Giornalista, scrittore, uomo di cultura, ma soprattutto grande filantropo. Potremmo definire così Candido Cannavò, in virtù di una vita dedicata alla carta stampata e a rendere protagonisti dei suoi libri gli altri, i meno conosciuti, i meno apprezzati, i cosiddetti diversi: dai carcerati ai disabili passando per i preti, purché non siano quelli tradizionali. Individui che non hanno bisogno di pietà e compassione, ma solo di essere ascoltati, come si fa con le persone normali; uomini e donne che per un attimo diventano protagonisti raccontando la propria storia.
Sono libri umani quelli di Cannavò, perché fanno nomi e cognomi, perché parlano di storie vere che siamo abituati a dimenticare, di atti eccezionali compiuti quotidianamente nell’anonimato. Quattro volumi per mettere in luce vite ed esistenze dei “meno fortunati” che hanno tanto da dire. Scritti con il rigore del cronista, l’abilità narrativa dello scrittore e lo sguardo dell’uomo che entra nelle vite degli altri per ascoltare, senza pregiudizi e senza preconcetti.
Questo è il modus operandi di Candido Cannavò , che non è venuto meno nella sua ultima opera, Pretacci: una lente di ingrandimento su venti sacerdoti che compongono l’altra Chiesa, che interpretano il Vangelo in modo più attivo perché ai poveri e ai disadattati si mescolano davvero. Da don Gallo a don Benzi, da padre Bossi a don Ciotti, da don Merola a padre Zanotelli, a don Bizzotto, tanti ritratti di uomini coraggiosi e forse un po’ ribelli, che arrivano sui marciapiedi e nelle periferie cittadine per incontrare i veri bisognosi.
Sara Visentin (SV): Lei ha avuto una lunghissima carriera da giornalista e si è occupato principalmente di sport, ma anche di problemi sociali e di costume. Com’è avvenuto il passaggio che l’ha portata alla stesura dei suoi primi romanzi?
Candido Cannavò (CC): Io credo che non ci sia nessun passaggio. I miei libri non sono romanzi, sono semmai dei saggi in cui la radice giornalistica è prevalente. Quando racconto il carcere praticamente ci entro dentro, accompagno il lettore e andiamo a vedere cos’è un carcere. Entro in confidenza con le persone e racconto delle vite, delle speranze, dei problemi. Dall’ergastolano fino alla Signora Gucci, tanto per dire, o alla zingarella che a ventisei anni ha sette figli. Mi sono occupato di tutta l’umanità del carcere, e lo stesso è avvenuto per i disabili. La storia di Simona Atzori è un romanzo di per sé, ma io ne faccio una cronaca, una descrizione, un racconto, quindi non c’è alcun passaggio. Credo che nel mio lavoro ci sia stato, sia nello sport che in tutto quello che ho fatto dopo, una continuità, una continuità che si basa sulla persona, ossia l’uomo che c’è dentro il campione, l’uomo che c’è dentro il detenuto, l’uomo che c’è dentro il disabile, l’uomo che c’è nel mio ultimo libro, quello che è dentro questi preti della strada, i preti del marciapiede.
SV: Tutti i suoi libri sono stati dei grandissimi successi. Una vita in rosa e Libertà dietro le sbarre sono stati premiati, mentre E li chiamano disabili è stato un successo da 12 edizioni. Adesso invece arriva Pretacci. A quale dei suoi libri si può dire più affezionato?
CC: Non ce n’è uno. I libri sono come i figli, sul serio. Io prima non ci credevo, ma è la verità. Dei figli non puoi dire che ne ami più uno o un alto. Tutti mi danno un’emozione forte, sinceramente. Il primo, Una vita in rosa, è un segno di gratitudine verso un destino: cinquant’anni della mia vita — che sicuramente non sono stati facili, perché divenni orfano di padre a cinque anni; e poi la guerra, i bombardamenti… Però sono stato guidato da una provvidenza, uno sbocco favorevole, dalla Sicilia a Milano, alla direzione del giornale. Quindi il libro, secondo me, oltre ad essere un libro di storia — perché naturalmente gli avvenimenti sportivi e i personaggi dello sport scandiscono cinquant’anni di vita nazionale — è anche un segno di gratitudine verso il destino che mi ha dato questa carriera e questa vita.
SV: Nei suoi testi lei ha sempre affrontato temi attualissimi e dagli importanti risvolti sociali. Perché ha scelto di mettere al centro delle sue opere proprio delle tematiche così forti, che le riviste, i giornali e persino la società spesso non vogliono vedere?
CC: Questo è un luogo comune. Quando scrivevo il libro sui disabili molti mi dicevano “ma chi vuoi che lo legga un libro sui disabili. Passi per i carcerati… Sai, la curiosità sul carcere, ma i disabili…”. Invece è stato quello che ha avuto più successo e che non tramonta mai. È richiestissimo, e io con lui per parlarne: ho fatto centoventicinque presentazioni in due anni. E non è che le cercassi io, ero davvero strapazzato e conteso da tutte le parti. Quindi ribadisco che il presunto disinteresse è un luogo comune. Il nostro è un paese che queste cose le gradisce, le cerca e le sente, soprattutto. L’Italia non è tutta stupida come quella della televisione.
SV: Pretacci, il suo ultimo libro, parla dell’altra Chiesa, di preti che dedicano la loro vita alla gente di strada, portando loro il Vangelo. Sono questi stessi preti che, mescolandosi alla gente comune, riescono forse meglio di altri ad avvicinare alla fede, perché si sporcano le mani, si sporcano la tonaca …
CC: Questa è in fondo la vera missione della Chiesa perché il Vangelo non è celebrato nel fasto del tempio, sotto le vestimenta di un Papa o sotto gli anelli dei Cardinali. Cristo è andato per le strade dagli storpi, i ciechi, gli emarginati, gli ultimi, gli zoppi, eccetera. Quindi c’è una coerenza in questo discorso, non è che questi preti siano degli stravaganti. Assolutamente, sono delle persone che seguono la linea del Vangelo. E di Don Dilani, che è stato il primo di loro, l’antesignano di questo tipo di preti, trattato male dalla Chiesa e poi riabilitato quando è morto.
SV: Come pensa siano visti questo tipo di preti dai sacerdoti tradizionali?
CC: È chiaro che dipende da caso a caso. Nel complesso io credo che siano in parte tollerati dalle grandi gerarchie, ma molto amati dalla gente, amati moltissimo. All’interno della Chiesa, però, ora c’è la tendenza ad andare verso quella direzione, di una Chiesa più aperta.
SV: Crede che il governo italiano, dovrebbe occuparsi diversamente dei disabili, degli extra-comunitari, dei cosiddetti diversi?
CC: È chiaro che c’è sempre tanto da fare in un mondo così problematico. Un paese multirazziale può essere una grande ricchezza ma è anche un grande problema pratico. Riguardo ai disabili, si sono fatti moltissimi passi avanti. Prima erano degli emarginati, dei non considerati, oggi è diverso, si sono fatte parecchie cose. Anche a livello psicologico è cambiata la nostra percezione, quando si vede uno in carrozzina non si vede un reietto, uno che non ha titoli per “stare nella vita”. Si vede una persona che può avere le sue capacità e può farle valere. Perché l’hanno dimostrato e perché è giusto dar loro questa possibilità, rinonoscere i loro diritti. In questo senso, la cultura sta crescendo. Certo c’è sempre tantissimo da fare perché ancora molte città, molte scuole, molti edifici pubblici non sono attrezzati per mettere i disabili in condizione di essere come gli altri.
SV: Lei ha visto dei cambiamenti nel modo in cui la scrittura si approccia al mondo dei lettori? Mi spiego meglio: in un mondo in cui internet, ad esempio, e la televisione la fanno, per così dire, da padroni, che spazio pensa resti alla letteratura, al piacere della lettura, con riferimento soprattutto alle nuove generazioni?
CC: Questo è il grande interrogativo che ci si pone ogni volta che spunta un mezzo nuovo. Quando spuntò la televisione ci si chiese quale sorte avrebbero avuto i giornali. E non hanno chiuso. Io credo che la forza della parola scritta abbia ancora un suo peso, e lo avrà sempre. Certo i limiti sono più ristretti. I confini sono più ristretti perché oggi viviamo l’informazione in un’orgia continua. Telefonini, internet, radio, addirittura gli schermi in metropolitana. L’informazione è ovunque e in diretta e quindi i margini della parola scritta sono più ristretti, però io credo che resisteranno sempre.
SV: Sta già lavorando a qualche altro libro? Se sì, ci può dare qualche anticipazione?
CC: No, no, non si parla mai delle cose in anticipo. “Per il momento niente”, questa è la risposta ufficiale (ride, nda).