Torno al fango delle strade nel sud, agli indios in lutto ereditati nella conquista, a un continente oscuro che cercava chiarità. Spero che lo splendore di questa sala, illuminando il mio passato, si prolunghi e raggiunga, attraverso terre e mari, il futuro di quei popoli che difendono il diritto alla dignità, alla libertà e alla vita. Sono un rappresentante del tempo, e delle attuali lotte che popolano la mia poesia. Perdonatemi per aver esteso il mio ringraziamento ai dimenticati della terra, ma in questa occasione felice della mia vita li sento più veri di qualsiasi verso, più alti delle mie cordigliere, più ampi degli oceani e dei deserti. Io appartengo con orgoglio alla moltitudine umana, non a pochi individui, e sono qui circondato dalla loro presenza invisibile.
Pablo Neruda, dal discorso tenuto alla consegna del premio Nobel, Stoccolma 10 dicembre 1971.
Il destino di popoli ben lontani dalla routine quotidiana, riesce talvolta a varcare la soglia del nostro distratto interesse. Forse perché smuovono un archetipo, presente nell’inconscio collettivo, che ha a che fare con il valore della cavalleria: valenza da noi relegata alla romantica aura dell’adolescenza o tutt’al più al medioevo. In un mondo proteso a omologare perfino la civilizzazione, quel loro folle tentativo d’aderire alle proprie tradizioni, difese con caparbietà, li fa sembrare più umani di noi uomini idealmente progrediti. Mi riferisco a due etnie che, per motivi e in momenti distinti, hanno interagito con i miei viaggi e le mie esperienze di vita: I Mapuche e i Tuareg.
Probabilmente gli uni non sanno nulla dell’esistenza degli altri, eppure, per molti versi sembrano, se non fratelli, affratellati da orgogli e simili difficoltà. I primi, unico popolo in grado di tener testa, a cavallo, ai conquistadores del Sudamerica; e i secondi, mai sottomessi navigatori del deserto, oggi vengono discriminati proprio dai governanti che vivono nelle loro stesse terre.
Dal Cile continui tam-tam segnalano una ribellione in atto che non ha precedenti: manifestazioni soffocate a bastonate; scioperi della fame nelle carceri; famiglie mapuche incendiate nelle capanne, mentre i documentaristi vengono censurati dal gabinetto della signora Bachelet, che dopo aver nutrito la speranza d’un cambio di rotta, non ha potuto far altro che ammettere, di fronte al paese, l’impossibilità di scostare la politica economica nazionale da quella degli Stati Uniti o delle multinazionali.
Gli uomini della terra sono osteggiati perché si oppongono al disboscamento operato da aziende internazionali del legname, perché le cartiere cambiano corsi e delicati equilibri idrografici, o perché, nella patagonia argentina, le piccole proprietà indigene infastidiscono i latifondi di una famiglia ben più grande: i Benetton. Golia contro Davide, e una cosa simile accade ai guerrieri Tuareg: nomadi in guerra perché gli si nega il transito in un deserto ridotto al confino; che si vedono inquinare le falde acquifere da chi fa soldi con l’uranio, mentre il senato nigeriano avvalla gli interessi energetici cinesi e francesi, capaci d’infilare la museruola al popolo Tuareg e alla libertà di stampa.
Così accade che un armeno gabbato – per un cavillo – della medaglia d’oro nella lotta greco-romana, passi per anti-olimpico se rifiuta quella di bronzo.
Un’opinione pubblica resa sempre più apatica da un’informazione ben lontana dall’etica, rende quei popoli soli nell’orgoglio, assediati dall’indifferenza.