’impressione generale è che di nuovo non ci sia molto, che qualcosina andrebbe aggiustata ma che, ciò nonostante, il film funzioni molto bene.
Cristina Favento (CF): Ieri hai raccontato che la creazione della trama di Eden Log è stata anche per voi un lavoro in itinere, perfezionato nel corso del film. Volevo che tu ci raccontassi un po’ come nasce questa storia…
Franck Vestiel (FV): In effetti l’idea era proprio quella di partire da zero, d’immaginare una pagina bianca al posto della scenografia. Ci siamo detti: prendiamo un personaggio e mettiamolo in un luogo sconosciuto, senza che si sappia nulla di lui e del suo passato. Era nostra intenzione creare la storia e farla sviluppare in corso d’opera, per mettere lo spettatore allo stesso livello di conoscenza del protagonista, e far scoprire al pubblico gli sviluppi della storia assieme a lui, man mano che ne veniva a conoscenza. Come una sorta di scenografia in progressione, questa era l’intenzione di base, come se si trattasse di un primo uomo che poco a poco si veste, inizia a parlare e a scoprire il suo passato.
CF: In apertura si nota che sta succedendo qualcosa di particolare a livello tecnico: c’è una sorta di montaggio progressivo nello scorrere delle immagini, che compaiono frammento per frammento, poi arriva il suono, poi il colore e così via. Anche in questo caso hai parlato di un’intenzione precisa nel creare un riferimento metaforico a quello che a tuo modo di vedere è il cinema, puoi spiegarci in che senso?
FV: Assieme alla storia del personaggio principale, ho voluto immaginare di coinvolgere anche me stesso nella pellicola, di creare una sorta di storia parallela che vado raccontando a me stesso. Ho iniziato il film con una sorta di pulsazione, una specie di immagine fotografica, com’è stato alla nascita del cinema. Poco a poco questa pulsazione accelera per diventare un immagine in movimento in bianco e nero. Ho aggiunto poi il suono, il dialogo, il colore, e ancora dei riferimenti al montaggio, alla proiezione. Per me è stato anche un piccolo viaggio del personaggio attraverso la storia della fabbricazione di un film. Come una storia in filigrana, in trasparenza, alla quale non si dà troppo importanza, che resta in secondo pianto rispetto alla trama del film ma che avevo voglia di raccontare.
CF: Abbiamo visto il film in inglese nonostante la produzione sia francese e ho saputo che il film è stato girato per ben due volte, una in inglese e una in francese, come mai?
FV: È stata una decisione della produzione, non c’era alcuna volontà da parte mia di girare un film per forza in inglese, così come non ha importanza che l’abbia fatto in francese, perché in realtà è ben poco francesce. Mi interessa ben poco la questione culturale o linguistica in questo caso. Ho semplicemente utilizzato la mia lingua ma non ci sono dei riferimenti culturali specifici alla Francia. Mi piaceva l’idea di fare un film dove si sentono una pluralità di lingue, che siano di origine differente, anche se non spieghiamo da dove vengano. All’inizio pensavo di fare un film solamente ma poi, per una questione di finanziamenti e per il fatto che questo genere di film ha un pubblico potenziale ridotto in Francia, abbiamo rigirato scena per scena. Il vantaggio nello svantaggio è che in questo modo abbiamo una piccola fetta di pubblico un po’ dappertutto. Il distributore ha ritenuto importante che ci fosse una versione inglese originale, e non doppiata, dove ciascun attore parlasse davvero in inglese.
CF: Una faticaccia…
FV: (Ride, nda) Abbiamo girato due volte tutte le scene di parlato naturalmente. E poi abbiamo fatto due montaggi, due mixaggi. Tutto doppio insomma. Abbiamo anche dovuto riadattare la musica e alcune inquadrature perché in alcuni momenti la lunghezza delle scene e del parlato non coincidevano ovviamente. Ma pazienza, è stata una sorta di obbligo contrattuale.
CF: Mi ha fatto sorridere il fatto che, dopo tutto questo lavoro, il film negli Stati Uniti è stato comunque presentato in francese! Ci racconti questo aneddoto?
FV: Penso che malgrado tutto il film sia profondamente europeo, nel suo modo di sperimentare. Non so dire se sia riuscito o meno il tentativo ma sperimentale lo è comunque per il fatto che abbia provato ad evitare di farlo funzionare secondo un piano prestabilito e convenzionale. Negli Stati Uniti lo hanno voluto in francese perché l’hanno percepito comunque come qualcosa di esotico. Credo abbiano voluto affermare chiaramente che non si trattava di un prodotto americano, che abbiano voluto dichiarare il suo essere europeo piuttosto che giocare sull’ambiguità.
CF: So che hai fatto l’assistente di regia per diverse produzioni francesi, come sono state le tue precedenti esperienze? Che cosa hai imparato?
FV: Principalmente, ciò che ho imparato lavorando con gli altri è che ci sono sempre due film: quello che noi immaginiamo quando siamo da soli con un testo o con gli autori, una sorta di proiezione personale del film, mentre il secondo è quello che realmente possiamo realizzare. Sono due cose molto molto differenti il film che abbiamo sognato e ciò che effettivamente c’è poi nella pellicola. Non è necessariamente positivo o negativo. A volte è meglio l’uno a volte l’altro.
Nella mia decina d’anni di apprendistato ho poi ovviamente appreso a grandi linee i processi di fabbricazione di un film, le difficoltà che ci stanno dietro, e un’infinità di accorgimenti tecnici. La teoria è piena di nozioni ma naturalmente è la pratica ti consente di accumulare davvero esperienza. Mi ha stimolato fare da assistente a registi tanto diversi l’uno dall’altro, da Marc Caro a Olivier Megaton, a Pascal Laugier. Ogni volta si entra in un altro universo cercando di comprenderne le regole, come se fosse una sorta di ginnastica, al fine di comprendere che cosa piace loro o meno.
E infine ci sono dei momenti nelle riprese nei quali bisogna aiutarsi a vicenda e lasciarsi andare. Magari tagliando cose che pensavamo di tenere e concentrandoci invece su altre. Non bisogna farsi prendere dalla delusione per non essere riusciti a fare qualcosa esattamente come volevamo e fissarsi troppo su quella. Ogni giorno le riprese avanzano, è come un treno in marcia che deve avanzare, spesso senza neppure lasciarti il tempo di vedere ciò che è già stato fatto. Bisogna stare dentro l’entusiasmo di ciò che si va a fare piuttosto che nel rimpianto di ciò che non abbiamo realizzato. È difficile soprattutto quando si gira il primo film. Sono delle sensazioni che ho già visto e vissuto attraverso gli altri che ho affiancato. È dura accorgersi che le immagini che si hanno non sono appunto quelle sognate ma bisogna sforzarsi di non perdere le energie, di non farsi scoraggiare per poter proseguire le riprese.
Ecco, penso che questa è una lezione che ho ben appreso — penso, ad esempio, grazie a Pascal Laugier in Saint Ange, che per me è stato davvero un film molto importante —, intendo essere capace di dire “Ok, ieri la giornata è andata, magari non bene, magari ci sono degli errori, ma l’importante è riuscire a fare bene ciò che si fa oggi”.
CF: Tu sei contento della tua prima esperienza come regista?
FV: Non si è mai veramente contenti, non si può parlare propriamente di soddisfazione. Per conto mio c’è più un sentirsi sollevato di essere arrivato fino alla fine. Ci abbiamo lavorato per molto tempo ed eravamo impazienti di concludere. Alla fine ti rimane in bocca un sapore strano, non posso dire di soddisfazione però. Conosci il film talmente bene che non sopporti nemmeno più di rivederlo. Vedi errori su errori e non sai nemmeno più realmente che cosa hai fatto, se bene, se male. È complicato. Il mio film è estremamente imperfetto ma è comunque il “mio” film. Rivederlo è un po’ come guardare se stessi: un giorno ti trovi bello, il giorno dopo non ti piaci per niente! È molto difficile autogiudicarsi, così come lo è, secondo me, giudicare un film così personale come quello che ho fatto.Ovviamente si cerca di far tesoro di tutto per il futuro, per capire che cosa funziona bene e che cosa invece è da evitare, in modo da far meglio la volta dopo, o almeno ci si prova!
CF: Hai intenzione di continuare con produzioni di genere? Hai considerato l’ipotesi di cambiare?
FV: Francamente non lo so. Certo è che il prossimo film sarà comunque un film di fantascienza. Poi, se Dio vuole, continuerò ancora e ancora ma al momento non so dire in che direzione. Se ho iniziato con questo genere, è perché è un universo che con i suoi temi mi appassiona sin dall’infanzia naturalmente. Ma non vorrei fermarmi, avrei voglia anche di sperimentare cose nuove. L’ideale sarebbe avere sempre una rosa di possibilità per poter scegliere, anche se infondo non sono io poi a decidere, spetta soprattutto ai produttori. Vedremo se a loro interesserà il mio lavoro.