di color d’oro in che raggio traluce
vid’io uno scaleo eretto in suso
tanto, che noi seguiva la mia luce
Dante Alighieri, La Divina Commedia, Paradiso
Sessanta opere di Louise Bourgeois esposte nel Museo napoletano di Capodimonte costituiscono l’occasione per addentrarsi in uno dei più complessi e affascinanti universi artistici del nostro tempo. Questa grande antologica rappresenta una viva testimonianza dell’inesauribile produzione dell’artista, dalle prime sculture dal sapore surrealista fino alle installazioni più recenti.
Le opere selezionate dalla Bourgeois e installate dal suo fidato collaboratore Jerry Gorovoy dialogano con le collezioni di arte antica di Capodimonte. Si viene accolti dal grande ragno Maman, già esposto nella Turbine Hall della Tate di Londra. Le sue puntute zampe affondano nel porfido del cortile del museo, ergendo il monumentale aracne a gravida icona del nostro tempo. È il ritratto visionario della madre della Bourgeois, esempio di laboriosità unito a una grande precisione tecnica che il ragno, come la madre, dimostra nel tessere la quotidiana tela del vivere; ma allo stesso tempo segnala un potenziale pericolo rappresentato dal ragno/predatore, talvolta velenoso, che grazie alla sua tela si procura prede da divorare ancora in vita dopo averle paralizzate.
È l’inequivocabile segnale di come l’arte venga dalla vita, producendo una risonanza con il tempo, con il suo scorrere inesorabile in un tragico dialogo tra finito e infinito, tra vivere e morire. L’artista franco-americana non si sottrae a questo drammatico destino, rispondendo con opere che oscillano continuamente tra danno e riparazione, tra erotico conflitto e poetica aspirazione catartica. Lo testimonia Cell (the last climb), installazione inedita realizzata per Capodimonte. Un’opera esposta in eloquente rapporto con La Madonna del Baldacchino di Luca Giordano.
È un’architettura sacra che possiede tutti gli elementi essenziali della cappella votiva: la completezza celeste è simboleggiata da una circolarità perfetta e un pilastro cosmico, raffigurato da una scalinata a spirale posta al centro; piccole sfere di vetro trasparente di diverse sfumature di blu pendono nello spazio come lucernari sacri; due grandi sfere di legno completano il disegno spaziale. L’ultima scalata, questa la traduzione letterale del titolo, si dipana come inquieto presagio attorno a un fantoccio blu stranamente organico, trafitto da aghi e appeso al palo centrale come ad una croce.
Fili gialli si srotolano da una dozzina di rocchetti che fiancheggiano le pareti metalliche interne avvicinando gli aghi al feticcio biomorfo ed evocando l’azione del cucire, della tessitura dei complessi tratti dell’esistenza. A novantasette anni, l’artista sente il bisogno di confrontarsi con la dimensione spirituale. The last climb è l’opera tra la serie delle celle più profondamente catartica. Non è dedicata alla morte come in altre spettrali evocazioni ma aspira alla vita eterna. La scala è il passaggio tra la vita e la morte. Lasciandosi alle spalle i resti del passato, Louise Bourgeois si arrampica per la lunga scalinata fino al paradiso. Opportunamente lo conferma la terzina ripresa dalla cantica più eterea di Dante segnalata come motivo ispiratore dell’opera.
“Le celle rappresentano diversi tipi di dolore fisico, emotivo, psicologico come le piccole cellule del sangue — afferma la Bourgeois — piccole entità l’una accanto all’altra e l’una diversa dall’altra. A volte si respingono a volte si attraggono”. Ma in The last climb la sofferenza dell’artista si trasforma in serenità. Bourgeois ha compiuto un miracolo spirituale ed estetico: la cella non è più una prigione, o una famiglia infelice, ma un santuario, un simbolo della calma interiore, uno spazio di rara bellezza. Nonostante l’età avanzata, la sua arte non ha smesso di evolversi emotivamente e creativamente, non ha smesso di trasformarsi.
Il fascino che il lavoro di questa straordinaria artista esercita sul mondo dell’arte, da più di quattro decadi, è certamente legato alla costruzione di pensieri e azioni capaci di sviluppare un efficace sistema emotivo, che affonda le sue radici in uno sguardo sul mondo profondamente femminile e materno.
Nata nel 1911 in una famiglia borghese di Parigi fin dalla tenera età aiutò i genitori impegnati nella loro azienda di restauro di tappeti. Lei stessa conferma che quest’attività di riparazione e ripristino di oggetti danneggiati ha influenzato la sua futura produzione artistica. Il difficile rapporto con il padre donnaiolo, che impose un’amante in casa distruggendo la famiglia, completano il quadro psicologico della sua formazione adolescenziale. Fuggita da casa, si iscrisse prima ad una scuola d’arte per approdare poi nello studio di Fernard Leger.
Nel 1938 sposò lo storico dell’arte americano Robert Goldwater, il cui Primitivismo nell’arte moderna — a lungo considerato saggio fondamentale sull’argomento — si presume ragionevolmente possa aver influenzato anche lei. Nello stesso anno, con il marito partì per New York e le sue prime opere sono legate al clima tardo surrealista che si respirava negli anni Quaranta e Cinquanta nella grande mela. Acquisisce uno stile inequivocabilmente personale solo nel 1968, quando presenta Fillette, la fanciulla, una combinazione di gesso, latex e stoffa che disegna un turgido organo sessuale maschile. L’opera è esposta a Capodimonte, in una sala del pianoterra dominata da una batteria di sculture sospese, guardate a vista dall’intenso Giuditta e Oloferne di Artemisia Gentileschi.
Quasi a rimarcare che l’arte è una storia di donne tra donne; anche se la Bourgeois non riconduce la sua opera a una matrice femminista ma ad un rapporto carnale, straziante, che riduce la madre a seno, lei stessa in fallo, il torso in autoritratto e via via fino ad arrivare agli uteri o ai grembi gravidi. La scelta del mezzo scultoreo con materiali come gomma, lattice, plastica, gesso, cera, resina, canapa, cotone, è tesa alla cruda evocazione degli organi del corpo, e anche il trattamento dei materiali tradizionali come il marmo e il bronzo riescono a catturare la tensione della carne tirata, la lucidezza del tessuto delle membrane.
Tutto questo inseguire l’essere madre e donna va contro l’idea di un’arte simbolica, celata nel mondo della fantasia, collocata tra i libri di una biblioteca o sui piedistalli di un museo. Il desiderio è carne sostengono con forza Deleuze e Guattari nell’Antiedipo. Le sculture della Bourgeois si inseriscono, dunque, su una traiettoria desiderante, di apparato celibe, che la porta ad abbandonare ben presto la pittura perché non soddisfa abbastanza il livello di realtà. La sua arte desiderante ha bisogno di qualcosa che esista materialmente, qualcosa che agisca nel mondo fisico.
Ha bisogno della scultura. L’attività scultorea dell’artista è mossa dal costante impulso a creare un cortocircuito nella logica della forma e a produrre un’impensabile mutazione al suo interno, dove gli opposti si sciolgono a creare ciò che George Bataille ha definito l’informe. È una manifestazione concreta di quella ferita aperta nel corpo dell’arte che, a partire da Artaud fino alla Societas Raffaello Sanzio, rappresenta la lotta quotidiana di liberazione dalla prigione della rappresentazione mimetica.
Rispetto alle tante mostre dedicate alla Bourgeois nei musei di tutto il mondo, questa di Capodimonte rappresenta una felice celebrazione dell’opera dell’artista, per la capacità di esaltare le radici del suo lavoro, che si diramano in molte direzioni all’interno dell’arte e del pensiero degli ultimi quarant’anni. La straordinarietà dell’operazione si coglie proprio nell’intenso dialogo tra le opere della Bourgeois e quelle delle collezioni del museo napoletano. L’eccezionale successione di dipinti, sculture, arazzi e disegni di Capodimonte si combinano senza soluzione di continuità con la sensibilità creativa dell’artista franco-americana, producendo una collisione temporale e sensoriale alimentata da quel desiderio totalizzante e straniante che solo l’arte può dare.
“È solo attraverso la mia opera che comunico col mondo. È l’unico modo che conosco e l’unico che mi interessa conoscere” ha affermato Luoise Bourgeois chiacchierando con Achille Bonito Oliva in un incontro newyorkese. “Per comunicare ci devono essere un mittente e un destinatario. Io sono il mittente e quel che pensa il destinatario non è un problema mio. Dico quel che devo dire e avvenga quello che deve avvenire”.