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Lungo il fiume

Come abbiamo già avuto modo di osservare, dunque, molte sono le vicende che il Mississippi ha saputo ascoltare da quando è nato il cinema. Si possono contare a decine i film nei quali è presente come protagonista, solo di passaggio, oppure nascosto sullo sfondo.

Tramonto sul Mississipi

A esso sono legate, in maniera molto stretta, varie sfumature di una cultura radicata nel profondo Sud degli Stati Uniti, con le sue storie, le superstizioni e la sua musica. Scrutare come l’immaginario cinematografico sia riuscito nel tempo ad appropriarsi di questi aspetti portandoli sul grande schermo, significa anche riconoscere i significati che nascondono: l’anima delle terre al di là degli argini meridionali del Mississippi si esprime con irruenza grazie al potente linguaggio del cinema. E lo fa producendo simboli, oltre che immagini, di stimolante intensità.

Un film d’avventura, un musical, un horror, un film d’azione. A testimonianza che le storie del fiume sono tante e spaziano attraverso i generi. Il grande corso d’acqua assume di volta in volta simbologie diverse: metafora di libertà e luogo di viaggio in Le avventure di Huck Finn (1993); attore non protagonista eppure fondamentale e presente ascoltatore in Show Boat (1952); oscuro porto di rinascita e rigenerazione in Intervista col vampiro (1994). Non appare completamente invece, nell’ultima pellicola di cui leggerete, I guerrieri della palude silenziosa (1981). Al suo posto, le sterminate paludi della vicina Louisiana; e una stupenda sequenza finale, dove, le tradizioni, la musica, le facce della persone di uno sperduto paesino in festa, emergono imponenti e spiazzanti. Ma lasciamo scorrere le parole e la pellicola.

Per sfuggire a un padre violento e ubriacone, l’incontrollabile ribelle Huck Finn inscena la morte del genitore e fugge su una zattera lungo il Mississippi. In compagnia di Jim, schiavo nero che sogna la libertà, si ritrova coinvolto in una lunga e travagliata avventura. Stephen Sommers, quattro anni dopo la sua opera d’esordio, Catch Me If You Can (1989), ritrae il Sud degli Stati Uniti adattando l’omonimo racconto di Marc Twain. In un film caratterizzato anche da alcune scene di forte impatto drammatico (come la sequenza della morte di Billy, amico di Huck, nda), tra campi di cotone, mattoni rossi e cappelli a cilindro, il regista americano dosa ogni ingrediente con grande sapienza ed efficacia. Il risultato finale è un coinvolgente river-movie in cui il corso d’acqua compare sullo sfondo di moltissime inquadrature.

Mississippi

Luogo di incontri, di partenze speranzose e ritorni improvvisi, di tradimenti, ripensamenti e loschi traffici, il Mississippi, con il suo lungo corso, è la grande metafora di una libertà che per esistere compiutamente ha bisogno di scorrere senza fermarsi. E le sfaccettate storie che lo percorrono sono il riflesso delle tante indecisioni e contraddizioni del protagonista: Huck Finn e il fiume si fondono magicamente in questo prodotto della Disney. Una pellicola dove lo spettatore può decidere di lasciarsi ingenuamente trasportare, che sia su una canoa o su un battello, su una zattera o su un tronco poco importa.

Lo show boat è uno di quei barconi che transitavano sul Mississippi offrendo spettacoli di varietà ai viaggiatori. La figlia del capitano, Magnolia, si innamora di Gaylord, un giocatore impenitente. I due si sposano, ma l’uomo non risparmia lacrime e dispiaceri alla ragazza, fino all’inevitabile, anche se momentanea separazione. Tratto dal musical di Oscar Hammerstein II e Jerome Kern del 1927 (come anche Mississippi di Hanry Pollard del 1929, e La canzone di magnolia di James Whale del 1936), il film di George Sidney è una gustosa e leggera commedia musicale nella quale fotografia e scenografie restituiscono le atmosfere di meraviglia e spettacolo essenziali nel genere.

Costumi luccicanti, danze e paesaggi si mischiano in questa coloratissima pellicola divisa in due parti (lungo il fiume e a Chicago) che narra di un mondo, il Sud dell’America, in cui gli uomini bianchi si amano, i loro figli giocano, la gente di colore lavora e osserva sullo sfondo. Ma nelle ultime immagini è la calda voce nera di William Warfield a intonare una canzone mentre il battello e il suo chiassoso equipaggio ripartono: è il saluto del Mississippi prima della scritta The End.

San Francisco. In una stanza d’albergo un giovane giornalista ascolta la storia di Louis: ricco proprietario terriero tormentato dalla perdita della moglie e della figlia, dopo esser stato morso da un vampiro, riemerge dalle acque del Mississippi. Siamo nel 1791. Sulle rive del fiume, abbandonato da qualche parte fra la vita e la morte, il narratore della vicenda ammira lo splendore dell’alba per l’ultima volta. Lestat, questo il nome dell’assalitore, ben presto diviene suo maestro e compagno di caccia. I due incominciano a mietere vittime alla “Taverne du chat noir”, come negli ambienti nobili di New Orleans (il sangue degli aristocratici eccita Lestat più di ogni altra cosa). Tuttavia, il giovane vampiro, continua a conservare una sensibilità umana che gli impedisce di assecondare la sua nuova e oscura natura.

Suggestiva, a tratti violenta e ambigua deriva vampiresca del genere horror, la pellicola di Neil Jordan, tratta dall’omonimo romanzo cult della scrittrice americana Anne Rice, del 1976 (primo capitolo delle Cronache dei Vampiri), ha una struttura narrativa (San Francisco, New Orleans, Parigi, ancora la città sul Mississippi, infine si ritorna a San Francisco) capace di catturare e coinvolgere lo spettatore in un affresco gotico che rivaluta la tradizionale figura del vampiro e le dona nuove e profonde sfumature.
Come nel Dracula (1992) di Coppola, anche in questo film, attraverso gli occhi di una creatura della notte, il cinema riflette poeticamente su se stesso e sulla magia della propria illusione: in una splendida scena Louis, abbandonato il Vecchio Mondo per tornare nella sua America, scopre quella meravigliosa invenzione tecnica che gli permette di vedere l’alba, per la prima volta, dopo duecento anni. Il cinema, appunto.

Mississippi

Nei primi anni Settanta, nove soldati della guardia nazionale della Louisiana partono per un’esercitazione all’interno di una sterminata palude. Giunti presso un corso d’acqua difficile da superare decidono di appropriarsi di alcune canoe. Gesto che scatena una violenta e improvvisa reazione da parte dei Cajuns, abitanti nascosti di quei luoghi. Dispersi e con poche munizioni, si ritrovano a combattere contro un nemico silenzioso e micidiale.

La pellicola di Walter Hill, per le sue atmosfere tese e per la struttura della storia (un incidente scatena la caccia a un manipolo di uomini costretti alla fuga) ricorda molto da vicino I guerrieri della notte (1979), altro importante film del regista californiano. In una messa in scena impeccabile fin dai titoli di testa, alle splendide immagini di un paesaggio labirintico e opprimente, si sovrappongono le calde sonorità blues della chitarra di Ry Cooder, che accompagna il cammino dei soldati dipinti come reazionari psicotici e violenti.

Attraverso personaggi destabilizzati immersi in una natura diversa e ostile, e dietro la facciata retorica e banale di molti dialoghi, si nasconde un accusatorio e critico ritratto antimilitarista, oltre che un’evidente denuncia di una certa società americana. Abbagliante la risolutiva sequenza finale, capace di elevarsi ad altezze impensabili per il resto del film: un montaggio alternato fra incessanti chitarre, violini e fisarmoniche, danze, maiali squarciati e poi arrostiti. Una magistrale e allucinatoria festa di sangue.

Appunti di viaggio

Ci sono due pellicole sulle quali, ora, vorrei riporre la mia attenzione. All’interno di queste, il tema particolare a cui voglio fare riferimento, il viaggio sul fiume, assume connotati rilevanti, e se vogliamo per certi versi estremi e opposti. Molto differenti fra loro, Schultze vuole suonare il blues (Michael Schorr, 2003) e Frankie e Johnny (Frederick De Cordova, 1967), hanno ad ogni modo un elemento che li accomuna, esattamente come i film che ho esaminato in precedenza: il Mississippi. Senza la sua presenza, il viaggio, inteso come momento narrativo fondamentale del film, naturalmente, non potrebbe compiersi. Ma proprio come conseguenza a questa semplice affermazione credo si possa individuare in essi l’esistenza di uno specifico sottogenere, in grado di contenere storie nelle quali la strada che i protagonisti percorrono non è composta da asfalto o terra polverosa quindi, e il mezzo di trasporto non è una vettura o una moto. Né un cavallo.

Il percorso si compie su un fiume; a bordo di una barca, una zattera o un battello. Queste pellicole, per il motivo appena spiegato e per i connotati attraenti e simbolici capaci di rivestire l’elemento basico “fiume”, mi piace definirle, river-movie. A questo proposito ho avuto già occasione di parlare del musical di George Sidney (Show Boat, 1952). E di scrivere anche qualche parola sul giovane Huck Finn protagonista del film di Stephen Sommers del 1993. Quando Huck fugge verso il Sud dell’America per cercare la libertà in una terra dove, paradossalmente, essa viene costantemente negata, è il corso d’acqua, da cui si lascia trasportare insieme al suo compagno Jim, il luogo originario in cui la incontra. Perché, come confida egli stesso, “A volte in certi posti ti senti come soffocare. Ma sul fiume mai. Sei sempre caldo, libero e comodo sul fiume”. Forse la pensava così anche Schultze.

Locandina di Schulte vuole suonare il bluesLa prima parte di Schultze vuole suonare il blues è ambientata in Germania, e descrive il paese dell’alta Sassonia dove emergono le piccole e monotone realtà quotidiane di tre amici pensionati. Un giorno, il vecchio protagonista ascolta per caso alla radio un particolare genere di musica (la musica dei Cajuns, il blues contaminato originariamente con le diverse sonorità tradizionali, acadiane e francesi, della Louisiana). Schultze impara velocemente ad amarla e a suonarla con la sua fisarmonica, abbandonando così i vecchi spartiti. E nonostante il rifiuto dei suoi concittadini per quella “musica da negri” (ma che di “negro” ha poco, dato che i Caiuns sono i discendenti degli antichi acadiani, gli abitanti dell’Acadia, la regione poco ospitale della Louisiana dove vennero confinati molti abitanti francesi del Canada nel XVIII secolo), viene scelto per rappresentare il paese a una fiera oltreoceano.

Qui, comincia la seconda e splendida parte del film; il racconto del viaggio di Schultze dal Texas, luogo nel quale incontra una comunità di tedeschi immigrati ancora più conservatori dei suoi conterranei e altrettanto nostalgici delle vecchie polke, alla Louisiana, dove giunge scendendo da solo il Mississippi su una piccola barca. E dove, nel finale, si avvicina al punto d’origine di quella musica.

Ho voluto raccontare questa storia per far capire come un discorso sui generi, o sottogeneri in questo caso, non sia così semplice. Infatti, il viaggio di Schultze è evidente e molto lungo. Tuttavia il punto è questo: soltanto nel momento in cui l’uomo si lascia andare alla deriva con quella barca che recupera per caso, su un piccolo corso d’acqua che poi lo immetterà nel Mississippi (siamo già a metà della pellicola), solo in quel preciso istante ha inizio il viaggio sul fiume. Si può parlare allora di river-movie?

Direi di sì. Perché nel film di Michael Schorr il fiume è una presenza forte e palpabile non solo quando ne diventa l’evidente protagonista, ma anche, in un certo senso, nella sua assenza; quando cioè non lo si vede nelle immagini ma, mi si conceda un piccolo deraglio poetico, lo si sente quasi scorrere con esse. Questo avviene grazie soprattutto a quelle note, così ricche di passato e tradizioni, che giungono come un richiamo radiofonico e spirituale alle orecchie del vecchio pensionato direttamente dalle zone più paludose del Delta. E in seguito, come accennato, sarà il fiume ad assumere un ruolo primario, aiutando a rispondere a quella chiamata da così lontano e infine riconducendo “a casa” Schultze.

Scena di Schulte vuole suonare il blues

C’è qualcosa in questa pellicola che mi fa ricordare un altro indimenticabile personaggio, anziano e stanco, ma anche improvvisamente rinvigorito da una possessione ostinata. David Lynch, in Una storia vera (1999), aveva già tracciato la strada. E anche in quella occasione (quando il protagonista nel finale attraversa il ponte sul fiume), il Mississippi era stato per un attimo spettatore della commovente odissea di un uomo, che aveva una meta da raggiungere, a tutti costi, e con ogni mezzo.

Ma ritorniamo per un attimo a Schultze. Se nel film di Michael Schorr il fiume era una presenza importante anche nella sua mancanza, ora, con la seconda pellicola di cui scriverò, ci troviamo all’estremità opposta. Siamo di fronte a un totale distacco, a una completa privazione: in Frankie e Johnny il Mississippi, la sua musica, la sua gente, tutto ciò esso rappresenta ci sono interamente negati. Eppure, mi si perdoni stavolta l’ostinazione, anche questo prodotto lo annovero personalmente nella lista dei river-movie. Perché racconta a modo suo (fortunatamente criticabile) un viaggio su un fiume.

Certamente ci troviamo a contatto con due casi limite. Ma erano proprio questi confini che mi interessava rilevare in questi brevi “appunti di viaggio”. Johnny è un giocatore d’azzardo squattrinato e talmente scaramantico da credere al consiglio di una zingara: deve cercarsi una ragazza con i cappelli rossi per incominciare a vincere alla roulette. Siamo negli anni Cinquanta, la storia si svolge su un battello che percorre il Mississippi verso sud, in direzione di New Orleans. Si tratta di un casinò navigante per ricchi signori bianchi con annessi spettacoli, ballerine, e scenografie, dove Johnny si esibisce come cantante insieme alla sua partner e fidanzata, Frankie, bionda e molto gelosa.

Locandina di Frankie e JohnnyVentesima apparizione cinematografica di Elvis Presley, il film di Frederick De Cordova è una commedia musicale che ruota attorno al personaggio e alla voce del cantante di Memphis che, sembra, ritenesse pessima la colonna sonora, composta da vecchi motivi jazz (un giorno andò via dallo studio arrabbiatissimo rifiutandosi di cantare). La pellicola prende il nome da una canzone, Frankie And Johnny (canzone popolare registrata in varie versioni nel corso degli anni), interpretata più volte nel piccolo musical allestito sul palco del battello. Spettacolo teatrale che diviene centro del racconto, specchio della vicenda e protagonista del finale, in cui la realtà rischia di confondersi, in maniera tragica, con la finzione.

Tuttavia, chi dovesse guardare l’intero film, corre il pericolo di respirare, in affanno, un’aria incapace di riempire a dovere i polmoni. La pellicola, infatti, è girata interamente a Hollywood negli Studios; anche le scene sulla riva del fiume, o quella per le strade di New Orleans, sono ricostruite e danno una sensazione di inadeguata artificiosità. Il Mississippi, almeno durante le riprese di Frankie e Johnny, non ha mai visto Elvis Presley. E il risultato appare evidente.