Dopo aver visto i film di Miki Satoshi presentati quest’anno al FEFF di Udine — In The Pool, Deathfix: Die and Let Live e Adrift in Tokyo — è senz’altro quest’ultimo il nostro ‘colpo di fulmine’.
La felice intuizione di Satoshi, autentica scoperta del festival udinese, è quella di raccontare un argomento considerato universalmente un tabù come l’uxoricidio, attraverso la storia di un’improbabile amicizia tra due caratteri apparentemente agli antipodi. Adrift in Tokyo narra di Takemura, uno studente di legge fuori corso che, in cambio di un milione di yen, accetta di seguire il suo esattore Fukuhura dal quartiere di Kichijoji fino al centro di Tokyo, dove l’uomo intende costituirsi per l’omicidio della moglie. Fortemente influenzata dallo stile e dalle atmosfere del cinema indipendente americano degli anni ‘60, la pellicola si sviluppa come una fiaba on the road sullo sfondo di una Tokyo dall’atmosfera sognante e surreale. Una galleria di bizzarri personaggi popolano la storia e confermano il talento visionario del regista, capace di passare dai toni esilaranti delle commedie demenziali d’esordio alle atmosfere più riflessive e disincantate del cinema occidentale.
Domanda (D): Da quali autori si sente maggiormente influenzato nella sua idea di comicità?
Miki Satoshi (MS): (Concentratissimo, nda) Potrebbero essere sia il regista finlandese Aki Kaurismaki ma anche i fratelli Coen, Robert Altman… e poi ci sono altri registi giapponesi, Yuzo Kawashima e Teruo Ishii — mi pare che i suoi film siano stati presentati proprio qui a Udine… -ma oltre a quelli nominati ce ne sono anche tanti altri.
D: Da dove trae ispirazione per le sue storie?
MS: Prima di tutto leggo il romanzo e cerco di seguirne sempre il plot principale, così è stato anche con Adrift in Tokyo, la storia di un marito che, dopo aver ucciso la moglie, si consegna alla polizia. La prima fase è quindi leggere il romanzo originale, e poi, nella seconda fase, vado a trovare quello che aveva scritto il romanzo e… gli chiedo scusa! (ride, nda).
Scherzo, in realtà cerco di spiegargli che, pur prendendo dalla sua storia, sicuramente non sarà come quello che aveva scritto: in questo senso è come scusarsi. Per esempio, lo scrittore di Adrift in Tokyo mi ha detto che darmi il suo libro era per lui come darmi in sposa sua figlia, e si è raccomandato di trattare il romanzo come una sposa, senza maltrattarla!
D: Nei suoi film hanno lavorato due star del cinema giapponese come gli attori Matsuo Suzuki e Joe Odagiri, come si è trovato con loro?
MS: Con questi due personaggi lavoro molto bene perché hanno un senso dell’umorismo che apprezzo molto. Di solito voglio che gli attori recitino come viene indicato sulla sceneggiatura. Infatti, prima di girare facciamo sempre una prova dove voglio che recitino proprio così come sta scritto sulla carta. Poi, se nascono alcune idee da parte degli attori, ben venga, ma in linea di massima cerco di fare in modo che rispettino sempre la sceneggiatura, ci sono poche improvvisazioni. Dopo aver provato, iniziamo a girare. In pratica lavoro bene con gli attori che possono rispettare questo mio semplice ‘metodo’ e con loro è stato proprio così, mi sono trovato benissimo.
D: Perché nelle sue storie i personaggi femminili appaiono così restii al cambiamento?
MS: Non saprei come rispondere perché non ci ho mai pensato da questo punto di vista! In Giappone dicono che i protagonisti dei miei film sono sempre strani… Ma forse la sua impressione potrebbe derivare dal fatto che io voglio comunque mettere nel ruolo principale un personaggio strano e un po’ assurdo. E quindi per fare capire che si tratta di un personaggio strano devo mettergli accanto anche qualcuno di cosiddetto ‘normale’, così il contrasto è più evidente.
Sarah Gherbitz (SG): Lei ha iniziato come autore di show televisivi, com’è avvenuto il passaggio alla regia?
MS: La prima sceneggiatura l’avevo scritta nel ’96 e poi l’ho portata a diverse aziende cinematografiche. Nessuna, però, ha accettato e ho lasciato perdere. Poi, dal 2000, in Giappone, è arrivata la moda del digitale e tante persone hanno incominciato a girare con questa tecnologia. In questo nuovo modo è diventato più facile girare e, poi, ovviamente, tante persone hanno cominciato a pensare anche all’aspetto commerciale della faccenda… È nata quindi anche una grande richiesta di sceneggiatori, la nuova generazione di cineasti aveva bisogno di storie per girare i propri film, di qualsiasi storia, bastava girare… Così hanno finalmente preso la sceneggiatura che avevo scritto, anche se purtroppo il produttore di questo mio primo film venne arrestato per una truffa e, quindi, In the Pool è uscito con ben quattro anni di ritardo.
In ogni caso, il periodo dal 2000 in poi è stato un periodo confusionale nel cinema giapponese: proprio grazie alle evoluzioni della tecnica e all’abbassamento dei costi, tante persone hanno pensato di iniziare a fare cinema, e quindi poteva succedere che chiedessero anche a un autore televisivo com’ero io di cimentarsi. Ho lavorato molto anche in teatro, ma m’interessava il cinema perché c’erano alcune cose che non riuscivo ad esprimere a teatro, sentivo urgere il bisogno di fare le riprese. Riprendendo, infatti, si possono raccontare non solo delle storie di fiction ma si può riprendere anche la realtà, come nei documentari, e poi mescolarle insieme, la fiction e non fiction possono coesistere dentro un unico film. Forse anche questo è stato reso più facile grazie alla nuova tecnologia digitale. In ogni caso, il passaggio dalla televisione al cinema è stato naturale, il cinema già m’interessava e c’erano tante storie e fenomeni che volevo riprendere.
SG: Quindi è cambiato anche il sistema produttivo? È più facile girare dei film in questo senso?
MS: Be’, parlando del budget dei miei film è meglio dirlo subito: il budget non c’è! (risate, nda). Scherzi a parte, devo trovarmi sempre un produttore molto comprensivo perché fare film con me porta un sacco di problemi e tanta fatica… Quindi, come prima cosa, devo sempre trovare un produttore che si lascia facilmente ‘imbrogliare’, nel senso che lo cerco, faccio pubblicità al progetto che intendo realizzare, cerco di raccontarglielo rendendolo interessante e poi, se vedo che questo possibile produttore inizia ad essere interessato, gli dico “Interessante, vero? Dài, dài, dài, facciamolo”, e così lo coinvolgo nel progetto! (tornando serio, nda) Però poi, di solito, loro si accorgono che hanno fatto un grande sbaglio perché lavorare con me è davvero faticoso. È molto difficile, quindi, che lo stesso produttore faccia con me più di due film. Questo perché comunque tendo a fare quello che voglio io, nei film metto i miei desideri senza occuparmi troppo del lato commerciale: ed è proprio qui che emerge il conflitto…
SG: Qual è il suo genere preferito?
MS: Mi piacciono per esempio David Lynch e Jonathan Demme. Forse mi piacciono più i film con un po’ di suspence ma, se capita, guardo anche i vecchi film della nouvelle vague, non mi limito alla commedia, guardo un po’ di tutto. Ad esempio, è strano che in Giappone Aki Kaurismaki non sia conosciuto come regista di commedie ma più per le sue storie tragiche… Forse l’unico genere che non guardo è proprio il grande hit hollywoodiano, quello proprio non m’interessa. Anche sforzandomi di ricordare gli ultimi titoli che sono usciti in sala e hanno incassato, non me ne viene in mente neanche uno, proprio non sono informato… Forse Adrift in Tokyo risente dell’influenza dal New American Cinema, da film come Easy Rider e Two Lane Blacktop, questo è il genere che mi piace.
Molto spesso i film giapponesi hanno un epilogo lungo, nel senso che la fine della storia è molto lunga. Con Adrift in Tokyo, invece, volevo fare un film che finisce ad un tratto, improvvisamente, quasi fosse tagliato, e questa penso sia una delle caratteristiche del New American Cinema, quella di finire tutto ad un tratto, così non ci si trascina dietro per troppo tempo la fine del film.