Un fiume, una prateria, un deserto non costituiscono solo dei possibili sfondi alla narrazione cinematografica, bensì possono divenire anch’essi protagonisti. Attraverso il breve excursus che segue, l’intento è di esplorare i vari stili cinematografici e i periodi nei quali il paesaggio è stato considerato un possibile interlocutore capace di trasmettere emozioni al pubblico, per porre infine l’attenzione su un film — Non è un paese per vecchi dei fratelli Coen — che ci ha recentemente riportato ad un concreto esempio di paesaggio metaforico.
Storiografia del paesaggio cinematografico
Fin dai suoi esordi il cinema ha manifestato le sue due tendenze più significative. I padri fondatori del cinema avevano due visioni diverse di intendere la cinematografia: Mèliès è il promotore di un “cinema del trucco”, del mondo inventato dentro gli spazi chiusi; mentre Lumière predilige la vita colta sul fatto, una fotografia animata della realtà nella quale lo sfondo paesaggistico assume un ruolo fondamentale. Lumière privilegia la veduta d’insieme e l’unità dei suoi film è data dai flussi di movimento. È il corpo in movimento che deborda ai limiti del quadro e suscita, quindi, forti sensazioni sul pubblico dei primi anni del cinema, non ancora abituato alle immagini in movimento. È un dato reale che durante la prima rappresentazione del film dei Lumière L’arrivèe d’un train à la Ciotat molti spettatori, spaventati, abbiano abbandonato al sala di proiezione a causa del forte impatto emotivo dato dall’immagine dinamica.
È proprio quest’ultimo filone di cinema, quello della spettacolarità della scena affidata unicamente all’ambientazione filmica, l’oggetto di quest’analisi. Come ha provato emozioni di fronte all’arrivo del treno dei Lumière, così il pubblico dei primi del ‘900 si è affascinato di fronte agli immensi spazi mostrati da Intollerance di Griffith. Il film ha una struttura narrativa innovativa, articolata in quattro episodi ( la caduta di Babilonia, alcuni momenti del vangelo, il massacro degli Ugonotti e una storia contemporanea di conflitti sociali). Soprattutto l’episodio Babilonese mostra scene di una grandiosità spettacolare capace di stupire e meravigliare lo spettatore.
Il paesaggio, dunque, nei primi anni in cui gli attori vengono strappati dal teatro e di conseguenza sono meno abituati ai grandi spazi aperti, funge da “habitat rassicurante”. Presa poi coscienza delle potenzialità del nuovo mezzo, il paesaggio inizia a venir considerato il “palcoscenico” dell’azione.
La capacità di dare potenzialità espressiva all’immagine cinematografica viene indagata negli anni ’20 anche dall’espressionismo tedesco. Il cinema espressionista è segnato da una ricerca forte sulla configurazione dell’immagine e di conseguenza sulla scenografia che le inquadrature possono esaltare. Gli spazi sono “paesaggi impregnati d’anima”, anche la scena cioè viene deformata per trasmettere l’angoscia, il dolore e l’ossessione dei personaggi. Lang, un fervido autore espressionista, costruisce un’immagine-idea fondata sulla riduzione dello spazio a strutture rigorose. In “Metropolis” del ’27, la città assume la forma di un reticolo di strade di difficile comprensione, trasmettendo così allo spettatore il senso di smarrimento dell’uomo agli albori del secolo.
L’elogio del cinema al paesaggio è compiuto, però, soltanto negli anni ’40 con il genere americano western. Un genere che si fa portatore della rappresentazione mitica dei territori dell’Ovest e, quindi, della nascita della nazione americana con la progressiva affermazione della civiltà sulla natura, vista come la condizione selvaggia dei pellerossa. Il paesaggio, nel genere, è sì sfondo dell’azione, ma è altresì il luogo dove si riflettono i sentimenti umani. Il grande regista americano John Ford fa della Monument Valley lo scenario prediletto dei suoi western. Ombre rosse, il suo capolavoro del ’39, narra il viaggio di una diligenza attraverso il deserto. Il “deserto” rappresenta la condizione selvaggia, la non civilizzazione. Il viaggio della carovana nel deserto simboleggia l’avanzare della civiltà sulla barbarie indiana ( le ombre rosse).
Un altro stereotipo del genere e del film esaminato è la contrapposizione fra bene e male. I personaggi si dividono fra buoni e cattivi ma il film mostra anche personaggi apparentemente rispettabili, come il banchiere Gatewood, che si dimostrano, invece, profondamente immorali; mentre il protagonista del film, Ringo, pur essendo un fuorilegge, è portatore dei valori di lealtà e giustizia. Una scena del film ce lo mostra in piano americano provenire dalla wilderness della natura e, quindi, metaforicamente dalla barbarie; poi uno zoom lo inquadra delineando la rappresentazione mitica dell’eroe. Un eroe che proviene dalla stessa “natura” additata come il male e l’inciviltà.
La scelta di un’ambientazione reale è parte essenziale anche del cinema italiano neorealista, affermatosi alla fine della seconda guerra mondiale. La sua spinta propulsiva è determinata da tre film quali Roma città aperta di Roberto Rossellini, Ladri di biciclette di Vittorio De Sica e La terra trema di Luchino Visconti. È un cinema che mette in scena le “possibilità spettacolari che la realtà porta naturalmente con sé”. Lo spettatore coglie la verosimiglianza della materia rappresentata. I film neorealisti riproducono la quotidianità della vita, le sue “stasi” e l’ importanza delle piccole cose. L’ambientazione semplice ma comunque capace di trasmettere emozioni è una caratteristica preponderante del genere. Vi sono numerosi film emblemi di questo nuovo modo di concepire l’arte cinematografica.
Ne La terra trema di Visconti, la storia ha luogo ad Acitrezza, patria dei Malavoglia, nei suoi ambienti reali e nella dimensione quotidiana. Le case, le strade, le barche del film diventano attori al pari degli abitanti del paesino.
Paisà di De Sica riproduce realisticamente la risalita della penisola italiana effettuata dagli angloamericani per liberarla dall’occupazione tedesca, nel ’45, al termine della seconda guerra mondiale. Il film è ambientato in sei differenti luoghi della penisola italiana: protagoniste sono le coste siciliane quanto la foce del Po.
Riso amaro di Giuseppe De Santis, altro capolavoro neorealista, ha sullo sfondo l’ambientazione realistica delle risaie sulla quale si intersecano le intricate vicende dei personaggi.
La volontà del filone neorealista è di far coincidere l’occhio dello spettatore con la macchina da presa. Egli coglie così ogni piccolo dettaglio della narrazione ma anche paesaggistico.
L’esempio maggiormente lampante della tecnica neorealista è senza dubbio Ladri di biciclette: ambientato nei quartieri poveri e assolati di Valmelaina e costituito da una trama praticamente ridotta all’osso.
Proseguendo nella storia del cinema italiano, negli anni ‘60 si sviluppa un genere definito “spaghetti western”, ossia una riproposizione del genere americano in chiave parodistica e spesso venato dalla violenza anarchica e ribellistica del Sessantotto italiano. Maestro del genere è il regista Sergio Leone, che realizza veri e propri capolavori del genere: Per qualche dollaro in più, C’era una volta il West e, a distanza di 13 anni, C’era una volta in America; soprattutto l’ultimo film delinea una nuova retorica del genere fatta di grandi spazi, movimenti sinuosi della cinepresa, montatura epico-ironica e ritmi lenti.
Negli stessi anni, Michelangelo Antonioni attua una vera e propria “critica dello sguardo”. La macchina da presa non segue più l’azione narrata ma si disperde nello sfondo, nel paesaggio; si guarda intorno senza una precisa meta proprio come lo sguardo umano. L’esperienza dello sguardo, anche sul paesaggio, diviene in questo modo protagonista del film. In una scena di “Professione reporter”, di Antonioni, la “camera impassibile” relega nel fuoricampo la morte del protagonista Locke, che avviene in una stanza d’albergo, per inquadrare con un lento movimento il paesaggio vuoto e polveroso al di là della finestra.
Il paesaggio metaforico in Non è un paese per vecchi
Il genere western resta comunque l’emblema del paesaggio promulgatore di sensazioni e sentimenti. Il cinema dei fratelli Coen è noto per prendere come punti di partenza i codici dei generi cinematografici classici per poi costruire altri ingranaggi ed altre idee sulle quali far riflettere lo spettatore. L’impianto hollywoodiano nei film dei Coen viene decostruito e al suo posto viene collocato un nuovo modo di concepire e rendere attuale il patrimonio culturale americano.
Nel film Non è un paese per vecchi, i Coen sfruttano l’apparato generico del film western (campi lunghi, importanza dello sfondo, sinuosità della macchina da presa) per depistare poi lo spettatore, innescando in lui un meccanismo confusionale. Il film è un western dell’epoca contemporanea, non dell’epoca mitologica del Far West. Le qualità formali del film sono innumerevoli: la fotografia combina la dominante cromatica calda col chiaroscuro, le inquadrature orizzontali disperdono i personaggi nel paesaggio, la musica resta sullo sfondo come altri banali rumori e, soprattutto, dominano le riprese dal basso verso l’alto e la profondità di campo.
Il tema del film è la perdita dei valori di lealtà e giustizia e l’imperante sopraggiungere di violenza e avidità; è proprio quest’ultima a spingere un cacciatore texano, Llewelyn Moss, ad impadronirsi di una valigetta contenente 2 milioni di dollari. Ma la situazione nella quale si è messo sembra più grande di lui e, dopo aver commesso una serie di errori, si trova alle costole un efferato killer.
La struttura del film mostra un prologo lungo, una parte centrale che “si dilunga sui duelli dei personaggi in albergo” e una fine che in realtà non rappresenta la conclusione di niente. La storia appare una spirale infinita che costringe lo spettatore a focalizzarsi sul tempo che passa e che lascia una devastazione dietro a sé che non può trovare una spiegazione; spiegazione non hanno le vittime del killer, non sappiamo da dove arrivino esattamente i soldi rubati, e non abbiamo informazioni utili sui personaggi. Di fronte alla desolazione morale non si può dare una spiegazione ma solo tentare di sopravvivere.
Ambientato al confine messicano, il film, mostra il declino di un’America in cui “non c’è più posto per i vecchi”; un’America in cui i vecchi valori stanno tramontando per far posto alla violenza. I valori antichi sono impersonati dallo sceriffo Bill (Tommy Lee Jones), ancora legato al mondo in cui “gli sceriffi non portavano neanche la pistola” e “le persone si rivolgevano le une alle altre chiamandosi signore e signora”. Egli è l’unico che comprende che la sola cosa da fare è osservare, guardare il degrado e non agire; è l’unico che ha la consapevolezza di questo “nuovo mondo”.
Tratto dal romanzo di Cormac McCarthy, la storia narra il tramonto del West, alla fine degli anni ’80. Il romanzo ha un doppio registro stilistico, costituito da capitoli “oggettivi” e capitoli “soggettivi”. Nel film l’unica connessione ai capitoli soggettivi del romanzo è la voce fuori campo dello sceriffo che esprime la sua rassegnata preoccupazione per il generale degrado che nota attorno a sé. I Coen, naturalmente, non hanno potuto trasferire tutti i temi del romanzo nel film (come, ad esempio, la crisi provocata dalla guerra del Vietnam, che non appare nella rappresentazione filmica) e, anche se vi ritroviamo le regole costitutive del racconto, queste conducono lo spettatore a false certezze, a false speranze, a restare senza precisi punti di riferimento. Il lavoro suono-immagine crea spaesamento e incertezza: i suoni si riducono al minimo e la presenza di musiche è flebile. Anzi, proprio l’assenza di musica ci costringe a stare in ascolto e a cogliere ogni più insignificante rumore, come i richiami animali, i passi del killer dietro la porta o addirittura il vento che fischia nel microfono di Moss e che rende ancor più spoglio il paesaggio intorno a lui.
Il degrado morale sopraggiunto è espresso, appunto, nella desolazione del paesaggio, immortalato nella sua immobilità, quasi ad indicare l’impossibilità di mutare ciò che ci circonda. Emblematici a questo proposito sono i primi 20 minuti del film, nei quali lo sguardo si perde a contemplare l’aridità del paesaggio assolato circostante con ritmi degni di Sergio Leone. Il paesaggio assume, quindi, in questo film, un ruolo metaforico. L’immagine recupera la sua forza evocativa grazie alle riprese dall’alto e alle visioni filtrate da serrature, finestrini, pertugi. Paesaggio metaforico tanto quanto lo è lo sguardo del co-protagonista, il killer Chigurh ( Barden), perso nel vuoto e assente, distaccato da una realtà che neanche lui sembra conoscere, nella quale si fa strada seminando morti insensate. Lo sguardo nel film ha un ruolo fondamentale. I personaggi che si salvano e non vengono uccisi, dalla violenza del killer o dalla violenza in generale, sono coloro che invece di agire si accontentano di guardare, come appunto lo sceriffo. I tempi lunghi rallentano la narrazione ma permettono allo spettatore di immergersi nello sfondo, nell’ambientazione naturale; come nella scena in cui Llewelyn Moss incontra la strage di uomini in mezzo al deserto e poi una regia lenta lo accompagna alla scoperta della valigetta mostrandoci con grande maestria lo sfondo filmico.
In un’intervista rivolta a Javier Bardem, il giornalista chiede all’attore: “Il paesaggio che fa da sfondo alla storia, così vasto e desolato pare l’emblema del vuoto interiore del suo personaggio. Le è stato d’aiuto?”. L’attore ha risposto: “ Mi ha fatto sentire molto solo, questo sì, mi muovevo una volta alla settimana per uccidere un po’ di gente ed avevo sei giorni liberi davanti a me in quella landa desolata. Ho cercato di interiorizzare quella solitudine, o meglio isolamento, ed è stato difficilissimo perché è una dimensione a me sconosciuta”.
La solitudine, l’aridità morale di una società e il vuoto interiore del protagonista; il tutto immerso nei fotogrammi del paesaggio texano. In effetti, i Coen non sbagliano, quando, restii a elargire interviste sui propri film, affermano che “tutto ciò che c’è da dire lo esprimono le immagini e non serve aggiungere altro”. Basta osservare e il paesaggio ci offre già la chiave di lettura del mondo.