Che c’è di male a proiettare un film in un teatro all’italiana grondante lampadari di cristallo, tutto stucchi dorati e balconate? E perché non portare uno spettacolo teatrale in una sala di cinema? Chiamatela come volete: gusto, anomalia, vezzo. Alessandro Baricco la definisce “lateralità”: l’idea che in qualsiasi situazione lui preferisce mettersi da una parte, non scegliendo mai il centro della scena. Per l’uscita italiana di Lezione 21, per esempio, il suo debutto da regista già presentato in anteprima ad agosto al Festival di Locarno, ha scelto il Teatro Argentina di Roma, quello in cui “quando porto in giro i miei spettacoli chiedo sempre di non venire, piuttosto scelgo una sala cinematografica”. Poi sorride, senza fornire spiegazioni.
Tutto si perdona al “ragazzo” cinquantenne, torinese, già superstar del firmamento letterario, che suscita elogi o stroncature spesso isterici. Anche il lunghissimo cappello introduttivo a cui ha sottoposto la platea. Come al solito scioltissimo con l’apparenza del dimesso sopra il palco dell’Argentina — mano in tasca, leggermente di profilo, logorroico ma arguto e divertente, tempistica perfetta e aneddotica infinita — ha spiegato come è arrivato a dirigere un film dopo essere stato scrittore, saggista, autore teatrale, critico musicale, conduttore televisivo e fondatore di una scuola di scrittura. E dopo che il suo monologo Oceano mare è diventato un colossal in mano a Giuseppe Tornatore (La leggenda del pianista sull’oceano) e Seta, poche pagine e parole misurate, è stato portato sul grande schermo in una versione patinata ed evocativa per mano di Francois Girard.
Ci sono un motivo e un nome che hanno portato Alessandro Baricco a debuttare come regista. Il motivo è che aveva iniziato a scrivere della Nona sinfonia di Beethoven perché ogni volta che ne parlava nei suoi spettacoli teatrali notava che il pubblico ne era affascinato ma ne sapeva poco. Si rendeva conto che quel lavoro sarebbe potuto diventare un film. Ma era così disarticolato, disorganico, poco narrativo: chi lo avrebbe potuto dirigere se non chi aveva una vaga idea di che cosa volesse trattare?
Il nome, invece, è quello del produttore cinematografico Domenico Procacci, del quale Baricco è diventato socio nel 2005, quando ha accettato di dirigere la sezione libri della Fandango. Facendo un po’ di rumore nell’ambiente letterario perché, non più top seller ma pur sempre conteso da grosse case editrici, aveva deciso di mettersi in proprio, tentando l’avventura con l’imprenditore pugliese. Che, detto tra parentesi, è uno spirito affine al suo, per varietà d’interessi e sicurezza di movimenti. Da subito Fandango libri ha ripubblicato i titoli celebri dello scrittore e ha opzionato Seta per farne un film in inglese, coproduzione internazionale con Canada e Giappone e nel cast Michael Pitt e Keira Knightley.
Insomma il debutto dietro la macchina da presa era nell’ordine delle cose e l’occasione si è concretizzata intorno ad una storia a lui congeniale, grazie alla quale ha potuto riprendere la sua grande passione per la musica classica (l’esordio letterario, nell’88, fu con Il genio in fuga. Due saggi sul teatro musicale di Gioacchino Rossini) e filtrarla attraverso l’occhio dello scrittore e la bravura dell’affabulatore. Lezione 21 muove dalle gesta di un anziano eccentrico professore universitario, Mondrian Killroy (John Hurt), che partorisce il progetto di “demolire” le opere d’arte sopravvalutate — dalla Gioconda all’Odissea di Kubrick, all’Ulisse di Joyce, ai quadri di Warhol e via discorrendo — che censisce in una collezione di foto e post-it attaccati sopra il cesso per non dimenticare nessuno di quei simboli della nostra cultura celebrati come pietre miliari ma forse esempi di grandi abbagli.
L’ultima lezione, la 21 appunto, il professore la lascerà incompleta perché decide senza preavviso, misteriosamente, di rifugiarsi in una comunità di homeless installati in una diroccata sala da bowling. I suoi studenti restano con l’acquolina in bocca, da sempre ammaliati da quell’insegnate dalle intuizioni per lo meno sbalorditive. Anche perché Killroy, prima di scomparire, si era messo a demolire la Nona sinfonia di Beethoven, l’inno europeo, la colonna sonora di eventi trionfali, un’opera che per alcuni rappresenta “in sé” il concetto di musica classica. Ebbene sì, il professore/Baricco arriva a commentare laconicamente: “Mi commuove che nella Nona ci sia così poca bellezza, è come un volo senza uccelli”.
Killroy ha fatto perdere le tracce di sé ma un’allieva adorante, Martha (Leonor Watling) riesce a scovarlo, raccogliendo le ultime parole sull’argomento “Nona sinfonia” direttamente dalla bocca di quell’anziano uomo di cui era innamorata e al quale suo tempo aveva avuto l’ardire di offrirsi come amante (gentilmente rifiutata). Sono le conclusioni amare di un vecchio accademico rispetto all’opera di un altro vecchio musicista che, forse intaccato nella sua lucidità dalla vita che stava per sfumare, “non sa più trovare la bellezza, che a una certa età può anche spaventare”.
Martha diventa quindi la voce narrante del film: introduce il professore, il suo progetto e le argomentazioni che aveva utilizzato per costruire la sua Lezione 21, che contiene almeno due storie da raccontare. In un montaggio incrociato si mescolano l’oggi (la ricerca del professore), il passato prossimo (la rievocazione della lezione) e il passato remoto, con il ritratto a più voci di Beethoven, nel 1824, nella scomoda posizione di dover tornare sulle scene a dieci anni dall’Ottava sinfonia. Riconosciuto ancora come la star viennese che aveva “inventato” la musica classica e ne aveva forgiato il significato: non più solo decoro e diletto magari per una corte annoiata ma “gesto metafisico, come stretta poetica al cuore del mondo” dice Baricco. E tuttavia ultracinquantenne, già nell’Olimpo da vivo, però sordo, abbrutito e deluso dal successo che a piccole tacche scemava, intaccato da nuove mode, da altri nomi di grido. La gente ormai reclamava la leggerezza di Rossini, anzi la mania era tale che del maestro italiano si iniziò ad imitare tutto, dai vestiti all’acconciatura. Oltre naturalmente alla musica.
E infatti l’opera del canuto maestro — che non vedremo mai sullo schermo se non per quattro secondi di spalle — non riempì nemmeno il teatro quel pomeriggio del 7 maggio 1824: la rentrèe era stata un fallimento. Sbuffi e abbandoni della sala nel migliore dei casi. Lui svenne quando si fece comunicare gli incassi. Subito prima, quando calò il sipario, dai palchi restavano gli amici a sventolargli i fazzoletti bianchi (non avrebbe sentito gli applausi) più per commiato che per soddisfazione. Quella serata è rievocata da decine di “testimoni oculari” che Baricco colloca in vuoti siparietti, come fossero intervistati da un programma televisivo di ricostruzione, ciascuno con la sua curiosa postura, in abiti ottocenteschi oppure svestiti e con addosso solo enormi parrucche.
Ma Killroy, ricostruendo quel 1824, ricorda anche un altro fatto in qualche modo collegato alla Nona: quell’inverno un violinista (Noah Taylor, interprete anche del pianista di Shine) viene trovato morto assiderato, pietrificato col suo strumento tra le mani, su un lago ghiacciato non lontano da Vienna. Folgorato dal genio di Beethoven. Già alcuni mesi prima gli era accaduto di salvarsi solo grazie all’intervento di un bambino (un angelo della musica?) mentre suonava estasiato nel cuore della foresta. In quell’occasione era stato accolto da una fiabesca comunità che gli aveva spiegato i misteri della Nona e insegnato nuovi modi per ricavare musica dalla natura: lo scalpiccio degli zoccoli dei cavalli sul ghiaccio, il volo degli uccelli, il frusciare delle foglie.
Il maestro viennese è stato tirato in ballo più volte dal cinema. Non soltanto quelle migliaia in cui è finito nella colonna sonora di film, abusato da registi che avevano bisogno di commentare di tutto, dalle azioni di guerra al sesso, con la sua musica trionfale. Di Beethoven, o almeno della sua favolosa eredità finita in mani misteriose, si parla in Amata immortale di J. Rose, del 1995. Ci sono tre indiziati: la contessa italiana Valeria Golino, quella ungherese Isabella Rossellini e, giusto perché di lui si diceva fosse un genio misogino, il nipote Gary Oldman. Didascalico, sulla vecchiaia del musicista, Io e Beethoven di Agniezska Holland è il titolo più recente (2007) mentre, di due anni precedente, Musikanten di Franco Battiato, insegue la figura del viennese nelle pieghe del mito. In fondo Baricco, tanto per celebrare la sua “lateralità”, nell’approccio è molto più vicino al tentativo di un altro “non professionista del cinema” come il cantautore catanese.
Per affrontare Lezione 21 bisogna tenere in conto che sarà un destreggiarsi negli incroci di storie senza gli abituali appigli che offre una sceneggiatura da film di consumo. Piuttosto, Baricco procede per suggerimenti, anche abbastanza vaghi, e molte suggestioni visive. Il film però riserva tutta una serie di pregi, a cominciare dalla curiosità dello scenario, la verve dei dialoghi e alcune immaginifiche trovate. Il cast anglosassone poi ha fornito al neoregista una nutrita tavolozza di sfumature. Bellissimi sono i costumi di Carlo Poggioli (abituale di Zeffirelli) e preziosa la supervisione del grande Tanino Liberatore, che con la sua prodigiosa matita ha visualizzato i personaggi e i contesti della storia del violinista nella foresta. Per una volta mai a sproposito la musica classica che si rivela personaggio più che psicanalizzato. I bianchi abbacinanti della neve del Trentino (divenuto una delle location grazie al sostegno della locale Film commission) e i siparietti rococò alla Peter Greenaway sono molto ben fotografati da Gherardo Gossi. E poi smisurato, e tuttavia trattato con autoironia, l’ego di Baricco, che per forza di cose traspare in controluce nella figura di Killroy, coraggioso nel mettere in discussione una pietra miliare della nostra cultura con la tranquillità di chi pensa di poterne sfornare un’altra senza troppa difficoltà.