Continua da The road to blues

Bambolina hoodooVoodoo, che significa “spirito”, potrebbe essere definita una religione, un percorso spirituale e si basa sull’equilibrio tra esseri umani e natura: non è, come spesso si crede, un fenomeno legato alla magia nera, quanto piuttosto un profondo corpus di dottrine morali e sociali, dotato di una sua complessa teologia.

Le sue radici si rintracciano nell’Africa antica, era molto diffuso già nel XVI secolo ed è probabile che fosse radicato in Africa da molto tempo prima. Oggi il voodoo è la religione ufficiale in Benin (dove è fortemente organizzato in una Chiesa, alla quale aderisce l’ottanta per cento della popolazione) e ad Haiti, dove è praticato da gran parte degli abitanti assieme alla religione cattolica.

Questo credo rappresentò per gli schiavi africani uno spiraglio di luce nella miseria della schiavitù del nuovo mondo: una fede comune che li fece sentire parte di una cultura valorizzata, nonché elementi attivi di una comunità. Tuttavia, il voodoo dovette affrontare una dura lotta contro l’oppressione esercitata dal Cattolicesimo. Per sopravvivere alle persistenti persecuzioni e proibizioni, la religione vuduista assunse nuove forme e, in particolare, iniziò ad adottare l’iconografia cristiana, mascherando le divinità tradizionali con figure di santi.

Secondo il voodoo, tutto ciò che esiste è parte e manifestazione di un’entità ancestrale, ineffabile ed eterna che, nella tradizione africana, è indicata con nomi quali “Mawu”, “Olorun” o “Gran Met” (dal francese “Grand Maître”, ovvero “Grande Maestro”), e viene anche designata spesso con il nome “Bondyè”, mutuato dal francese “Bon Dieu” (letteralmente “Buon Dio”). La divinità suprema è concepita come creatrice, motore e fonte mistica di tutta l’esistenza, e come essenza che nutre la materia dell’universo.

Tuttavia, il voodoo contempla anche la presenza di una schiera di varie divinità, che designa con il termine specifico di “loa”. Questi spiriti della natura sono le sfaccettature, i vari aspetti, attraverso i quali Dio si manifesta nel mondo. Perché l’uomo, limitato nel comprendere il mistero dell’assoluto, può entrare in contatto con Dio solo passando attraverso il molteplice. Percorrendo, cioè, i tanti tasselli di un unico mosaico divino. In questo senso le liturgie prevedono anche la possessione, fase nella quale una divinità loa penetra nel corpo del celebrante durante l’estasi, interagendo così con i partecipanti al rito.

L’hoodoo, invece, è un insieme di magie. Non è una fede ma una pratica. La parte che aveva a che fare con le guarigioni, le erbe e le pozioni, è rimasta. La spiritualità è andata perduta. Gli africani giunti a New Orleans cominciarono a usare le stesse erbe che usavano gli indiani della zona. Molte di queste crescevano solo nel Sud ed erano considerate magiche proprio perché introvabili altrove. I praticanti dei riti hoodoo erano persone che andavano al Sud, prendevano queste erbe magiche e le portavano al nord o da altre parti, facendole diventare stregonerie.

Joy Brant in una scena del film The Skelton Key

In conclusione, come ci spiega la bellissima attrice di colore Joy Bryant in una scena del film The Skeleton Key (2005): “Il voodoo è una religione. Gli schiavi l’hanno portata dritta dall’Africa. Si crede in Dio, nel paradiso, nell’inferno. L’hoodoo è magia. Magia popolare americana. New Orleans è la patria dell’hoodoo. È innocuo e psicologico: se non ci credi, non ti fa niente”.

Caroline Ellis è una giovane volontaria che assiste i malati terminali. Un giorno accetta di occuparsi a domicilio e a tempo pieno del signor Ben Devereaux, un anziano colpito da un ictus che vive con la moglie in un’isolata residenza della Louisiana, a New Orleans. La ragazza riesce lentamente a conquistare la fiducia della signora Violet e a farsi consegnare la chiave che apre tutte le porte della casa, tranne una. In seguito, quello che Caroline troverà all’interno di quella stanza segreta, la aiuterà a comprendere il perché dell’assenza di specchi nell’abitazione. E soprattutto, i reali motivi che hanno causato la malattia di Ben.

Lo sceneggiatore di The Skeleton Key è Ehren Kruger, lo stesso autore delle due versioni americane di The Ring e The Ring 2, il quale, è riuscito a creare per la pellicola di Iain Softley una storia ricca di fascino, in grado di avvicinare al mondo dell’occulto, e a quella cultura sudista arrivata a New Orleans con gli schiavi. I riferimenti alla magia, in questo senso, sono costanti e decisivi nella trama; inoltre, le continue rievocazioni soul e blues della colonna sonora, conferiscono al film un carattere fortemente musicale. Le atmosfere sommerse e indecifrabili della Louisiana, infine, sono ricostruite dalla fotografia cupa (a volte cupissima) di Daniel Mindel.

Il clima che si respira è pesante, teso fin dalle prime inquadrature. Sono numerosissimi gli indizi che riconducono al soprannaturale e a una ribollente inquietudine sottostante: mentre la pellicola con il passare dei minuti prolunga i suoi momenti di buio, lo spettatore si ritrova a naufragare nel caos di un gioco a incastro che lo sospinge prima verso un percorso di comprensione, poi verso altre possibili ipotesi. Fino all’imprevedibile e sconcertante soluzione. Proprio come accadde, diciotto anni prima, con Angel Heart di Alan Parker.

New York, 1955. Harold Angel è uno scalcinato investigatore privato. Un inquietante personaggio gli commissiona un’indagine molto particolare: scoprire se Johnny Favourite, cantante ricoverato anni prima in ospedale e sofferente di una grave amnesia, sia vivo o morto.
Il film, scritto e diretto da Alan Parker nel 1987, si basa su un racconto di William Hjortsberg; le sfumature cupe e le dinamiche classiche del noir sono i toni scelti dal regista per questa detection-story al limite fra thriller e horror. Mickey Rourke, con le sue cicatrici, l’aria trascurata, la sigaretta sempre accesa, lascia di sé una traccia splendente e maledetta, sorniona e sfatta; impossibile da dimenticare nel film, e nell’immaginario del cinema. Come memorabile è Lisa Bonet nel ruolo di Epiphany Proudfoot.

Lisa Bonet nel ruolo di Epiphany Proudfoot

Da Brooklin ad Harlem, fino a New Orleans, mentre la storia si intasa di mistero, ci si imbatte in inquadrature capaci di evocare grandi suggestioni. Il campo lungo dove Angel si intrattiene a parlare sulla spiaggia ne è un esempio. Una boccata d’ossigeno, in un percorso filmico e narrativo in cui anche il sesso si mescola al sangue. E il montaggio, in alcune sue parti — come durante la ritmata sequenza del sacrificio voodoo —, assume la natura di una frenetica danza, per diventare addirittura traumatico nella scena della stanza d’albergo dove, il tempo, appare fermarsi. E consumarsi in maniera selvaggia e surreale.

Una discesa ripida quindi, in cui si cammina al buio, accompagnati da visioni di morte, reminescenze frammentarie, attenti a dove mettere i piedi, concentrati sulla direzione giusta da seguire. E qua e là si vedono le impronte ossessive di Alan Parker. I suoi ventilatori, il sangue che sporca le pareti, che si sostituisce alla pioggia, che fluisce da e con le immagini. E poi, quei dieci minuti di finale in cui tutto accade così in fretta da sembrare fin troppo precipitoso. Si vorrebbe capire e fare chiarezza, ma succede, invece, che si precipita e basta. Dritti all’inferno.

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