“…poeticamente abita l’uomo…”: in uno scritto che porta questo titolo, il filosofo Martin Heidegger trae spunto dal verso di una poesia di Hölderlin per ritrarre l’abitare umano (nel senso ampio dell’esserci, dello stare al mondo) come qualcosa di illuminato dal riverbero rivelatore della poesia, che penetra tra le maglie dell’io e sprofonda nell’ultima essenza.
Abitare come essere, coadiuvati dal medium poetico; abitare poeticamente o, se si preferisce, vivere con consapevolezza. Nessun riferimento, però, al concetto di possesso: consapevoli, sì, ma (perché no?) anche in case altrui.
E chi ci impedisce allora di occupare, anche se in misura clandestina, surrogati d’abitazione che esistono soltanto nel momento in cui un fascio di luce li proietta su una parete bianca? Sono case di celluloide, niente di più, ma se serve la poesia per sfiorare la cifra del nostro “esserci”, la triste inconsistenza dell’immagine cinematografica può divenire l’unica garanzia di un sussulto di vita negato altrove.
Gruppo di famiglia in un interno, una delle ultime regie di Luchino Visconti, ritrae con spietata lucidità un cammino di conoscenza, che individua nell’esistere un obiettivo e non una condizione preliminare. Una nobildonna, la figlia, il giovane amante della prima e il fidanzato della ragazza — persone tra loro sostanzialmente estranee — si stabiliscono nell’imponente palazzo in cui abita un anziano professore in pensione: la volontaria solitudine di quest’ultimo verrà progressivamente cancellata, le incomprensioni tra gli altri esasperate fino a creare uno strappo irrimediabile. In primissimo piano: l’abitazione, con pareti tappezzate di libri e quadri — come a compensare un desiderio d’isolamento in ultima analisi irrisolto — e un’atmosfera ambrata diffusa ovunque.
È un luogo usurpato questo, nel quale quel gruppo di singolare umanità si insedia quasi con la forza. Il professore, legittimo padrone, non può far altro che assistere contrariato all’invasione. Tutti però ne trarranno qualche insegnamento: l’uomo riscoprirà la benefica fatica che si prova facendosi carico dei problemi altrui mentre i componenti di questa sua nuova famiglia si riconosceranno sconosciuti in casa d’altri. Qualcosa di simile accade al cinema.
Se abitare significa vivere, abitare il cinema vuol dire aggirarsi tra stanze irrimediabilmente calpestate da migliaia di altre persone, lasciando un’orma destinata a svanire non appena si distoglie lo sguardo. Ma mentre assapora la misura della sua inconsistenza, il nostro essere scopre talvolta, confuso tra quelli di tutti gli altri, il profilo della sua impronta: allora, anche se in misura impercettibile, abitare significa ancora vivere, esserci.
Vivere in luoghi che ci appartengono soltanto per breve tempo, che l’immaginario collettivo ha progressivamente modificato, stanze che si sono evolute, proiettate su una parete bianca ma incredibilmente vicine a noi. Abitanti di una casa immaginaria, individuiamo nel cinema una dimora in cui sia possibile insediarsi, scoprendo un’infinitesimale parte del nostro io. È allora che il versante illuminato dalla luce del giorno incontra l’oscurità dell’inesplorato e, nella naturalezza del chiamare “casa” la menzogna di un’immagine in movimento, scopriamo coesistere ciò che sapevamo e ciò che ignoriamo: abitiamo il cinema e forse, al tempo stesso, ritroviamo o scopriamo “stanze” di noi stessi ancora da ammobiliare.
Non è un caso che l’iconografia della casa al cinema segua un corollario di principi ben identificabili, che si declini nelle innumerevoli vesti in cui viene proposta, facendo però sempre riferimento a suggestioni che si mantengono costanti. Che sia luogo d’armonia o teatro di efferati omicidi, il manifestarsi dell’abitazione nell’ambito della settima arte è vincolato ad una serie di rimandi, ad un sentire che trova nello spettatore come individuo il suo principale riferimento.
L’icona della casa, per tutte le implicazioni sociologiche che l’accompagnano, viene spesso associata a quella della famiglia, nella realtà come al cinema. Si creano allora immagini piuttosto stereotipate di ampie abitazioni con un camino al centro del salotto, bambini che si rincorrono sorridenti e, se il periodo lo richiede, un albero di Natale che sovrasta montagne di regali. Sono le case in cui le istitutrici si calano dal cielo con un ombrello (Mary Poppins) o nelle quali un’aspirante suora si trova ad educare i sette figli di un colonnello vedovo (Tutti insieme appassionatamente). Sono case d’altri tempi, che difficilmente potrebbero trovare un posto adeguato nel cinema contemporaneo, nell’ambito del quale si cerca sempre più spesso la strada della frattura e dello straniamento.
Ai giorni nostri, complici le villette degli orrori che popolano l’immaginario comune, la dissonanza tra le prerogative della casa come icona e le efferatezze a cui spesso essa fa da sfondo diviene il fulcro di un tipo d’espressione che destabilizza, minando le certezze dello spettatore. È un processo di cambiamento semantico che senza dubbio gli ultimi anni hanno enfatizzato ma che può essere riscontrato benissimo e in forma compiuta anche nei grandi maestri del brivido classico.
Con Nodo alla gola,Alfred Hitchcock firma nel 1948 un’opera di grandissima perizia registica, servendosi di un unico piano sequenza (divenuto celebre) per tutta la durata del film; allo stesso tempo illustra con maestria una situazione in cui l’ambiente domestico mantiene i suoi connotati, pur adeguandosi ad ospitare un crudele quanto gratuito omicidio. Quando due ragazzi, dopo aver ucciso nel loro appartamento un amico, decidono di chiuderlo in una cassa da salotto e di appoggiare su di essa le vivande dell’imminente ricevimento, è chiaro che non ci si trova di fronte alla classica rappresentazione del quadretto di famiglia, dell’idillio, ma nemmeno alla descrizione della casa come luogo profondamente ostile, che si trova invece al centro di numerose pellicole con richiami al soprannaturale.
In riferimento a ciò, film come La casa, The Others o il recente The Orphanage si focalizzano, pur utilizzando registri piuttosto differenti fra loro, sulla relazione che si instaura tra i protagonisti e le rispettive abitazioni e sulla lotta per la sopravvivenza che da lì si scatena. Ma ciò che accomuna Hitchcock a questi ultimi film è comunque il timore che un luogo vicinissimo e conosciuto possa rivelarsi ostile e portatore di morte: complice l’estensione definita e limitata, la casa diventa una cassa di risonanza in cui il sussurro si fa grido e il senso di protezione non tarda a trasformarsi in prigionia (Funny Games docet). E se è vero che lo spettatore, abitando, trae consapevolezza del proprio esserci, allora lo scarto tra ciò che si aspetta e quello che realmente gli viene dato produce una situazione di straniamento che garantisce il brivido e fa vacillare le basi delle sue certezze.
A dispetto della versatilità dello spazio domestico nella sua rappresentazione al cinema, la casa non è semplicemente luogo di gioia o di morte, anzi, ogni così netta dicotomia è il più delle volte bandita. Come posto di raccoglimento e di riunione può dare vita ad una gamma di relazioni e sentimenti pressoché sconfinata, ma la costante che forse si può quasi sempre riscontrare è la creazione di un’empatia nel rapporto con lo spettatore che porta quest’ultimo a “entrare” nell’ambiente, pur nella sua intangibilità.
Non è un caso che la fenomenologia dell’abitazione cinematografica sia mutata negli anni, si sia evoluta: in un certo senso si può affermare che rispecchi in parte il costume del pubblico a cui viene mostrata. Quanto può essere d’aiuto allora studiarne la conformazione, le differenti fisionomie degli ambienti che la compongono? Quale aspetto ha assunto negli ultimi vent’anni questa casa di celluloide? Quali “soluzioni d’arredo” il cinema dei giorni nostri propone per queste abitazioni dell’anima?
Segue con Abitare il cinema (II)