Copertina de L'uomo che allevava i gatti
Titolo: L’uomo che allevava i gatti
Autore: Mo Yan
Traduzione: Daniele Turc-Crisà, Lara Marconi, Giorgio Trentin
Titolo originale: Yang mao zhuanyehu
Anno di pubblicazione: 2008
Prima ed. italiana: 1997
Editore: Einaudi, Torino
Collana: Einaudi Tascabili Scrittori
Pagine: 260
Prezzo: 10,80 Euro
ISBN: 9788806191578

Una luna enorme, grondante di rosso, si innalzava a est del villaggio nel crepuscolo della pianura immensa. Le case, tinte del rosso lugubre della luna, sparivano dietro un velo sempre più spesso di nebbia e di fumo. Il sole era appena tramontato e una lunga nuvola purpurea aleggiava ancora all’orizzonte. Piccole stelle gracili tra il sole e la luna mandavano bagliori intermittenti. Il villaggio scivolava lentamente nel mistero, non un abbaiare, non un miagolio, né grida di anatre o di oche, solo il silenzio. La luna si levava, il sole tramontava. Un bambino sgusciò fuori da una porta fatta di ramaglie e in quel momento una stella si spense nel cielo. La sagoma del bambino, come l’ombra di uno spettro, galleggiò leggera nell’aria e ondeggiò sull’argine del fiume dietro al villaggio. Sotto l’argine, l’erba secca e le foglie ingiallite dei pioppi e dei salici sembravano ansimare. […]

I genitori avevano lo sguardo vuoto, simile a quello dei pesci. I visi degli abitanti del villaggio erano aridi come il deserto, fissavano le sue natiche illuminate dal sole come se si trattasse di un bel viso di bimbo, come se stessero guardando me.

L’espressione del musicista diventò penosa quando sentì comparare la sua musica al vino di Hua Moli. L sue orecchie tremarono come due esistenze tormentate. Quella sera suonò malissimo, la musica strideva come la sabbia sotto i denti quando si mangia del riso mal lavato.

Mo Yan autore di Sorgo rosso e di L uomo che allevava i gatti editi da EinaudiL’uomo che allevava i gatti è un libro sublime e violento allo stesso tempo. I racconti di Mo Yan, una volta scoperchiati e digeriti, si fanno leggere e rileggere ammalianti. Certi paragrafi assomigliano alle strofe di un lacerante canto popolare, ad una di quelle nenie affascinanti e dolorose che risuonano nel profondo come echi di un atavico sentire collettivo.
Dal punto di vista stilistico, la sua prosa rasenta a tratti la perfezione di un felice verso poetico — grande merito va certamente riconosciuto alle splendide traduzioni di Daniele Turc Crisà, che ha scelto e lavorato a Il fiume inaridito, Il cane e l’altalena, Il tornado, La colpa, musica popolare e al racconto che dà titolo al libro. L’eleganza della forma, però, quasi sempre cozza con la brutalità dei contenuti, tanto da lasciare il lettore in uno strano stato sospeso, attonito.

Le vicende narrate — intervallate ora da allusive strofe di canzoni, ora da fantastiche storie di volpi — parlano di aborti forzati, di rapporti anaffettivi, di violenza, di morte, di miseria. Orfani e miserabili urlano silenziosamente dalle pagine crude condanne attraverso un linguaggio trasfigurato (non è un caso che lo pseudonimo adottato dallo scrittore significhi proprio “colui che non vuole parlare”), poetico ed incredibilmente leggero, con gradazioni che tendono all’onirico e al fiabesco.

Vera protagonista e carnefice è la Cina rurale, la Cina di ieri, lo strato più profondo di quella che si accinge a diventare la principale potenza economica mondiale; ed è una Cina dal volto disumano, che fa paura.
Per nove volte il filo del racconto si snoda tra villaggi e campi di sorgo, penetra senza esitazione nelle pieghe di storie nostalgiche e disperate. La narrazione procede pacata e mantiene sempre un suo equilibrio, pur sfasando d’improvviso piani temporali e punti di vista; il flusso è costante, quasi ipnotico. Lo suo sguardo è diretto e impietoso, disincantato eppure così pieno di magia.

Mo Yan autore di Sorgo rosso e di L uomo che allevava i gatti editi da EinaudiLeggendo si percepisce con chiarezza una forte componente autobiografica: la materia prima arriva da un substrato popolare, contadino, ma gli occhi di chi guarda non appartengono più a quel mondo. Lo scrittore attinge a piene mani al suo vissuto — l’infanzia trascorsa in campagna, le esperienze politiche e nell’esercito, il trasferimento in una città che resta sempre al margine del racconto — con una distanza dalla quale riemergono a tratti un senso di nausea e il ricordo di una rabbia umiliata. Simile a quella dei suoi piccoli meravigliosi personaggi, ribelle come gli insulti sgorgati dalla disperazione del più tragico tra loro, il protagonista de Il fiume inaridito — un autentico capolavoro — , il cui cuore “si era fatto duro come una palla di cannone”.