Dopo aver ricevuto il premio a Cannes, gli applausi di Toronto e il favore del mercato statunitense, Matteo Garrone è tornato in patria in occasione di una retrospettiva che la Casa del Cinema di Roma ha deciso di dedicare a lui e all’altra grande promessa del cinema italiano, Paolo Sorrentino. Dal 15 al 16 settembre, infatti, nelle sale d’edificio di Villa Borghese, sono state proiettate le opere del giovane regista romano, da Terra di Mezzo a L’Imbalsamatore, da Estate Romana a Primo Amore, fino alla consacrazione dell’ultima sera quando, alla proiezione del suo capolavoro Gomorra ha presenziato lo stesso regista, atteso da una vasta platea di critici e fan.
Matteo Garrone, del quale si è spesso lamentato l’eccessivo silenzio stampa, nell’incontro del 16 settembre ha invece parlato di tutto e, soprattutto, del suo cinema. Ha raccontato il suo rapporto con un’opera e un film come Gomorra, che ha impiegato ben 2 anni a realizzare ma che gli ha dato le più grandi soddisfazioni della sua vita professionale e privata.
Quando Matteo si è imbarcato in questa difficile impresa, dopo il discreto successo di alcune delle sue precedenti pellicole (ricordiamo il meritato David di Donatello che si è aggiudicato la sceneggiatura de L’Imbalsamatore), non aveva ben chiara la grandezza e l’importanza del progetto complessivo. “Gomorra è il film più difficile che ho fatto” ha spiegato Garrone alla platea romana “impegnativo per la complessità del progetto, per le difficoltà che avremmo potuto incontrare nel girare in quei luoghi, ma che poi non ci sono state, e per il libro di Roberto Saviano, su cui avevamo iniziato a lavorare quando ancora non era un bestseller.
Domenico Procacci (produttore del film e fondatore della Fandango, ndr) ne aveva acquistato i diritti quando Saviano non era ancora minacciato di morte dalla Camorra. Con Saviano abbiamo iniziato a lavorare al progetto nel giugno 2006, dandoci appuntamento nel mese di settembre per scrivere la sceneggiatura. A ottobre, quando finalmente abbiamo iniziato, ho visto arrivare Saviano a casa mia con la scorta”.
Come in tutti i suoi film precedenti, ancora una volta Matteo Garrone ha portato sul set il suo metodo di lavoro, “un lavoro artigianale, dove c’è prima una fase di scrittura e poi si fa la sceneggiatura basata sui luoghi, che in qualche modo interrogo assieme alle persone con cui giro e a cui inizio a dare suggerimenti. Poi giro e lì c’è l’ennesima verifica”. Uno stile registico in cui non è solo l’improvvisazione a concentrare tutti gli sforzi del cineasta, ma anche e soprattutto il rapporto con l’attore: “è importante che l’attore segua il percorso drammaturgico del personaggio che sta interpretando, affinché egli lo viva. Solo in questo modo può confermarmi se l’ipotesi della scrittura ha delle stonature o se procede nella direzione giusta”.
Un metodo di lavoro che Toni Servillo inizialmente non condivideva, rivelando le sue incertezze a Garrone in modo casuale e anche un po’ buffo. “Era il primo giorno che lavoravo con Servillo ed eravamo nella cava” si è messo a raccontare a un certo punto Garrone. “Non riuscivo a trovare l’inquadratura giusta e faceva un caldo infernale. Io guardavo lui, lui guardava me. Una dinamica normale tra un attore e un regista che non si conoscono. Ad un certo punto, io stavo distante da lui a cercare l’inquadratura giusta per fare la scena. A duecento metri stava Toni, che parlava con Alfonso Santagata. Loro non lo sapevano, ma sentivo tutto quello che si dicevano perché avevo alle orecchie le cuffie che mi aveva lasciato il fonico. E l’ho sentito dire: ‘Mah, ognuno avrà il suo metodo… Certo Sorrentino quando gira ha le idee chiare e sa sempre dove mettere la macchina da presa’. E io dentro di me mi dicevo: ‘Ma perché l’ho preso?’”. Un aneddoto divertente ma che, alla fine, si è rivelato poco determinante: Toni Servillo ha completamente assorbito il modo di lavorare di Garrone “sempre alla ricerca del momento unico, di qualcosa che accade e che non riaccade più” e che ha portato a un’intensa recitazione tanto nelle scene caratterizzate dalla sua presenza, quanto in quelle di tutto il film in generale.
Non è stato certo facile per Matteo portare sulla pellicola un saggio tanto intenso e grondante di realtà come il libro di Saviano, che racconta diverse storie ambientate nel quartiere napoletano di Scampia e che, da angolazioni diverse, offrono tutte un ritratto violento della Camorra. Una voce corale che ha costretto il regista a una scelta narrativa: rispetto al testo sono state utilizzate solo cinque delle vicende narrate. Tra queste, quella del piccolo Totò, che aiuta la madre a portare la spesa a domicilio nelle case del vicinato e sogna di affiancare i grandi, pieni di soldi e di morti sulla coscienza, e quella di Marco e Ciro, ingenuamente spacconi, temerariamente rivoluzionari, che si ribellano a qualunque regola e finiscono per vagare come pedine impazzite e incontrollabili persino dalla Camorra. Senza rinunciare alla vicenda di Don Ciro, un porta-soldi che finisce in aperto campo di guerra a causa di una rottura imprevista all’interno del clan, così come a quella di Pasquale, che dalla confezione di abiti d’alta moda in una fabbrica in nero decide di guidare i camion della Camorra in giro per l’Italia per tentare di sfuggire al Sistema; fino all’episodio che vede recitare Toni Servillo nei panni di Franco, il datore di lavoro di Roberto all’interno di un campo di smaltimento dei rifiuti tossici.
Naturalmente qualche sacrificio è costato l’adattamento cinematografico del libro di Saviano, tanto dal punto di vista contenutistico quanto da quello stilistico. “Mi spiace non aver girato un episodio al quale ho pensato soltanto quando il film era già nelle sale, come spesso mi accade. Si tratta di quello riferito a don Peppino Diana, il prete ammazzato dalla Camorra al quale Saviano ha dedicato un capitolo del libro. Mi interessava rappresentarlo non dal punto di vista del parroco, una figura interessante ma inflazionata dalle molte fiction, ma dal punto di vista dei killer” ha confessato Garrone, soffermandosi sui particolari di come avrebbe girato una scena simile: “Mi sembrava interessante raccontare la figura di questi camorristi che nel libro di Saviano non hanno alcuna voglia di ammazzare Don Diana. Si davano malati e s’inventavano mille scuse pur di non farlo perché le mogli erano contrarie all’uccisione del prete. Avrei girato la scena guardando Don Diana sempre da lontano, come del resto lo avrebbero visto i suoi assassini. Alla fine avrei messo su la scena tragicomica con i camorristi che affidano l’esecuzione a un epilettico e con il killer che deve accompagnarlo che si rifiuta perché sente puzza di guai. Se avessi inserito questa scena, il film sarebbe durato solo mezz’ora in più.”.
Dal punto di vista stilistico, invece, Garrone ammette che “il libro di Roberto è pieno di immagini, ma manca di drammaturgia. Per alcuni questo è uno svantaggio, per me invece è stato un vantaggio perché ho potuto re-inventare il libro a mio piacimento”. A rendere il racconto particolarmente drammatico è stata senza dubbio anche la scelta, discussa con Procacci, di mantenere un taglio più documentaristico: “ho dialogato con Domenico Procacci sull’opportunità di usare una colonna sonora. Ma avendo girato, soprattutto nella prima parte del film, con uno stile quasi documentaristico, ci siamo accorti che Gomorra non aveva bisogno di un commento musicale”. In questo modo Garrone ha dato allo spettatore la sensazione di essere dentro al film, mentre una colonna sonora di commento lo avrebbe allontanato, o quantomeno avrebbe creato un distacco. “Abbiamo usato un suono che fosse invisibile”, spiega il regista, “di cui lo spettatore non si sarebbe dovuto accorgere”.
Ne è venuta fuori un’opera intensa e di rara qualità, nella quale molti vedono l’inizio di una rinascita del cinema italiano, messa in atto anche grazie alle opere altrettanto lodevole di Sorrentino, che sarà ospite a Roma a metà ottobre. L’aver entusiasmato critica e pubblico non può che inorgoglire Garrone, per il quale Gomorra, come e ancor più delle altre sue precedenti opere cinematografiche, è stata una vera e propria scommessa. “La cosa più sensata” dice “sarebbe stata di fare un decalogo, come Kieslowski, dieci film di un’ora ciascuno, ma non è stato possibile”. A tal proposito si parla già di un adattamento del libro di Saviano per la televisione, che Matteo ha ammesso accoglierebbe con piacere ma senza parteciparvi perché, ha confessato al pubblico della Casa del Cinema, “non tornerei mai sulla scena del delitto”.