Fare quattro film e sentirsi chiamare “maestro”, ovvero riconosciuto “autore” tra i più stimati e celebrati nei festival di mezzo mondo; avere 38 anni ed essere considerato già un “classico” della cinematografica italiana, punto di riferimento e fonte di ispirazione per chi tenta di adottare il mezzo cinematografico con virtù e originalità. Questo è il felice destino di Paolo Sorrentino, regista partenopeo classe 1970, vincitore del Gran Premio della giuria all’ultimo Festival di Cannes per l’acclamato Il Divo, la sua ultima fatica. La Casa del Cinema, affermata istituzione della capitale nel cuore del parco di Villa Borghese, ha dedicato al regista due giornate di proiezioni, giovedì 9 e venerdì 10 ottobre, proponendo i corti realizzati nel periodo della “gavetta” e la filmografia al completo; la sera di venerdì, prima della proiezione de Il Divo, Sorrentino ha partecipato ad un incontro al quale sono intervenuti anche Enrico Magrelli e Felice Laudadio, dinanzi ad un pubblico tale che ha richiesto venisse aperta una seconda sala dove proiettare il dibattito.
“Molti erano prevenuti sul fatto che stessi girando un film su Andreotti, ma amo questo mestiere anche per i rischi che comporta. Andreotti appartiene all’immaginario collettivo, ed è uno di quei personaggi virtuali dei quali ci si chiede se esistano realmente, come Silvan e Mike Bongiorno ”. Le battute di Sorrentino sono ironiche e sagaci; quando gli viene chiesto da dove fosse provenuto lo stimolo per il progetto del film, risponde che rimase affascinato da un’intervista fatta da Roberto Gervaso al senatore, nella quale il giornalista parlava di come Andreotti non guardasse mai negli occhi il suo interlocutore. Questa immagine è rimasta impressa nella memoria del regista, perché sintetizzava l’idea di una forza psicologica dirompente; è pur vero che sarebbe stato Sorrentino in prima persona a scoprire come questa immagine non corrispondesse alla realtà: “Quando parli con lui, Andreotti ti guarda negli occhi, però ti guarda per annullarti, non esisti come interlocutore ”.
L’autore parla di come la sua volontà fosse quella di “seminare dubbi su Andreotti” piuttosto che illustrare fatti sulla scorta del classico film d’indagine o di inchiesta, definizione che il regista ritiene riduttiva anche a proposito di Rosi e Petri. A proposito dell’importanza che la scrittura della sceneggiatura ha avuto ne Il Divo, cosìcome in tutta la sua filmografia, Sorrentino ha dichiarato: “Il mio rapporto con la scrittura è profondissimo. Quando scrivo le sceneggiature già so come andranno realizzate le varie inquadrature, un po’ meno saprei dire come dovranno venire fuori i dialoghi. La scrittura la ritengo il mio vero autentico mestiere, oltretutto e assai meno faticoso che essere sul set ”.
Con Il Divo ritorna anche l’accoppiata Sorrentino/Servillo, binomio che ci fa tornare alla mente quello storico tra Fellini e Mastroianni. Raccontandoci la storia di Giulio Andreotti, Il Divo racconta la storia del nostro paese, fatta di ombre e scheletri nell’armadio. Andreotti ha attraversato tutta la storia della Repubblica, ma il film preferisce soffermarsi su una manciata di anni appartenenti all’ultima fase della carriera politica dell’ex democristiano.
Il Divo è quanto di più lontano possa esserci dal documentario e dal film biografico, e, come abbiamo già avuto modo di dire, dal film di denuncia sociale. Diversi registri di raffigurazione filmica si sovrappongono e collimano, generando un’opera difficilmente catalogabile. La cronaca degli eventi che hanno scandito gli ultimi decenni del nostro triste paese si ri-allontanano da noi per merito di una costruzione straniante e iper-siginificante, ma è tramite questa lontananza che possiamo riappropriarci del nostro passato, ambire a conoscere la storia italiana e i suoi protagonisti. “Per questo il film si concentra sugli anni ’90, un decennio talmente frenetico che non ha ancora concesso un ragionamento ed un’analisi seria di quanto sia realmente accaduto ”.
Lo “straniamento” è eseguito per merito del “grottesco”, e in questo Elio Petri e Federico Fellini si rivelano le due fonti di ispirazione fondamentali; Sorrentino “applica alla lettera uno dei principi fondanti della visione del mondo grottesca, che è quello di riportare in superficie ciò che la censura nasconde a tutti i livelli, a partire da quella restrizione dettata dai “possibili filmici”, che altro non sono se non il corrispondente cinematografico del concetto di verosimile così come lo intende Aristotele nella sua Poetica ”[1].
Il film trasmette una potenza inaudita, e questa potenza viene espressa tanto dall’immagine (capace di generare degli autentici shock per il pensiero) quanto dalla trama, intessuta di vittime mafiose, raggiri politici, segreti mai rivelati (che è poi, come detto, la storia della politica e della società italiane). “La pellicola è esasperatamente “piena”, i movimenti di macchina si rincorrono vincendo qualsiasi stacco. È pura loquacità visiva, strabordante fiume di immagini e parole ”[2].
Dinanzi a una domanda del pubblico, è Sorrentino a insistere su questo punto: “In realtà i temi e i contenuti dei miei film sono sempre gli stessi, io trovo interessanti le persone, non le storie straordinarie. Per rendere le cose più nuove, bisogna lavorare sulla forma e lo stile ”. In questa maniera, il regista giunge alla perfetta sincronizzazione e sinergia tra forma e contenuto, targa ufficiale che suggella ogni film realmente riuscito, e questa forza si concentra nel corpo anziano e gobbo di Andreotti, burattinaio dello Stato e della Storia. Quel corpo gracile, diabolico, sembra fremere dal suo stesso interno; diviene allo stesso tempo espressione di potenza, immagine del potere, e manifestazione delle debolezze e dei limiti umani.
Nel 2001, Sorrentino esordisce col suo primo lungometraggio, L’uomo in più (vincitore del Nastro d’Argento come miglior opera esordiente e del Ciak d’oro per la sceneggiatura). È un’opera che inaugura un felice decennio per il cinema italiano. Sorrentino propone il suo immaginario fatto di esistenze travagliate, con un cinismo e una violenza psicologica inediti nel nostro cinema in tutti gli anni ’80 e ’90. Tra gli stilemi e i principi che caratterizzeranno anche la sua produzione successiva, emerge una sicura padronanza delle tecniche di ripresa: lunghissimi carrelli che citano più o meno esplicitamente Scorsese e attraversano le stanze mettendo in comunicazione più ambienti, inquadrature fisse che scrutano gli accadimenti senza degenerare nel banale, ma soprattutto un uso espressionistico della messa in scena e della luce che si fanno veicoli di significazione e che raccontano meglio di mille parole la sorte tragica a cui ogni uomo è condannato, in balia di un destino che non sembra poter lasciare tregua nemmeno ai protagonisti. “Una volta conosciuto l’ineffabile e misero rovescio, dopo essere sprofondati nella disgrazia, il mondo cambia, le speranze si dissolvono, tutto è diverso ”[3]. In fondo, come dirà Tony nella conclusione del film, “la vita è na ‘strunzata” e lui, ex cantante di successo destinato ad un declino che lo condurrà fin nei meandri dell’abisso, deciderà di rivolgere il suo interesse “testimoniando” della vita di Antonio Pisapia, l’altro protagonista del film, calciatore brillante che porta il suo stesso nome e che, dopo essersi ritirato dai campi di gioco a causa di un grave infortunio, sceglierà il suicidio come unica via d’uscita da un mondo nel quale non trova più spazio.
Il 2004 è l’anno del capolavoro: Le conseguenze dell’amore, film che fa incetta di David di Donatello e di Nastri d’Argento. Già con questo secondo titolo, Sorrentino concretizza una propria idea di cinema, che si concentra su personaggi ambigui, complessi, “veri” nella loro straordinarietà. Vengono narrate le vicende di Titta Di Girolamo, misterioso e impassibile inquilino di un albergo di Lugano, anchilosato in una routine fatta di azioni meccaniche, fisse, che rappresentano ormai un universo esistenziale scialbo e senza orizzonte. Titta conduce così i suoi giorni, senza che lo spettatore sappia mai nulla del suo passato, che sarebbe in grado di gettare un po’ di luce sul suo comportamento. Qualcosa si introduce nell’ingranaggio destabilizzandolo, creando una crepa, una cesura, dalla quale possa sorgere la “vita” autentica. Questo qualcosa è l’amore, con tutte le conseguenze che esso comporta.
E le conseguenze dell’amore segnano la reintroduzione nella vita e nel mondo degli altri. Reintrodursi nella vita significa tornare a “sentire”, ma anche sacrificare tutto fino alla morte. “Sentire”, ma anche “soffrire”. Essere vivi comporta tutto ciò, e il finale suona come un tentativo di rivincita, una personale redenzione dinanzi all’ammissione di aver commesso degli errori. Si tratta di “[…] offrire all’esistenza un ultimo motivo di riscatto ”[4]. Il film sonda ambiti e modalità di rappresentazione inedite, che vanno dall’estetica del videoclip (complice una colonna sonora di grande efficacia) alla poetica del vuoto di antonioniana memoria; l’uso della mdp resta insistito, in alcuni casi frenetico, sempre carico di allusioni e mai ridotto alla mera funzione di ripresa. La regia entra in dialettica con l’universo smorto e passivo del protagonista: “Nella stasi in cui è avvolta la vicenda de Le conseguenze dell’amore, Sorrentino decide di cambiare strada e provare a proporre formule narrative alternative. […] la regia particolarmente virtuosa […][è] stata una scelta forzata […] ”[5].
Tanto Le conseguenze dell’amore procede per sottrazioni e minimalismi, tanto L’amico di famiglia, film del regista del 2006, si carica di componenti immaginifiche, servendosi di uno stile nuovo, barocco, pieno di personaggi e simboli. Il film, che resta lontano dagli esiti delle due opere precedenti e della successiva, apre una stagione nuova che verrà confermata con Il Divo. Ormai Sorrentino è cosciente di sé, e probabilmente quella che ritengo sia una battuta di arresto della sua produzione è dovuta ad una sorta di vanità autoriale, che accomuna L’amico di famiglia alle degenerazioni snobistiche di un Marco Bellocchio. Sorrentino ci racconta le vicende di Geremia de’ Geremei, usuraio senza scrupoli che conduce la sua esistenza alimentando la sua avidità, elargendo prestiti a persone e compiendo un autentico, accanito strozzinaggio.
Geremia si rivela essere uno dei tanti (il referente per la costruzione del personaggio è senza ombra di dubbio Brutti, sporchi e cattivi di Ettore Scola), sullo stesso piano di chi è disposto a indebitarsi e a prostituirsi per garantirsi un matrimonio da favola, senza poterselo permettere. L’attenzione di Sorrentino per l’immagine raggiunge in quest’opera il parossismo, basti pensare alle scenografie e alle location di grandissimo impatto, che hanno fatto parlare di “atmosfera dechirichiana” a proposito di questo film. Il vuoto, l’assenza, il silenzio de Le conseguenze dell’amore sono stati stracaricati di simboli, immagini, presenze, parole in L’amico di famiglia; il manierismo e il formalismo si oppongono al minimalismo e all’essenzialismo, ma con un fine molto simile, ovvero raccontare la storia di un “caso esemplare”. Quelli di Sorrentino sono personaggi così lontani da noi per stili di vita ma così vicini in quanto pur sempre uomini, casi particolari di umanità “E il termine “umanità” non deve essere necessariamente inteso in senso positivo, perché Geremia non ha nulla di positivo: è brutto, tirchio, arido ma simula i sentimenti come nessuno fa intorno a lui ”[6].
Quattro film, dicevamo, senza che lo stile di Sorrentino si sia mai fossilizzatoin formule statiche. Il regista ha anzi affinato le sue capacità in un percorso sperimentale che l’ha portato a sondare direzioni e strade differenti, modalità di regia innovative e mai scontate. E, come in ogni grande autore, ha confermato, passo dopo passo, una poetica, una “firma” volta a suggellare il suo operato tracciando un linea di continuità che caricasse di senso e profondità ogni singola inquadratura di ogni sua realizzazione.
Sorrentino, assieme ad altre sporadiche eccezioni, è uno dei pochissimi registi italiani a concepire il cinema come un’autentica arte: tra i colleghi contemporanei, è l’unico che studia a fondo ogni singola inquadratura, senza lasciare nulla al caso. Come fa un autentico autore, a differenza di tanto cinema in circolazione, comunica, esprime, emoziona grazie alle specificità del mezzo artistico da lui impiegato, ovvero il cinema.
È la forma in Sorrentino a parlarci, a caricarsi di senso, a rivelare un significato per poi occultarlo subito dopo, affinché il pensiero non si acquieti in risposte esaustive su ciò che sta guardando. Un raccordo dissonante del montaggio, una ripresa insistita su un oggetto, un piano sequenza che attraversi lo spazio come una lama… Il cinema di Sorrentino si rileva una consapevole costruzione a tutti gli effetti, che rifiuta la poetica realistica e documentaristica esibendo invece la presenza della macchina da presa in un gioco meta-linguistico. Come tutta la grande arte, i suoi film parlano di noi parlando di altro, costruendo immagine per immagine una dimensione altra dal reale, eppure così autentica, così epidermicamente nostra, che ci sentiamo continuamente tirati in ballo, coinvolti nostro malgrado.
Il gioco meta-linguistico del suo cinema (l’uso insistito del piano-sequenza, la costruzione barocca dell’inquadratura…) non è mai fine a se stesso: così vicini e contemporaneamente così lontani, messi a distanza dall’immagine ma anche trascinati emotivamente e intellettualmente. Eppure noi spettatori non veniamo catturati acriticamente dalla rete della “fascinazione cinematografica”, strumento adottato da una grande quantità di cinema commerciale d’oltreoceano. Il fascino di Sorrentino, dei suoi personaggi (spesso reietti della società, mostri ma anche vittime di altri mostri, giudicati da noi che siamo mostri senza ammetterlo) e delle sue storie è differente. Il suo cinema non pretende un annullamento della riflessione critica, ma anzi la incentiva, la interpella e la convoca costantemente sul banco degli imputati.
Con Il Divo Sorrentino torna nel posto legittimo che gli spetta, quello più prestigioso e ambito, ovvero quello dei “registi” veri e propri e non per modo di dire. Artista autentico, capace di lasciare un segno nella contemporaneità, così arida di personalità capaci di interpretare ciò che sta accadendo.