Titolo: Assurda
Autore: Marco Taddei
Anno di pubblicazione: 2008
Editore: Edizioni Sabinae, Cantalupo in Sabina (RI)
Collana: Pagine Nuove. Narrativa
Pagine: 120
Prezzo: 12,00 Euro
ISBN: 9788890347313
Una prefazione intitolata “Cinque motivi facili o cinque facili motivi per…”, che fa l’occhiolino alla pellicola di Raphaelson del 1970 con un giovanissimo Jack Nicholson, ci illude che sia davvero facile avvicinarsi a un libro:
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di nome Assurda, considerati i gusti medi dei lettori italiani, indirizzati a codici e misteri vari;
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di un “autor giovine”, il che significa più o meno ignoto alle classifiche e alla comunicazione pubblicitaria;
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di racconti brevi, in cui la trama muta, con tutti i relativi personaggi, si e no ogni dieci/quindici pagine;
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edito da una piccola casa editrice per la quale, a questo punto, spenderei l’aggettivo coraggiosa oppure incosciente;
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se ve lo aspettate, non avete letto la prefazione.
Eppure, così com’è, il testo di Mario “Bangs” Pistacchio (autodichiaratosi, tra virgolette, ironico accorato emulo del noto Lester) è quanto ci serve per predisporre i neuroni e gli apparati sensoriali alla piena letteraria della scrittura di Marco Taddei.
I cinque motivi facili aprono così la porta ai sei pezzi niente affatto facili dell’autore di Assurda.
Se ogni libro è un viaggio, la strada qui porta in un mondo molto vicino, eppure difficilmente comprensibile quasi per ognuno di noi, quello dell’inconscio. Sono le voci dei sei protagonisti che si raccontano in una sorta di flusso di coscienza, dove la paura, la disperazione, la lucida interpretazione personale della realtà la fanno da padrona.
Roberto è seduto su un treno che lo porta a casa, ma è il viaggio ad innescare il meccanismo che coniuga il tempo, l’immobilità e il pensiero: così nasce la confessione interiore dell’omicidio di una fidanzata ormai sconosciuta, in grado di cancellare la videocassetta con il capolavoro di Kubrik per registrare l’ennesima puntata di un telefilm poliziesco; una donna in cui Roberto non riconosce più la “Tibia (così si chiama infatti questa colpevole fidanzata) di cui si era innamorato: senza rimorsi, felice degli imprevisti, sorpresa degli accidenti, infatuata della costruzione sfrenata della sua immaginazione”. E da qui il protagonista arriva a riflettere sulla propria relazione con il mondo e con le persone.
La piattezza dell’umanità lo rattrista, il colore grigio, capace di rendersi persona, lo impietrisce e tuttavia lo illumina. C’è chi fugge dal grigio, chi riesce a trovare la via di uscita da quel treno, proiettile sparato verso la meta, senza pietà.
Assurdo, ma vero, Roberto prende nota del fatto che alcune persone entrano nel bagno e non ne escono. Un rendez-vous a sfondo omosessuale? Una nuova pratica erotica che comprende un centinaio di possibili infezioni virali?
Niente di tutto ciò. È l’illuminante verità, dove la fuga, la fine, l’ovvio si confondono. La meta di Roberto cambia, tutto si fa chiaro, come quando “dopo un lungo nero alla fine [si] intravede il grande bianco. Saettante, rombante e senza peso”.
Episodi della mente, soluzioni surreali. E per questo non meno plausibili, se viste con l’occhio interiore dei protagonisti.
E che dire del prete spaventato dall’immensità di Dio e dalla sua altrettanto immensa indifferenza rispetto al dolore e all’imperfezione del nostro mondo? Un Dio che in sogno (pratica tra le altre cose abbastanza diffusa, come ricorda l’episodio biblico di Giacobbe) visita il suo servo e lo illumina con la spiegazione della necessità del male, tramite la scusa più vecchia di sempre, ossia la salvezza del mondo. Un male tuttavia minore, rispetto a quello che accadrebbe se la terra fosse in pace, felice, perfetta. Per il protagonista, “un misero crogiuolo di idee costretto in un corpo piegato e sclerotizzato dalla mia mentalità secolare da prete” (sento l’eco lontano delle pagine di Bernanos?) questo sogno è ben più di una rivelazione, e perciò misero l’uomo che non ascolta la voce di Dio.
E ancora il mostro bambino, il cui male è necessario per espiare, in un mondo che si avvolge su se stesso costringendolo ad una vita simile ad un incubo di scatole cinesi. Un incubo di oceani e mostri marini: i Genitori come aguzzini, il mostro marino come forza scatenata dall’odio e dalla viscerale volontà di vendicarsi del mondo intero.
E l’uomo la cui vita si risolve nell’unico atto di trasgressione che egli stesso si permette: un ferino urlo in riva al mare, in piedi su uno scoglio, un mondo non mondo, il confine tra la vasta liquidità dell’acqua e la solida compattezza della terra. Sinonimo di se stesso, l’ambiente diventa la cassa di risonanza dell’uomo che urla la sua vitalità, e che partorisce in questo modo incosciente un mito, una leggenda.
Il viaggio prosegue. Il male che spaventa si fa apertura ad un mondo visionario e segreto, un barlume di un universo, un momento di ricerca della verità: l’uomo dimentica se stesso, il proprio dolore, le proprie paure, forse proprio tramite le conseguenze del suo male.
La cecità, infine, chiude il libro. Affinché nessuno sia divorato dalla questione omerica, mi limiterò a citare il fatto che Omero, l’aedo autore dell’Iliade e dell’Odissea, fosse cieco poiché alla cecità si collegava la possibilità di vedere ben oltre ciò che il mondo mortale offriva allo sguardo.
Il Racconto di un uomo cieco si prende l’onere di accompagnarci all’ultima pagina, facendoci sentire l’odore del sole, della sabbia, della paura e dell’incertezza. E regalandoci, alla fine, la consapevolezza di aver letto qualcosa di buono.