I festival e le rassegne cinematografiche sono luoghi di incontri. Come avrebbero detto in Grand Hotel: “gente che va, gente che viene”. Quest’anno il popolo dei festivalieri ha ripreso a frequentare la kermesse di Pordenone, spostata temporaneamente a Sacile a causa del rifacimento dello storico Teatro Verdi.
Ma all’appello, per quanti hanno un po’ di dimestichezza con chi al cinema ha consacrato la propria vita, mancava un signore che tanto aveva dato alla decima musa. Il suo nome era Piero Tortolina. A chi non ha avuto la fortuna di conoscerlo basta dire che Tortolina era, anche e soprattutto, un collezionista di pellicole. Uno che ha salvato dalla distruzione opere che hanno alimentato la programmazione dei cineclub di tutta Italia. E ora che quella stagione si è ridimensionata, le sue pellicole sono diventate patrimonio della cineteca di Bologna. Tortolina comunicava cinema in modo informale ma entusiastico. Ognuno, ovviamente, conserva il ricordo dei propri incontri, e i nostri si sono protratti per alcuni lustri. Il suo viaggio si è concluso alle soglie degli ottant’anni, ma la sua grande eredità culturale ha contagiato generazioni di critici. Ci mancherà la sua memoria storica, il suo humour caustico e il piacere di una conversazione sempre stimolante.
Pordenone, si diceva, quest’anno ha ritrovato l’abbraccio dei pellegrini cinofili che da 26 anni hanno come meta imprescindibile Le Giornate Del Cinema Muto. Il programma, aperto e concluso con due opere celebri di grande suggestione, come sempre, è stato ricco e sofisticato. Per l’inaugurazione è stato proposto di David W. Griffith Le due orfanelle (1921), che il grande genio americano aveva tratto dall’omonimo romanzo francese di Adolphe D’Ennery e Eugene Cormon, ma con la significativa modifica di aver sposato l’azione ai tempi della rivoluzione francese. Vi si narrano le disavventure delle orfanelle Henriette e Louise, adottate dalla perfida Madame Frochard e destinate ad essere separate. La prima, infatti, viene rapita da un aristocratico vizioso, l’altra finisce nelle mani di un mendicante che costringe al marciapiede per chiedere l’elemosina. Le sorelle si ricongiungono ma finiscono per essere travolte dai moti insurrezionali. Quando il loro destino di ghigliottinate sembra segnato, lo stesso Danton, con un’estenuante cavalcata, le salva all’ultimo minuto dal patibolo. Il film, costato un ingente capitale a causa della meticolosa ricostruzione della Parigi di fine ‘700, non riuscì a rifarsi delle spese di produzione. Ma venne apprezzato dalla critica e si fa ricordare soprattutto per l’avvincente finale nel classico stile griffithiano e per la presenza delle celebri sorelle Lilian e Dorothy Gish. Va ricordato che, nel 1942, Carmine Gallone diresse un remake con protagoniste Alida Valli e Maria Denis.
La conclusione delle giornate è toccata invece a Lulù (1929), di Georg Wilhelm Pabst, con la mitica Louise Brooks. Questo personaggio della letteratura tedesca trova nel dramma dello scrittore Frank Wedekind una personificazione molto intensa e, per l’epoca, piuttosto audace, tanto da procurare al suo autore qualche guaio con l’autorità giudiziaria. Lulù, ex fioraia, decide di provare ad esibirsi nel cabaret. La ragazza intrattiene una relazione con il ricco ed attempato Schoen, che però vorrebbe lasciarla per sposare la figlia del ministro degli interni. Lulù con il suo fascino e una notevole astuzia, fa naufragare i propositi matrimoniali dell’uomo che viene sorpreso dalla rivale in atteggiamenti inequivocabili. Il risultato è la rottura del fidanzamento e il matrimonio tra Lulù e l’anziano. Ma già alla festa che segue le nozze, la cabarettista civetta con Alwa, figlio dello sposo. Ne consegue un violento litigio, tanto che Lulù finisce per uccidere il consorte. La tappa successiva è una fuga per mezza Europa assieme ad Alwa e a due poco raccomandabili compagni di viaggio. La conclusione a Londra è tragica. La donna, che si vende per strada, viene trafitta dal coltello di Jack lo Squartatore. L’opera trova nell’americana Louise Brooks un’interprete raffinata e sensuale. Un critico arrivò a paragonarla ad una danza tra l’amore e la morte. Anche in questo caso la storia ispirò un remake italiano del 1953 realizzato da Fernando Cerchio e interpretato da Valentina Cortese. Sia il film d’apertura che quello di chiusura sono stati accompagnati dall’esecuzione dei musicisti dell’Orchestra sinfonica del Friuli Venezia Giulia, diretta rispettivamente da Timothy Brock e Paul Lewis.
Le giornate hanno voluto omaggiare un artista famoso ma controverso come René Clair, con la presentazione dei suoi film muti. L’anno scorso era stato proposto Prix de Beauté (1930) che Clair aveva scritto assieme a Pabst, ma che era stato diretto da Augusto Genina. L’esordio di Clair avvenne con Paris qui dort (1924), una commedia fantascientifica di poco più di un’ora dove si ipotizza che, in seguito ad un incantesimo, tutti gli abitanti di Parigi siano immobilizzati. A questo incredibile destino sfuggono solo i viaggiatori di un aereo da poco arrivato da Marsiglia. Curiosamente, nel 1971, il registra volle ridurlo a metà della sua durata, ma la copia vista a Pordenone ricostruisce la versione originale. A seguire c’è stato il celeberrimo Entr’acte (1924), scritto da Francis Picabia per un suo balletto, e da Erik Satie, autore anche delle musiche. Si tratta di una sarabanda di invenzioni visive sviluppate in un’ottica surrealista. Celebri sequenze sono una partita di scacchi non conclusa, un prestigiatore che esce da una barba e soprattutto un funerale con dromedario, dove il corteo rincorre il carro funebre. A quest’opera si lega il successivo Un chapeau de paille d’Italie (1927), liberamente ispirato alla commedia di Eugene Labiche e Marc Michel. La storia si sviluppa su due piani: da una parte c’è un cappello di paglia che spinto dal vento nessuno riesce a raggiungere; dall’altra un matrimonio non facile da portare a compimento. In mezzo c’è lo sguardo ironico e beffardo sulla volubilità e l’inconsistenza della società parigina. L’ultimo lungometraggio muto di Clair è Le deux timides (1928), film meno noto dei precedenti, tratto nuovamente da una piece di Labiche, che ci descrive due individui assolutamente timidi: un giovane e maldestro avvocato e un maturo e agiato proprietario terriero. Il primo vorrebbe sposare la figlia del secondo che, però, è già stata promessa a un altro. Dopo una serie di complicazioni, finalmente, i due coroneranno il loro sogno d’amore.
La rassegna friulana ha poi voluto affrontare un’altra pagina di cinema muto poco indagata e sconosciuta. Sotto la denominazione de “L’altra Weimar”, si è gettato uno sguardo su un periodo prolifico e variegato al di là dei classici e rinomati Caligari, Metropolis, Nosferatu e Wachesfiguren. Ecco allora emergere autori più o meno dimenticati come il viennese Karl Grüne, che negli anni ’20 esercitò un certo influsso sul cinema tedesco e si distinse per un uso sofisticato e dinamico della macchina da presa. Oppure Harry Piel da Düsseldorf che, con una sterminata produzione di oltre 100 film, per lo più d’avventura e polizieschi, si è guadagnato l’appellativo di “regista dinamite”. E ancora Gerhard Lamprecht, personaggio poliedrico che nel corso di una lunghissima carriera, debuttò a diciassette anni come soggettista e poco prima di morire, a 77 anni, compilò un fondamentale catalogo del cinema muto in ben dieci volumi. Da ricordare una sua trasposizione de I Buddenbrock, del 1923. Altro autore che ebbe un momento di notorietà nel 1925 con Varieté fu Edvard André Dupont. Grazie a quel successo, il regista fu invitato a Hollywood ma il fiasco di Love me and the world is mine lo fece rientrare in Europa. A lui si deve anche Atlantic (1929), sulla tragedia del Titanic, girato in doppia versione inglese e tedesca, quest’ultima pubblicizzata come la prima pellicola tedesca interamente sonorizzata. Accomunato dallo stesso destino, Joe May nel 1934 tentò l’avventura americana con scarsi risultati. È giusto tuttavia ricordare che, nel decennio precedente, il suo nome era secondo, per fama e considerazione, solo a Lubitsch. Notevole nel 1921 fu l’accoglienza alle due parti de Il sepolcro indiano.
A Pordenone, complice una piccola ma deliziosa mostra allestita al Teatro Verdi, si è familiarizzato con un autore come Ladislav Starewitch (1882-1965) che, in virtù dei suoi tanti interessi, si è dedicato al disegno, alla pittura, all’entomologia e, in relazione al periodo muto (1910-1928), alle opere realizzate con il passo uno dell’animazione. Dalla natia Russia, dove ha debuttato con opere tradizionali, si è trasferito nel 1920 in Francia specializzandosi nella costruzione di pupazzi articolati, la cui visione, nonostante il tanto tempo trascorso, rimane sempre affascinante.
A settant’anni dalla fondazione del Nederlands Filmsmuseum, da segnalare anche l’omaggio ad Annie Bos (1886-1975), stella del muto olandese. E l’undicesima e penultima parte del progetto Griffith, che ha mostrato le opere dal 1921 al 1924. Una di quelle imprese che solo una direzione seria e lungimirante è in grado di mettere in cantiere e portare a termine con rigore filologico.