Copertina de Odio
Titolo: Odio
Autore: Andrea Borla
Anno di pubblicazione: 2008
Editore: Tespi Editore, Roma
Collana: Narrativa
Pagine: 162
Prezzo: 10,00 Euro
ISBN: 9788896070048

I semi dell’odio sono piccoli e neri, come quelli del papavero. Un occhio poco attento potrebbe scambiarli per minuscoli sassolini o granelli di polvere attaccati gli uni agli altri. Non bisogna tuttavia farsi ingannare dalla loro apparente irrilevanza. In breve tempo si trasformeranno in piante rigogliose e forti, difficili da sradicare e pronte a generare altri semi.

La prima cosa che colpisce leggendo le recensioni di Odio è lo slogan assai accattivante con cui viene definito: un giallo al contrario. E proprio da questo aspetto stilistico voglio iniziare. Il romanzo di Andrea Borla è la storia di un assassino che, in carcere, si racconta allo psicologo. Il lettore quindi, a differenza di quello che solitamente accade nei gialli, sa subito chi ha commesso il delitto, mentre dovrà aspettare la metà del libro per sapere chi è l’ucciso. Questa scelta originale non è la sola che, da un punto di vista stilistico, rende interessante il libro. La struttura narrativa infatti non è lineare. Si alternano capitoli in prima persona, nei quali il protagonista si racconta, a capitoli in terza persona, dove si ipotizzano eventi relativi alla vita dello stesso protagonista. Ed è lui stesso a raccontare i fatti in cui compaiono i suoi amici e conoscenti.

Una forma di meta-narrazione quindi, di racconto nel racconto, caratterizzata da una particolare attenzione stilistico-linguista. La scrittura delle parti in prima persona diverge molto da quella delle parti in terza, proprio come se fossero due autori diversi a scrivere.

Questo espediente narrativo offre l’occasione per uscire dall’analisi prettamente stilistica e guardare ai contenuti. Odio si presenta come un romanzo con molti spunti di riflessione: sul nostro tempo, la nostra società, e la vita di ognuno di noi.

Il protagonista del libro, un trentenne torinese impiegato in un’azienda di software, si ritrova in galera dopo aver commesso un omicidio. Qua inizia a scrivere i suoi “racconti” come esperimento per rielaborare il suo vissuto, per cercare di dare un ordine a quel caos fatto di odio, gelosia e rancori repressi che lo hanno portato ad uccidere. In carcere, seguendo i consigli del compagno di cella ex-professore, inizia a scrivere piccoli racconti nei quali mescola fantasia a realtà e, pian piano, vengono al pettine i nodi della sua anima.

Fotografia di una prigione

Ci si presentano tutta una serie di riflessioni sulla natura e la funzione della scrittura come mezzo per scoprire se stessi, per mettere sotto una lente di ingrandimento la propria coscienza. Scrivere diventa non solo mero esercizio estetizzante e narcisistico, come spesso accade, ma vero è proprio strumento di elaborazione dei tanti “lutti” che ci riempiono la vita. Concetto vecchio come il mondo, si dirà, ma pur sempre affascinante. Più che odio, infatti, il romanzo trasuda dolore. Un dolore profondo che corrode pian piano le esistenze e porta a compiere gesti impensabili. L’autore, però, cerca di spiegare l’accaduto non solo come fosse il frutto di un’esperienza soggettiva, ma come fatto fortemente influenzato dalla società in cui viviamo e dalle sue leggi spietate. A pagina 107 leggiamo: “La società, la medicina, il progresso ci hanno tolto il senso del dolore […] siamo di fronte all’apparente cancellazione di ogni sofferenza e ci illudiamo che abbiamo solo lati positivi […] così ce lo lasciamo alle spalle (il dolore) senza elaborarlo”.

Una società, quindi, totalmente edonistica, dedica al piacere e all’apparenza, ipocrita e meschina che non tollera l’esistenza della sbavatura, della difficoltà, della povertà, del diverso (sia esso l’omosessuale, lo zingaro, l’handicappato). D’altro canto, il romanzo ci pone davanti ad un caso tanto efferato quando comune, banale quasi: un uomo grigio, ordinario, tutto casa e lavoro, senza grilli per la testa che ad un certo punto perde il controllo e uccide.

Nel romanzo, inoltre, si analizza non solo il percorso che porta un uomo ad uccidere, ma soprattutto ciò che ne consegue: la reclusione. Il tempo del narrare coincide con la permanenza del protagonista in carcere e proprio questa struttura coercitiva, la più grande che la nostra società conosca, viene messa sotto la lente d’ingrandimento. La galera, nel sentire comune, viene vista spesso come una giusta punizione da “occhio per occhio”, dimenticando così che là dentro stanno rinchiusi uomini che hanno sbagliato, ma che sono pur sempre persone. Andrea Borla, in modo pacato ma fermo, ci ricorda in queste pagine che il fine ultimo del carcere dovrebbe essere quello di riabilitare i detenuti e prepararli ad una nuova vita “fuori”, non di umiliarli. Il protagonista, come detto, non è un malavitoso, uno cresciuto nella strada, abituato a certi ambienti. È un uomo comune e proprio per questo nota subito alcune sottigliezze che incidono profondamente sulla psiche del recluso. Innanzitutto la sfera sessuale. A tal proposito si leggono parole lapidarie: “Dopo essere stato declassato ad animale in cattività, capisco perché negli zoo è raro che nascano dei piccoli. Credo che vivere in un ambiente ostile che ci costringe a tenere alta la guardia e ad essere sempre pronti a difenderci e a combattere diminuisca drasticamente l’interesse per il sesso”.

Le considerazioni del protagonista risultano molto attuali considerando alcuni provvedimenti legislativi o proposte, tese a rendere più umana la permanenza in cella dei detenuti e ancora in fase di discussione nel nostro paese. Mi riferisco alla possibilità di dare delle opportunità di lavoro esterne al carcere, durante il periodo detentivo, oppure all’eventualità di concedere in cella, di tanto in tanto, momenti di intimità tra i reclusi e i propri partner in visita. Concessioni che, se ascoltate frettolosamente ad un telegiornale, possono far storcere la bocca ai più. Magari si pensa subito ad un sistema penitenziario troppo lassista, eccessivamente garantista, si rimpiangono la palla al piede e il rancio a base di pane e acqua. Basterebbe invece ascoltare il punto di vista di chi sta “dentro” per capire che sono accorgimenti normali in uno stato di diritto.

BorlaContro la noia e l’alienazione della vita nelle carceri, però, non bastano i libri e l’ora d’aria. Ecco che allora il protagonista fa una piccola proposta per niente peregrina: “Se ci fosse permesso tenere degli animali in carcere, le nostre condizioni di vita sarebbero migliori” (pag. 72). In fondo la pet-therapy non è ormai un metodo collaudato per curare tanti disturbi? Perché non usarla per rendere più vivibile il periodo che i carcerati devono trascorrere in cella? Ma forse la situazione italiana è talmente grave che non può prevedere riforme del genere. Se si è costretti a fare l’indulto per ovviare al sovraffollamento, l’ipotesi di aggiungere animali domestici alle già troppe persone presenti appare davvero utopistica.

Il rischio che si corre è quello di disumanizzare l’ambiente, di considerarlo come luogo di punizione e non di recupero, ottenendo tutto il contrario di ciò che il legislatore si è prefisso. Sono sempre le parole di Andrea Borla a illuminarci in proposito: “Se e quando uscirò da qui, porterò ancora addosso il mio pericoloso fardello? Vagherò in mezzo alle persone come un kamikaze che attende soltanto un segnale per farsi saltare in aria creando il maggior numero di vittime? O riuscirò a tenere a bada il mostro nero che si è infilato tra gli anfratti della mia anima?”.

Odio mantiene dunque le prerogative classiche del noir che, sulla base di una storia di fantasia, indaga la realtà e ci stimola a riflettere su problematiche spesso scomode. L’approccio psicologico, e quindi soggettivo, con cui l’autore affronta il tema della gelosia, dell’omicidio e del carcere non tolgono a queste tematiche il loro valore assoluto in cui ogni cittadino-lettore può riconoscersi.