Per essere testimone di un vero cambiamento, osare escludere il cambiamento.
O ancora, preservare troppo facilmente il cambiamento per invitarne uno reale.
Questa finzione che solo il cinema poteva permettergli, Kijû Yoshida, ora, come un’etica di vita, la fa esplodere sullo schermo senza rumore.
Shiguéhiko Hasumi
Kijû Yoshida è uno di quegli autori, formatisi principalmente durante il boom del cinema politico degli anni ’60, che sono rimasti nella penombra di altre, più imponenti figure. Soprattutto in Europa, dove lo si è a lungo considerato un epigone di grandi nostrani come Antonioni, Bergman e Godard, dei quali, in effetti, Yoshida ha ripreso le tematiche, in maniera molto occidentale, ma sapendole reinterpretare attraverso gli occhi della propria cultura e della propria storia. È allora un vero piacere quando grandi istituzioni dedicano delle rassegne ad autori di questo tipo, permettendo al pubblico di riscoprire la vasta filmografia di un regista ancora in vita, e dunque disponibile ad offrire uno sguardo retrospettivo volto al suo stesso operato. È il caso della manifestazione organizzata dal Centre Pompidou di Parigi, che dal 26 marzo al 19 maggio ha riproposto tutti i film dell’autore invitando lo stesso Yoshida a parlarne, con la sua musa, attrice feticcio di quasi tutte le sue opere (oltre che interprete degli ultimi due film di Ozu), l’affascinante Mariko Okada.
Una retrospettiva estremamente sensata quindi, pur nel caso di un personaggio come Yoshida, che ha sempre voluto annullarsi individualmente, proponendosi come un anti-autore, dubitando che ci fosse un “io” capace di affermare “io sono un cineasta”. La poetica autoriale e la sua importanza sono pur sempre molto forti nella filmografia yoshidiana, tematiche ricorrenti e uno stile ben preciso ne fanno un interessantissimo campo d’indagine. D’altronde, dice lui stesso: non facciamo un film perché siamo registi. Non possiamo che farlo, bene o male, che dialogando con questo me che ci abita e che si nasconde in noi in quanto altro da noi.
Ora, di fronte alle opere di Yoshida, non si può non rimarcare come le tematiche affrontate siano proprie a un cinema fortemente contestualizzato a un’epoca, gli anni ’60, periodo della contestazione non solo politica ma soprattutto culturale, dove le logiche tradizionali della narrazione e della forma cinematografica vengono messe in dubbio e destrutturate, e in una voga filosofica e culturale che si può inserire nell’esistenzialismo di Jean-Paul Sartre (Yoshida, d’altronde, si laurea proprio con una tesi su L’essere e il nulla). I temi e le forme, la destrutturazione del tempo e dello spazio oltre che del testo filmico nell’ipotesi di un anti-cinema spesso prospettata, sono dunque frutto di un’influenza reciproca e internazionale. A una visione superficiale datata, conseguenza di un’epoca e delle sue logiche, le pellicole di Yoshida riescono tuttavia ad apparire, a uno sguardo più attento, estremamente contemporanee.
Dal 1960 (in cui esordisce con Buono a nulla, pellicola che riprende persino la sequenza finale di Fino all’ultimo respiro) al 1973 (con Colpo di stato) Yoshida realizza 16 film, passando dallo straordinario Le terme di Akitsu ai noti Eros+Massacro ed Eroica Purgatorio fino all’ultimo Donne allo specchio. Da allora una sorta di vuoto nel campo della finzione: Yoshida si dedica al documentario, riflette sull’estetica della bellezza e sulla settima arte in sé. Con Bellezza della bellezza gira dei documentari tra la Francia, l’Italia e la Spagna su diversi grandi pittori del passato. Con Kijû Yoshida racconta il cinema di Yasujiro Ozu, si occupa di uno degli autori che sono stati, per lui, i più grandi artefici di quell’idea di anti-cinema — inteso come anti-narrazione lineare e anti-montaggio tradizionale — che farà propria. A colmare i buchi nel “silenzio della finzione” alcuni film negli anni ’80 e l’ultimo, nel 2003, Donne allo specchio.
Ci sono dunque due caratteri, apparentemente fondamentali nel cinema di Yoshida: la reinterpretazione orientale di alcuni codici occidentali, che chiamiamo codici anche se erano all’epoca degli anti-codici che si videro poi, naturalmente, codificati, e, in secondo luogo, un fil rouge che unisce la finzione e il documentario, non tanto nella destrutturazione quanto nella messa in scena della sensualità. La sua personale reinterpretazione dell’anti-cinema e l’aspetto sensuale sono due caratteri su cui vale la pena soffermarsi studiando il cinema di Yoshida. È, d’altronde, proprio nel momento in cui queste due figure s’incontrano, che la potenza diremo “politica” della sua opera prorompe oltre lo schermo.
L’anti-cinema
A livello formale, il cinema di Yoshida appare come una sequenza di quadri astratti, estremamente concettuali, ove azioni, gesti e dialoghi sono destrutturati su differenti piani per mettere in luce la finzione a cui sono posti.
Decompone dunque la consonanza degli sguardi: durante i dialoghi, i personaggi semplicemente non si osservano, recitano fissando il vuoto, spesso fuori sincrono mentre le loro voci fuori campo accompagnano altri gesti. I due giovani studenti di Eros + Massacro urlano, mimano scene di film rendendosi coscienti del loro ruolo di simulacri della rappresentazione.
Yoshida frammenta il tempo, inserisce spezzoni decontestualizzati e non lineari durante la narrazione, ibrida storie diverse e opera una vera e propria decostruzione del genere. Nel caso de Le terme di Akitsu — film visivamente magnifico, anche grazie alle riprese a colori (siamo nel 1962) — un melodramma è reso in maniera anti-drammatica. Yoshida opera un vero e proprio anti-pathos.
D’altra parte, le inquadrature impongono una tale struttura plastica all’immagine da sembrare delle gabbie, di senso ma anche istituzionali, in cui si trovano i personaggi. La macchina da presa riprende attraverso finestre o pannelli d’interni giapponesi, usa qualsiasi occasione, persino un ponte o un treno in corsa, per imprigionare i suoi attori in una prospettiva estremamente artificiale che non può non rinviare allo statuto stesso della macchina da presa nell’atto del riprendere. È il caso di Fiamma ardente e, inversamente, di Buono a nulla, dove, tra le citazioni dalla nouvelle vague francese — sia da Godard che da I quattrocento colpi di Truffaut —, Yoshida riempie la narrazione di elissi e di piani sequenza; l’utilizzo della camera a mano, prossima ai personaggi, dà l’impressione di una serie di sequenze slegate e disturbanti.
La volontà evidente di Yoshida, contestualizzata all’epoca di produzione, è quella di rivelare la struttura autoritaria e finzionale del cinema, quella che fa credere allo spettatore di trovarsi di fronte alla realtà quando è la sua rappresentazione a mostrarsi, e questo re-presentare è obliato da una serie di codici ormai istituzionalizzati. Il cinema è menzogna ci dice Yoshida e le strutture di potere reggono questa menzogna restituendocela come verità.
L’anti-cinema politico di Yoshida pare dunque il parallelo del cinema europeo dell’epoca, nei temi e nello stile. Ci sono, però, una serie di reinterpretazioni che lo rendono originale e unico. In particolare nella seconda trilogia, che si rifà alla storia contemporanea del Giappone. In Eros + Massacro ci si riferisce a un anarchico ucciso decenni prima mentre nell’ultimo, Donne allo specchio, si affronta la rappresentazione di ciò che, secondo Yoshida, fino a quel momento non si sarebbe potuto rappresentare, la bomba atomica e il suo influsso nella psicologia dei sopravvissuti.
Ma la reinterpretazione giapponese non passa solo attraverso i contenuti, spesso riferiti al Giappone contemporaneo e alle sue ferite recenti (la guerra o la lotta contro il regime, il boom economico e la scomparsa dei valori). Anche dal punto di vista dell’espressione, la decostruzione dei codici cinematografici operata da Yoshida ha una prospettiva personalissima e spesso riferita alla cultura d’origine. In Eros + Massacro, l’artificiosità dei movimenti e delle azioni sembra chiamare in scena direttamente certe figure del teatro giapponese. Le ombre dietro i pannelli fanno invece da controparte alla proiezione dell’ombra della studentessa sulle diapositive dei morti nel terremoto del 1923.
Ma la vera particolarità di Yoshida, ciò che lo distingue inesorabilmente dalla nouvelle vague del cinema occidentale, è il carattere della sensualità e in particolare il modo in cui questa viene rappresentata sullo schermo.
La sensualità
Nel modo in cui Yoshida ha trattato l’eros c’è qualcosa che va ben oltre la provocazione. La volontà è in primo luogo politica: quella di ribaltare una visione prevalentemente maschile della società che in Giappone fino agli anni ’70 aveva dominato. C’è allora un interesse per la femminilità nel cinema di Yoshida — concretizzata appunto nella figura della sua musa, Mariko Okada — che si mostra nella prospettiva femminile adottata. Diversamente da tanti film che hanno provato a fare della donna il centro tematico della narrazione, con i lavori sviluppati da Yoshida, la donna si fa punto di vista sensibile del film, diventa la nostra prospettiva.
A proposito di Fiamma d’amore, afferma infatti Yoshida: “Normalmente i film con una protagonista donna, adottano sempre e comunque un punto di vista maschile. Nella mia ricerca su ciò che avevo chiamato anti-cinema, in quegli anni, cercavo di invertire la situazione: è la donna e sempre la donna a guardare l’uomo e il pubblico.” Nel momento in cui Yoshida mostra un adulterio, come accade in Fiamma d’amore, non lo fa per fare scandalo ma per invertire lo statuto della donna nel discorso comune. E la donna non guarda solo l’uomo, ma appunto, il pubblico. Sono il pubblico e il suo ruolo politico ad essere chiamati in causa.
In Eros + Massacro, durante l’assassinio dell’anarchico Sakae Osugi, Eiko Sokutai, interpretata da Mariko Okada, osserva la sua morte dal corridoio. È lei ad aver preso in mano il coltello e, dopo, una serie apparentemente infinita di movimenti e scontri, è stata lei a ucciderlo. Dopo il pathos pur volutamente artificioso della scena d’azione, improvvisamente, Yoshida ci mostra con un’oggettiva irreale la donna nel corridoio che osserva la fine di Sakae. Lo fa da una botola posta sul soffitto. In quel momento, la scena dell’assassinio, che era parso una sorta di tragico balletto amoroso, porta in causa lo spettatore. Non possiamo non sentirci posti nella condizione di voyeur di un massacro, come a spiare da un punto nascosto ciò che sta avvenendo. Appena presa coscienza di questa situazione da parte dello spettatore, Eiko Sokutai alza lo sguardo e guarda dritto in macchina. Ci guarda, evidentemente.
In quello sguardo c’è sì un voler dare allo spettatore le sue responsabilità di fronte alla storia, ma c’è, anche e soprattutto, una sorta di complicità. Come se Eiko ammiccasse a un voyeur di cui conosce la presenza.
In quel momento il dispositivo finzionale viene messo in crisi, si svela come dire, ma lascia spazio a qualcosa che lo supera. Yoshida non ha come ultimo fine la messa in luce della menzogna del cinema. Abolire, oltrepassare e renderci coscienti del nostro ruolo di spettatori non è che un mezzo per mettere in moto il mezzo cinema in una costante negoziazione con lo spettatore. Il massacro e l’eros escono dallo schermo ed entrano nella sala, si fanno ancora più potenti, proprio perché coscienti della barriera finzionale/enunciazionale che ci separa dalla diegesi.
Ancora più evidente e straordinaria è una nota scena di Fiamma ardente. Oriko segue due amici sulla spiaggia e li osserva entrare in una casetta abbandonata. Entra senza farsi vedere e li spia da una finestra su una stanza da letto. Le inquadrature fisse lasciano spazio a una macchina da presa a mano, che non segue il movimento dei corpi sul letto ma pare accompagnarli, farsi complice dello sguardo voyeuristico di Oriko mentre li osserva (e li invidia): la macchina da presa spia. E improvvisamente ogni suono sparisce, nel silenzio più assoluto seguiamo la vista di Oriko su una scena di estrema sensualità, dove le barriere finzionali vengono ancora una volta abbattute per dare allo spettatore il suo ruolo, quello di spia, cosciente della propria presenza disturbante, in un qualcosa che non gli appartiene. E la sequenza avviene nel silenzio, un silenzio interiore, una sorta di bolla rispetto ai suoni del mondo esterno.
Il silenzio
Perché dunque quel silenzio assordante nel cinema di Yoshida? Il trattamento del suono, oltre che del tempo e dello spazio, subisce una destrutturazione che provoca una fascinazione diretta. Mancano, per cominciare, nelle opere di Yoshida, i suoni d’ambiente. Il doppiaggio degli attori pare venire d’altrove mentre solo certi, pochi rumori si sentono, spesso amplificati: il suono di una macchina da scrivere, di un auto di passaggio, della risacca del mare. Immersi in un mondo concettuale e astratto, i personaggi di Eros + Massacro sembrano pertinentizzare alcuni caratteri sonori dell’ambiente per neutralizzarne altri. E quei pochi suoni evidenziati vengono distorti e assumono un’importanza tale da farsi quasi disturbanti. La potenza di una delle sequenza più sensuali del cinema yoshidiano, quella di Fiamma ardente descritta sopra, si basa sulla bolla di suono in cui ci costringe a entrare, come intontiti di fronte a qualcosa che nel visivo ha la sua preminenza. In Eros + Massacro, d’altronde, i due giovani ragazzi che si rincorrono e giocano raccontandosi la storia dell’assassinio di Sakae Osugi urlano, gridano come per rompere quel muro di silenzio, d’incomunicabilità della contemporaneità, diremmo, che Yoshida vuole esprimere.
I giovani contestatori vogliono spaccare il patto funzionale, uscire dalla menzogna istituzionalizzata e osservare il modo in cui la società, nel corso della storia, ha imposto, attraverso le sue sovrastrutture, abitudini e modi di vita, dandone per scontata la validità. Alcuni e solo alcuni suoni sono importanti, come a mostrare l’importanza sempre relativa del punto di vista. Ecco dunque che è proprio nel modo in cui Yoshida tratta l’eros che la potenza politica del suo cinema si mostra.
È un muro di silenzio nei confronti della storia istituzionalizzata che Yoshida, attraverso la sua opera sorprendentemente bella e sensuale, vuole abbattere.