Segue da Dall’action painting alla body art (I)

I corpi nella Body Art

Body ArtL’arte irrompe nel reale e diviene visibile attraverso lo “scandalo”, spesso scandali che hanno a che fare con la moralità, con la sessualità, con le norme e con l’intelletto. Sdegno che è provocato da un corpo esposto crea irritazione, disagio e reazione. Scandaloso era il Cristo fatto uomo, rappresentato con la sua fisicità di corpo umano, sporco, torturato e giustiziato, di Caravaggio.

Un corpo afflitto anche da quella “luce caravaggesca”, che sembrava riportare Cristo al suo destino di uomo tormentato. Il corpo ha attraversato secoli e secoli d’arte, è stato indagato, svelato, mostrato, è stato ferito, sezionato, torturato e crocefisso: un corpo presentato come una tensione al limite.

In questo capitolo prenderò in esame le diverse tipologie di rappresentazione del corpo, promuovendo una riflessione teorica sull’uso di questo nell’arte. Si potranno, così, osservare le numerose analogie e affinità tra le esperienze degli artisti contemporanei e l’iconografia occidentale più tradizionale. Similitudini che evidenziano un percorso, quello dell’arte, senza soluzioni di continuità, solo in apparenza contrassegnato da buche ( interruzioni) e cambi di direzione.

Il corpo, che gli artisti scelgono di rappresentare, è caricato di nuovi e diversi valori simbolici, che richiedono una ricerca e un’osservazione particolare. Mi servirò, per questo proposito, della riflessione che Antonin Artaud fece sul corpo.

Lo scrittore, regista e attore francese, per cui il compito del teatro sarebbe quello di scuotere e sconvolgere lo spettatore, considerava il corpo sotto tre principali modalità: il corpo di dolore, il corpo della scimmia/uomo e il corpo glorioso. Il primo rappresenta un corpo che è, per il potere, la sede privilegiata su cui far transitare bisogni e desideri, attitudini da controllare e reprimere. Sesso, malattia, desideri, oppressioni, dolore, nevrosi, costrizioni: il potere agisce sui corpi lasciandovi i suoi segni, marchi, supplizi, divieti e trasgressioni. Per potere bisogna, innanzi tutto, intendere non quello che emana da un soggetto cosciente, sovrano; si tratta, invece, di un potere impersonale, onnipresente, che non risiede in un centro privilegiato ben definito, per esempio nello Stato e nei suoi apparati, ma opera attraverso meccanismi anonimi in tutti gli angoli della società. Un potere, questo, che Foucalt considerava come un’insieme di “rapporti di forza”.

L’artista, allora, sceglie il corpo, un corpo usurpato, abusato, mostrato, tagliato, ferito, un corpo come perdita di sé, il corpo di Artaud e dell’atto di crudeltà, che si ribella e che lotta: il corpo riprodotto è definito da Francesca Alfano Miglietti come corpo scelto, designato per mettere in mostra i segni della coercizione del potere. Il corpo dell’artista riproduce un disagio collettivo.

Body Art

Il corpo scimmia/uomo, com’è stato designato da Artaud, fa riferimento ai corpi docili. Il corpo suppliziato, squartato, amputato e simbolicamente marchiato dalla cultura vigente scompare in favore di un corpo rieducato. La cultura, intesa come produzione di saperi, disciplina in profondità i corpi, intervenendo in essi attraverso veri e propri rapporti di forza, inserendoli in una catalogazione di genere, che assomiglia di più ad una ghettizzazione. Il corpo è assoggettato: sottomissione che non è ottenuta con i soli strumenti della violenza e dell’ideologia, ma può essere calcolata, organizzata, indirizzata tecnicamente, può essere sottile, non fare uso né di armi né del terrore, e tuttavia rimanere di ordine fisico. L’artista non sceglie più il corpo come simbolo di una coercizione, inscrivendo sulla carne le sue nevrosi e le sue angosce, bensì un corpo cosciente della propria sottomissione e che vuole mettere in mostra un’identità, che è stata determinata dalle reti delle proprie appartenenze territoriali, culturali, religiose, ideologiche, familiari, di genere e sessuali: il corpo, in questo caso, è veicolo di un malessere individuale.

La terza e ultima modalità concepita da Artaud è quella del corpo glorioso o corpo estraneo: un corpo che si libera dai propri organi, ritenuti inutili e dannosi, ripulito per una nuova esistenza. Il corpo è da sempre considerato, da un lato, come la somma delle sue parti anatomiche e organiche, dall’altro come pura soggettività, come luogo della trascendenza del soggetto. La tecnologia, prodotto umano per eccellenza, ha da sempre moltiplicato ed esteso quelle che sono le facoltà umane. Oggi, però, questo cammino parallelo è divenuto così intimo, che il tecnologico e il biologico, come categorie, si stanno intersecando e completando vicendevolmente. Si assiste ad una sorta di riscrittura degli elementi corporei. Questa convergenza d’intenti, di visioni e di sperimentazioni propone il corpo come una superficie d’incrocio di molteplici codici d’informazione, da quello genetico a quelli informatici: un corpo ibrido. Questi nuovi strumenti formano il terreno su cui s’innesta tutta una nuova visione della vita, delle relazioni sociali, dell’identità e del sentire.

Procederò in un’indagine e in un’analisi sulle poetiche di alcuni artisti, assunti come rappresentativi per meglio inquadrare questi tre tipi di corpo, concepiti da Artaud.

Corpo dolore o corpo scelto

La materia dell’arte non può essere più la riproduzione delle forme, ma deve captare delle forze. La necessità è quella di renderle visibili, malgrado non lo siano. Una forza che intrattiene un legame simbiotico con le sensazioni e che, insieme, colpiscono e agiscono direttamente sul sistema nervoso dello spettatore. Tenendo ben a mente questa concezione, acquisiscono una nuova e più intensa luce molte opere d’arte del passato: l’iconografia del dolore e dell’accanimento sul corpo, attraversano la storia dell’arte occidentale.

Cristo incoronato di spine di Beato Angelico Il Cristo incoronato di spine di Beato Angelico è il ritratto di un dolore fisico che è amplificato dal rosso, che caratterizza quest’opera: sono rosse che sgorgano dalla fronte di Cristo, gli occhi sono iniettati di rosso, la bocca è rossa, il vestito ed alcuni segmenti dell’aureola sono entrambi rossi. L’espressione di Cristo sembra rivelare malinconia e, traspare dagli occhi una sorta d’inadeguatezza al ruolo di martire. Il primissimo piano, inoltre, rafforza l’impressione, che l’uomo che ci sta di fronte, più che il figlio di Dio sia il figlio dell’uomo. Il viso spicca nel buio dello sfondo e la luce del quadro nasce e si propaga dagli occhi e dal viso tormentato di Cristo. Il corpo del Cristo di Beato Angelico è un corpo ferito. In questo corpo umano torturato e tormentato risiede quella forza che fa trasalire lo spettatore.

Durante gli anni Sessanta del diciannovesimo secolo, periodo storico importante per le contestazioni sociali, che avevano come fine quello di rovesciare le strutture convenzionali, pubbliche e private, individuali e collettive, gli artisti abbracciano le poetiche del dolore e della crudeltà, metodi che, da sempre, il potere ha usato per imporsi e per lasciare le proprie tracce sugli esseri umani. S’inizia a discutere la precarietà dell’esistenza in relazione alle regole della società e a rendere visibili gli effetti della coercizione. Alcuni artisti, allora, scelgono il corpo come “luogo” di sperimentazione e, di solito, il corpo usato è il proprio. Trasferiscono su di esso le tensioni fino a renderle visibili, dando a queste uno spessore fisico: angoscia, repressione, violenza, follia, paura, malattia, panico, diventano materie d’indagine artistica. Gli artisti scelgono di demolire le convenzioni che regolano i rapporti sociali, iniziando ad infrangere il tabù che vuole separati e divisi il pubblico e il privato. Mettono in mostra frammenti della sfera del proprio privato, espongono gli effetti personali e iniziano a pensare alle tracce della propria vita come materiali da mostrare, da mettere in discussione, da utilizzare come documento di testimonianza. Sono, quindi, la repressione, la censura, la mancanza di libertà, i veri protagonisti di queste azioni: anche in questo caso l’arte non è e non deve essere intesa come mimesis della realtà, ma come espressione di forza e sentimenti.

Il primo movimento che mette in scena la violenza invisibile subita quotidianamente, la repressione che agisce attraverso i tabù, mediante performance che pretendono un pubblico, è il Wiener Aktionismus (azioniamo viennese). Questo non fu un vero e proprio gruppo, in quanto non venne mai elaborato un manifesto e neppure una poetica unitaria: si tratta, bensì, dell’incontro di artisti che rappresentano nelle loro opere l’angosciosa complessità di una vita ormai compromessa da un mal di vivere esistenziale.

Gli artisti che prendono parte all’Azionismo viennese, sono Rudolf Schwarzkogler, Hermann Nitsch, Gunter Brus, Otto Muehl e Arnulf Rainer, che, praticando forme d’autoagressione, hanno scelto di abitare nello scandalo permanente. Essi applicano l’inversione dei ruoli, identificandosi con gli aggressori. Attraverso l’esposizione di un corpo irregolare e malato, gli azionisti provocano lo spettatore, che, nel corso delle performance, è assalito da un senso di disorientamento, di turbamento, d’aggressione.

Body art

In questo modo egli prende atto dello sfruttamento, della sofferenza, dell’annientamento del singolo e concentra l’attenzione su un appiattimento e un annichilimento collettivo che si fa norma, quotidianità. I massacri delle guerre, lo scempio dilagante viene ricordato ad un pubblico senza memoria, “rifiutandogli così l’illusione della follia sedata”[1]. E si sceglie la ferita come rottura di un equilibrio. Gli azionisti viennesi incarnano i limiti massimi delle esperienze corporali, realizzando azioni con una marcata tensione verso la crudeltà, una crudeltà inflitta fisicamente su se stessi e psicologicamente verso il pubblico presente.

Nella Terza lettera, datata 1932, a A.J.P. Antonin Artaud spiega cosa lui intende per crudeltà. Definizione che sarà fatta propria dagli artisti dell’Azionismo viennese e che rappresenta una chiave di lettura indispensabile per comprenderne la poetica.

“…non si tratta affatto di crudeltà come vizio, di crudeltà come proliferazione di appetiti perversi espressi in gesti sanguinosi, come escrescenze malate su una carne già infetta; ma al contrario di un sentimento di distacco e puro, di un autentico movimento dello spirito, ricalcato sul gesto stesso della vita;…ma è il rigore, la vita che supera ogni limite e si mette alla prova nella tortura e nel calpestamento di tutte le cose, è questo sentimento puro e implacabile ciò che io chiamo crudeltà”[2]

Il protagonista dell’Azionismo viennese è un essere umano prigioniero del proprio corpo, un corpo disumanizzato dalle violenze esterne. Le azioni, scandalose ed irritanti, mettono in scena i tabù più nascosti e segreti, coinvolgendo il pubblico in una dimensione visiva, mentale e corporale insopportabile: quello degli azionisti è un corpo costretto a mortificarsi, umiliarsi, lacerarsi, automutilarsi per togliersi definitivamente di dosso la pelle di borghese per bene.

Gunter Brus nell’intervista che ho realizzato nel 2006, alla domanda su quale sia il suo pensiero in proposito dei tabù, risponde così: “ Noi abbiamo combattuto (gli artisti dell’Azionismo), in gran parte vanamente, nel tentativo di distruggere questi tabù, ma la lotta spesso non fa altro che alimentare le paure d’infrangere qualunque tabù. Per esempio, gli assorbenti intimi, nelle pubblicità, vengono sempre macchiati con una sostanza blu e non rossa. Non voglio obbligare a tingere gli assorbenti di rosso, ma voglio solo prendere atto, che si sfrutta sempre la possibilità di attutire i toni: aggirare il problema, le questioni scomode.”[3]

La moglie Anna, nel medesimo colloquio, alle parole del marito Gunter aggiunge: “Si cerca sempre di renderli più appetibili (le questioni delicate). Ogni uomo ha una certa vergogna per quello che lo riguarda in quanto corpo. Per questo ci si sofferma sull’anima, che è libera, senza corpo (senza materia) e prima o poi volerà da qualche parte. La gente ha paura del proprio corpo, perché al suo interno ci sono cose che non ci piacciono…ci incutono timore.”[4]
Dopo questa breve introduzione sul corpo dolore e il Wiener Aktionismus procederò nell’analisi degli artisti Rudolf Schwarzkogler e Andrés Serrano.

Rudolf Schwarzkogler è nato a Vienna nel 1940, dove è morto, suicida, nel 1969, dopo una grava crisi depressiva provocata da una drastica dieta dimagrante. Sulla sua vita e sulla sua morte si sono avute varie versioni, molte delle quali lo vogliono suicida durante una sua azione, la più tragica afferma che la sua morte sia avvenuta in conseguenza ad una performance in cui si toglie la pelle in pubblico lembo a lembo. L’artista realizza un inscindibile rapporto tra arte e vita, in cui il dolore, l’angoscia, il senso d’impotenza costituiscono la dimensione drammatica e “asfissiante” delle sue opere.

Rudolf SchwarzkoglerNelle sue opere s’infligge ferite e mutilazioni e, spesso fotografato ricoperto di garze, realizza istallazioni fortemente simboliche indirizzate ad una società muta e sorda nei confronti dell’individuo. Nell’Azione n. 3, le fotografie lo ritraggono in posizione fetale, steso su quello che sembrerebbe un tavolo anatomico, bendato quasi interamente dalla testa ai piedi. La sua posizione pere essere quella bloccata della morta violenta, di chi ha subito una morte violenta e tormentata, in ambienti anonimi. L’illuminazione suggerisce un’atmosfera asettica, clinica e sterile, come quella della camera operatoria, nella quale appare un corpo generico. Luoghi clinici e sterili fanno da sfondo alle riprese fisse di un corpo martoriato e ferito, le bende che lo avvolgono ci riportano immediatamente ai ritratti canonici della sofferenza, degli incidenti, degli ospedali, del disagio psichico e fisico, della disperazione anonima di un’esistenza agonizzante.

L’uomo che soffre si trasforma in un corpo bendato privo d’identità sociale. Il volto dell’individuo è scomparso, rimane, per l’appunto, un corpo generico, bendato e impedito nei movimenti in una realtà di punizione: Schwarzkogler mette in evidenza tutta la solitudine e l’alienazione dell’individuo all’interno della società, un’autosegregazione, un travestimento crudele che costringe gli spettatori a sintomi di repulsione e malessere di fronte ad un reietto, un fuoriuscito dalla società. La rappresentazione del dolore, della ferita provoca quasi sempre reazioni di rifiuto, di disgusto, di paura, che spesso determina il bisogno di stabilire una distanza con il soggetto dell’opera. Questo corpo, quindi, appare, agli occhi dello spettatore, come una minaccia, come la dimostrazione della precarietà del nostro stesso corpo.

Un lavoro fortemente politico quello di Schwarzkogler, ma allo stesso tempo fortemente poetico e lirico: il corpo delle sue opere è, da un certo punto di vista, un corpo vivo, di carne e di sangue, corpo della vergogna, dei tabù, della paura e della violenza. Il corpo diventa supporto, si fa significante e significato, diventa il mezzo extra- linguistico che più caratterizza l’arte degli anni Sessanta. Si sente la necessità di mettersi in gioco in prima persona. L’esposizione del sé, del proprio corpo, dell’intimità delle proprie paure e dei propri desideri, suscita contemporaneamente lo shock e meraviglia, sorpresa. Schwarzkogler, come gli altri dell’Azionismo viennese e artisti, quali Gina Pane, Franco B, scelgono di esplorare le zone del collasso attraverso il proprio sangue e la propria carne.

All’interno di queste esplorazioni del corpo e delle sue capacità espressive nella veste di mezzo simbolico, la morte appare all’orizzonte. La morte entra nell’arte attraverso i volti e i corpi dei santi, degli eroi, dei guerrieri, dei principi, dei re: di figure che sono comunque sentite come lontane dall’uomo comune, quindi dalla realtà e della quotidianità. Inizia, così, il lungo processo d’abolizione della morte, della sua separazione dalla vita.

Jean Baudrillard affermava: “Noi abbiamo desocializzato la morte trasferendola alle leggi bio-antropologiche, accordandole l’immunità della scienza, automatizzandola come fatalità individuale”[5]. La morte, allora, è il nostro fantasma, che ci accompagna durante tutta la vita, e dalla nostra società è giustificata in nome della vita eterna per le religioni e rappresenta, per la scienza il fondamento.

La morte diviene, perciò, morte epica, singolare, esemplare, “diviene morte del corpo immortale ”[6], diviene evento: la morte e la rinascita di Cristo. Ma la società e la civiltà dell’immagine non sopportano il sangue, la malattia, la vecchiaia e, così come nasconde i malati e i vecchi, allo stesso modo opera una sistematica sparizione della morte, che è nominata e guardata solo nelle immagini legate all’omicidio, o in generale alle catastrofi. Se ne deduce che l’unica morte accettata è quella che sopraggiunge a causa di un incidente: e la morte naturale? Nella nostra cultura la morte è razionalmente omessa dalla nostra vita. L’unico momento in cui ammettiamo il suo inevitabile sopraggiungere, è appunto quello del decesso improvviso. La società del Ventesimo secolo non prevede e non accetta perdite, non tollera vuoti e trasforma il vuoto e il silenzio della morte in un fallimento: morte che è diventata una brutale sorpresa. Tutto ciò che riguarda questa è respinto come se fosse osceno, insopportabile e, soprattutto, ingiusto. La morte, così, ha smesso di essere simbolizzata ed è diventata la prova dl fallimento scientifico. La società si trova quindi di fronte ad un fallimento e non di fronte ad una fatalità e perciò struttura l’occultamento e suggestiona la coscienza collettiva al sentimento della vergogna, in risposta alla morte e alla sua immagine. Del resto come affermò Baudrillard “Al giorno d’oggi non è normale essere morti. Essere morto è un’anomalia, una devianza”.

I lavori di Andrés Serrano rivelano un corpo senza nessuna mediazione, nessuna simbologia: è ancora la carne, il sangue, la pelle, un’anatomia cruda e, allo stesso tempo, sensuale. Queste opere fotografiche riprendono la morte, la violenza, il sesso, la povertà, la disperazione, il suicidio. The Morgue sono una serie di lavori del 1992, in cui sono rappresentati dei dettagli in primissimo piano di cadaveri ripresi in un obitorio: corpi ridotti ad involucro, a superficie, a carne.

Le immagini, che riprendono particolari di cadaveri già stati sottoposti all’autopsia, rappresentano corpi parziali, come un piede, un occhio, una bocca.

The Morgue Rat poison Suicide II

Non c’è nessun riferimento all’ambiente circostante: l’obitorio non viene mai mostrato, i fondi sono neutri, i cadaveri sono veri, tanto veri da apparirci come falsi pittorici e così la scoperta della morte è ancora più tremenda. Le opere riportano come titoli le diverse cause dei decessi: per esempio Rat poison Suicide II (veleno per topi suicido II), Gun Murder (ucciso per colpo di pistola). Non viene messo in scena nessun ruolo sociale, nessun nome, nessun codice di riferimento, ma una vita e un frammento di storia personale che affiora dalla causa della morte. L’operariprende l’iconografia classica: fondo nero e una luce omogenea. La morte è rappresentata senza filtri e senza scampo: una morte non più come rinascita ma come annientamento.

Di fronte a quest’opera, come a tutte le altre della serie, lo spettatore è obbligato ad un confronto con il cadavere, ad una vicinanza con l’ignobile salma. Il sentimento che affiora è ambiguo e controverso. L’immagine ritrae il reale, ma di primo acchito lo spettatore si persuade che si tratti di una finzione, un artificio. In un secondo momento si accorge con imbarazzo della macabra verità dell’opera e alla sua iniziale curiosità si fa largo con vigore lo sdegno e la repulsione. Nessuna pietà del lutto, nessuna consolazione nel racconto dell’esistenza sul corpo esposto. Così, privati del senso della loro esistenza, ignorando completamente la loro vita e conoscendo la natura della loro morte, questi corpi sono solo cadaveri, la cui visione per molti è insopportabile. Riducendo la morte a dettagli neutri, impersonali, Serrano spoglia i cadaveri della loro identità, rimane solo la carne, la pelle, i peli, le vene: pelle sulla quale iniziano ad affiorare i primi segni dell’inevitabile decomposizione, devastata dalla malattia, squartata dall’autopsia e rattoppata approssimativamente.

Le opere della serie The Morgue di Andrés Serrano si pongono come un’evidenza e una presenza scomoda, rimossa. Con l’immagine dei cadaveri, dei particolari in grande scala, l’artista tende a risvegliare quella coscienza ormai addomesticata e apatica, che ha interiorizzato la repulsione per la morte. Questo, come quello di Schwarzkogler, rappresenta un corpo scelto, esposto per marcare una presa di distanza da una società conservatrice, di colui che mette in discussione i tabù. Immagini che s’interrogano sullo statuto della morte, infrangendo il tabù della sua indicibilità.

Corpo scimmia/uomo

Il corpo scimmia/uomo, secondo l’affermazione di Artaud, è il secondo tipo di rappresentazione del corpo nella Body Art. Il corpo esibito è quello di un artista che ha preso coscienza del ruolo impostogli dalla società: lo straniero, l’esule, il folle, il criminale, l’omosessuale… Il corpo è inquadrato, ghettizzato e rieducato in modo che non possa nuocere alla salute pubblica. L’esperienza estrema del corpo sceglie un agire che diviene dichiarazione d’esistenza: attraverso il contatto diretto si mette in discussione il proprio sé e il mondo in cui si vive. Proposito, questo, che dovrebbe salvarci da quelle dittatura del “Si” (man in tedesco) di Heidegger, che pervada ogni giorno le nostre esistenze, i nostri corpi, omologandoci e uniformando i nostri desideri e i nostri saperi. Si istigano menti e bisogni verso l’inutile, il superfluo e l’inconsistente: l’orizzonte è quello patinato dei nuovi stili di vita e la promessa di nuove oasi di riserve protette del lusso. Gli effetti collaterali di un’omologazione non riuscita è la reclusione e la ghettizzazione e, come in un circolo vizioso, sono messi in atto dei meccanismi d’ansia, di panico, di paura e d’inadeguatezza, che amplificano le difficoltà del vivere. L’artista decide di esporre un corpo incerto, ambiguo, un corpo di confine: sceglie di esprimere la follia, quella che Foucalt definiva la “verità denudata”, vista come una trasgressione, una minaccia per un quieto vivere, che sembra sempre più un quieto riposare. Con le avanguardie dei primi del Novecento, ci si trova di fronte alla visualizzazione di una crisi identitaria, di una realtà verso la quale l’individuo sente di non appartenere, di esserne estraneo.

Con L’espressionismo tedesco inizia ad emergere un tipo di corpo che non teme di manifestarsi in tutta la sua alterità: è un corpo su cui si addensano e s’inscrivono i significati del discorso sociale, di ciò che siamo come organismo culturale e di come sono imposti i codici e le norme della società. In Edvard Munch le figure umane sono mostruose. Quest’uomo “disumanizzato” non è semplicemente cosciente di essere privato della libertà, ma è soprattutto cosciente della propria sottomissione forzata, di essere imbrigliato in un sottile e macabro gioco psicologico, per cui una libera espressione è giudicata come un sintomo patologico di pazzia, che deve essere controllata.

Il Grido di MunchI corpi di Munch sono in bilico tra una figurazione definita e certa ed una che si apre verso nuove dimensioni, che coinvolgono lo spazio circostante. Nell’opera che più caratterizza l’identità artistica dell’artista norvegese, il Grido, l’ambiente esterno si espande da un corpo deforme e si fa fosco e delirante. Munch fa saltare, sconvolgendoli, i confini tra interno ed esterno: i corpi si aprono e si materializzano pensieri e universi mentali, e l’esterno sembra sciogliersi, liquefarsi: l’interiore si catapulta fuori dal proprio corpo.

Per secoli il volto visibile della trasgressione è stato la follia. Il corpo del folle diventa coscienza che inquieta, perché rivela il non-senso del mondo. La cultura occidentale ha tentato e tenta di educare l’individuo a proiettare fuori dal corpo, i propri sogni, i propri desideri e, perché no la propria vita, in quanto il corpo è avvertito come una tomba per i vivi, un fardello. Quello che è, però, indigesto e minaccioso per la collettività è la proiezione fuori dal corpo di un dolore e di una nevrosi, che mira a smantellare le fondamenta della società. Molti artisti del secondo dopo guerra concepiscono l’arte come brutale scoperta della verità sotto la finzione. Per esempio Francis Bacon rappresenta dei corpi deformati: la figura sembra disfarsi sotto gli occhi sgomenti dello spettatore.

Bacon attua una sistematica degradazione dell’immagine, sceglie una dimensione gestuale deviata, percepita come ribellione verso un atteggiamento troppo razionale: sceglie una rappresentazione disturbata e aggressiva, che mostra un corpo lentamente ma sistematicamente ridotto allo stato di scimmia e ad un progressivo annichilimento. Bacon mostra una civiltà che soffre d’esaurimento nervoso, che ha accettato la propria condizione d’impotenza, che ha trasformato le sensazioni in ferite dolorose e senza alcuna speranza di guarigione. Ciò che viene dipinto sulla tela è il corpo, non in quanto rappresentato come oggetto, bensì in quanto vissuto come affetto da una particolare sensazione, che per sua natura agisce direttamente sul sistema nervoso. Bacon non cerca di riabilitare il corpo, le sue immagini alimentano gli aspetti regressivi e psicotici della società: è un corpo impermeabile al desiderio di cambiamento, è un corpo angosciato, passivo. Questo corpo rientra nella definizione di corpo scimmia/uomo, in quanto rappresenta un corpo profanato per essere infine uniformato. È prigioniero di un sistema sociale che lo piega allontanandolo sempre più da qualsiasi tipo di rapporto umano.

Essere stranieri, rifugiati, folli, peccatori, non è semplicemente un fatto di nazionalità, o di patologia, ma essere altro, è intuire il lato alieno della realtà, è costruire un altro mondo. Inizia, così un processo di ridefinizione dell’essere umano divenuto ormai straniero.

Per Marina Abramovic, artista d’origine balcaniche, tutto il suo lavoro è incentrato sull’idea di attraversamento dei confini, sia in senso fisico, che metaforico. Il suo è un modo di fare arte sull’orlo dello smarrimento, un modo di mettere in evidenza le caratteristiche e le tensioni dell’”Altro” dentro di sé, sulla propria pelle.
Sin dalle performance degli anni Settanta le azioni di Marina Abramovic si svolgono in tempo reale e in uno spazio condiviso con il pubblico, anche se ha spesso utilizzato le tecnologie digitali per le realizzazioni di parte dell’evento. Storia, religione, guerra, ricordi affettivi, relazioni amorose divengono per Marina Abramovic elementi di una comunicazione diretta, forte, altra. Coinvolge lo spettatore in una relazione empatica in cui si attivano tutti i sensi e in cui non è possibile rimanerne estranei e distaccati: l’artista genera uno scambio d’energie con lo spettatore. Si attiva una sorta d’alchimia, in cui le energie individuali, quelle dell’artista e quelle del pubblico, combinandosi subiscono una trasformazione, tale da rendere possibile un superamento dei limiti, sia fisici, che mentali.

Nella performance Rhytm 0 del 1974, Marina Abramovic rimase in piedi vicino ad un tavolo offrendosi senza reagire agli spettatori, che potevano fare qualsiasi cosa al suo corpo, utilizzando un’ampia gamma di oggetti. Sulla parete una scritta esortava il pubblico ad usare a propria discrezione gli oggetti sul tavolo sul corpo dell’artista. Tra questi c’erano una sega, un’accetta, una forchetta, un pettine, una frusta, una pistola, un proiettile. Alla fine della performance i visitatori le avevano tagliato i vestiti spogliandola completamente: era stata dipinta, ferita, lavata, decorata, coronata di spine e le era stata puntata la pistola carica alla tempia. Dopo sei ore gli spettatori, turbati, interruppero la performance.

Body artBalcan Baroque del 1997, presentata alla Biennale di Venezia nello stesso anno, era una performance creata in segno di lutto per la guerra dei Balcani. L’artista, legata personalmente a quei luoghi, mise in scena un metaforico rito di passaggio attraverso cui liberarsi del dolore per i propri conflitti interiori e per la tragedia della guerra, di più ampio respiro ma sempre intensamente personale. Marina Abramovic sedeva al centro dell’istallazione su un cumulo di 1500 ossa di manzo, che ripulì e raschio una ad una sei ore al giorno per cinque giorni, cantando incessantemente strofe di canzoni popolari che ricordava dall’infanzia. Marina Abramovic valicò i confini del proprio corpo congiungendosi metaforicamente con le vittime delle innumerevoli stragi compiute durante la guerra nell’ex Jugoslavia, ripulendo le ossa, che simbolicamente erano di corpi ammassati nelle fosse comuni. L’artista descrisse la performance come un momento profondamente traumatico. Lo spettatore, che assistette ad un evento pieno di forza, in quanto a drammaticità e pathos, era coinvolto emotivamente dall’atto, in un esercizio d’empatia, che lo estraniava da sé a tal punto da sentire e condividere le paure e il dolore dell’artista. Non esiste alcuna mediazione tra l’esperienza di Marina Abramovic e quelle del pubblico.

Un altro esponente di questo specifico modo d’intendere e di esibire il corpo è Pierre Molinier, morto suicida nel 1976, che è stato uno dei più interessanti protagonisti della scena artistica francese degli anni Settanta. Con le sue foto Molinier rappresenta un corpo che incarnava una perversione collettiva molto ben nascosta nelle spire della moralità, che nega l’ambiguità sessuale e la sua dominazione. Utilizzando alcune tecniche del surrealismo, come il fotomontaggio e i disegni a china su carta bagnata, l’artista francese, crea figure immerse in un’atmosfera assolutamente irreale e carica di suggestioni fantastiche. Figure che, in ogni modo, esplicitano una sessualità manifesta e non più nascosta nel pudore della censura del Super Io Freudiano. Questa rappresenta la terza delle funzioni mentali che il padre della psicoanalisi ha postulato nella sua ipotesi della struttura dell’apparato psichico. Le funzioni del Super-Io sono in gran parte o completamente inconsce e comprendono molti valori morali della personalità: “L’auto-osservazione critica; l’autopunizione; l’esigenza di riparare il mal fatto, o pentirsene; l’autostima, o amore per se stesso, come ricompensa per i pensieri e le azioni virtuose o desiderabili”[7].

Il Grido di MunchMolinier stesso è protagonista di foto, in cui si traveste, si spoglia, utilizza una maschera femminile e oggetti sessuali di varia natura. Costruisce delle scenografie quasi cinematografiche dove le luci, lo sfondo, gli arredi rinviano ad un’atmosfera da camera d’albergo a ore.
Le foto di Molinier trasgrediscono l’idea di una sessualità “normale”, introducendo tutte quelle allusioni alle fantasie erotiche più diffuse ma inconsciamente rimosse. L’artista nelle sue opere non contempla la canonica divisione biologica tra maschi e femmine: la rassicurante visione binaria del genere sessuale non gli interessa, accentuando, invece, proprio con il suo corpo maschile, i caratteri di una femminilità esasperata. La divisione fra i sessi, che è fonte di tutta la discriminazione su ciò che è lecito e ciò che non lo è, su ciò che è da maschio e su cosa, invece, è da femmina, viene scardinata da Molinier che infrange tutti i modelli tradizionali, profondamente restrittivi, che richiedono all’individuo un comportamento “normale”, consona alla sua natura. L’artista esaspera il cambio di ruolo, su cui l’umanità ha costruito il mondo dei rapporti e delle relazioni. “La realtà sociale è quindi il prodotto dell’opposizione dei segni sessuali, ma allora è l’opposizione che genera l’effetto di realtà. Nessuno ha mai visto la realtà nella sua innocenza, ma sempre e solo la realtà già costellata da segni di opposizione, dove la prevalenza di un polo rispetto all’altro serve a discriminare la realtà dell’immaginario. Ognuno dei due termini dell’opposizione, prevaricando sull’altro, pone se stesso come realtà, relegando l’altro nel suo immaginario”.[8]

L’artista francese utilizza i simboli più canonici di femminilità: calze a rete, parrucche, tacchi a spillo, guanti e si esibisce in una performance, senza testimoni e privata, in cui si confronta con il proprio doppio, pensandosi come una creatura nuova. Molinier non riconosce più i sessi come antagonisti, come portatori di valori contrapposti quali la femminilità e la virilità, e ricompone la scena erotica. Le immagini si offrono allo sguardo voyeuristico dello spettatore, che cattura ciò che pulsa, ciò che viene, prima che mostrato, vissuto. Il suo corpo si svela e si esibiscono seni, schiene, anatomie segnalata e sottolineate da abiti che divengono brandelli di fisicità, indicazione di punti esogeni e sessualità disseminate sulla propria pelle e su quella altrui. Il corpo è artificialmente prodotto per la seduzione, è messo in scena e perciò osceno, perché è offerto secondo quelle regole del gioco che lo fanno più nudo di quel che sia. Molinier, allora, utilizza tutti quegli elementi e atteggiamenti tipici del cerimoniale erotico, attivati per creare un’attesa. Un morboso desiderio che la stessa coscienza individuale respinge, in un lavoro d’autocensura, come vergognosa, contro natura, folle.

Ognuno di questi artisti ha contrapposto alla forza del pregiudizio l’iconografia della fragilità dell’esistenza, la precarietà della loro stessa vita, l’instabilità dei sentimenti e la crudeltà impulsiva della loro intimità divenuta opera.

Corpo glorioso

Questo rappresenta la terza tipologia di corpo pensata da Artaud: un corpo alla ricerca della purificazione, accessibile solo a beneficio di un corpo ripulito dai propri organi, aggiornato. La necessità è quella di costruire un corpo la cui superficie è il crocevia di diversi codici, quello dell’informazione, quelli genetici e quelli tecnologici. Il risultato è la genesi di un corpo ibrido.

Dalla seconda metà del secolo Ventesimo è l’accesso all’informazione e alla gestione delle scoperte scientifiche a conferire alla società il potere legittimante. Le nuove modalità di produzione e il flusso economico, che si estende globalmente, sono i primi fattori che agiscono convertendo ogni attività, ogni prodotto, sentimento e relazione umana in merci e tutti i rapporti in rapporti mercantili: il mondo è il mondo della merce. Il lavoratore rappresenta la forza lavoro e, nel tempo libero, il consumatore. Questo è lo scenario di un contemporaneo in cui le categorie del vero e del falso sono artificiosamente prodotte dai media, che propone come reale dimensioni illusorie ed apparenti. Il linguaggio, in questo nuovo panorama, è quello delle immagini. Il mondo si è trasformato in un mondo di loghi, la pubblicità invade tutti gli spazi della mente e dei luoghi urbani ed extraurbani. Un’esistenza sponsorizzata e scandita dal logo, senza, però, nessuna possibilità di risarcimento.

Quest’organizzazione sociale richiede nuovi individui con nuovi corpi: una ristrutturazione, una modificazione per ristrutturare il proprio corpo attraverso le ipotesi della nuova biotecnologia avanzata. La chirurgia estetica propone modelli di bellezza formulati sulle icone della società dello spettacolo.

Onniprésence di OrlanQuello di Orlan è un corpo che non vuole essere anestetizzato, vuole rimanere cosciente delle propria metamorfosi, della continua invadenza nella propria pelle di violente intrusioni mediche, scientifiche, tecnologiche. Questo è un corpo che si sottrae alla bellezza standard delle offerte speciali, è un progetto di corpo mostruoso, reso diverso attraverso una manipolazione. Mistificazione ottenibile mediante quegli stessi mezzi, che la società propone all’individuo, perché egli possa sentirsi appagato, realizzato, completo. Il corpo di Orlan sfugge al controllo del mercato e si sottrae alla logica capitalista, che propone un canone stereotipato, e si ritorce, a sua volta, contro i modelli imposti dell’iconografia femminile del desiderio maschile, per diventare corpo anticonformista e antiestetico. È la prima artista ad aver utilizzato la chirurgia estetica per operare la propria trasformazione e per cambiare la propria immagine corporea: usa la chirurgia deviandola dai suoi contenuti di miglioramento e di ringiovanimento. Gli interventi non hanno nulla di estetico, tutto il lavoro è concentrato sulla decostruzione degli ideali di bellezza femminile. La sala operatoria diventa una sorta di “teatro della crudeltà” dove si sperimenta una nuova identità e dove tutto il procedimento tecnico è ripreso attraverso filmati video, fotografie, disegni.

Per la settima operazione,  del 1993, Orlan ha organizzato una trasmissione in tempo reale via satellite della performance. Il collegamento rendeva possibile l’interazione con gli spettatori, che potevano seguire l’operazione e porre delle domande all’artista. Durante quest’operazione l’artista francese si fece innestare in fronte due protesi solitamente destinate al rialzo degli zigomi, due protuberanze che azzeravano ogni stereotipo di bellezza desiderabile, assumendo sembianze inquietanti. Dopo l’operazione, nella galleria di Sandra Gering a New York sono esposti quaranta dittici in metallo, corrispondenti ai quaranta giorni di durata della riabilitazione, più un’immagine finale: una fotografia di Orlan con il volto passato al morphing [9]. Ogni giorno, sul lato superiore del dittico era esposta la fotografia dell’artista durante la cura. Le prime riprendevano il suo viso gonfio e bendato, poi colorato, dal blu al giallo passando per il rosso. Su ogni lastra erano incise le parole “Entre les deux” (fra i due) e la data. L’ultimo giorno l’istallazione era completa. L’artista non s’identificava nella sua immagine corporale in continua mutazione, né nelle immagini possibili elaborate al computer. Orlan si pone ed emerge come essere “fra le due”, come qualcosa che sfugge in continuazione a questo gioco di rimandi immaginari.

Le immagini, siano esse fotografiche o video, sono sempre estremamente forti e scioccanti. Il corpo si apre, il bisturi penetra, taglia e modifica la struttura formale del volto, ne sgorga il sangue, che l’artista utilizza per fare disegni. L’impatto è senz’altro sconvolgente e scuote un pubblico anestetizzato dalla spettacolarizzazione generalizzata, che caratterizza il contemporaneo. Tutte le sue performance si aprono con la lettura di alcuni testi, che sono stati fondamentali per l’evolversi del pensiero di Orlan: Michel Serres, Antonin Artaud, testi indù. Gli eventi sono, inoltre, accompagnati da delle conferenze durante la quale spiega, con estrema puntualità e lucidità, l’evolversi del suo percorso artistico e il senso del suo operare: il suo corpo diviene il luogo di un dibattito pubblico. Trovarsi di fronte a questo volto sintetico, simbolo di un trasformismo spinto alle sue estreme conseguenze, è senza dubbio fortemente suggestivo e perturbante. Orlan denuncia l’assunto proprio della religione cristiana, ma anche della cultura psicanalitica, secondo il quale è buono e giusto accettarsi per come si è, e non per quello che sentiamo di essere: se le due cose non coincidono è patologia, malattia, deviazione.

“Il mio lavoro è contro il DNA”, afferma l’artista, implicando in tal modo la necessità di fermarsi a riflettere sulla piega che l’evoluzione dell’uomo sta prendendo. Evoluzione che non sarà più in balia del caso, ma che con ogni probabilità sarà programmata, o per lo meno gestita, dal sapere, dalle conoscenze alle quali si sta pervenendo nel campo della genetica e della robotica. Ciò che si ottiene è un’identità mutante, frutto della tensione che si stabilisce tra l’uomo e il tecnologico, identità non data o subita, bensì pensata e costruita, non unica ma multipla. Attraverso la procedura chirurgica filmata e documentata con fotografie e disegni, Orlan propone la morfologia di un’identità che si moltiplica all’infinito. Nello scenario del contemporaneo il corpo sta mutando in forme e situazioni che lo rendono sempre più manipolabile: tatuaggi, diete, piercing, fino alla mutazione del colore di pelle, le manipolazioni genetiche, situazioni, queste, che implicano una scelta, che espongono al rischio e che finiscono per modificare un destino.

Si riducono le distanze tra l’essere e l’apparire; si rifiuta la sottomissione degli uomini a Dio; si rende pubblico l’atto chirurgico nella sua dimensione privata; ritornano sacrifici di sangue a testimoniare la profondità esistenziale della performance. L’artista agisce contemporaneamente nella carne e nella mente. La mutazione inizia nelle nostre menti e i nostri corpi si stanno trasformando a partire dalle grandi pressioni psichiche dei problemi economici ed etici: la realtà sta scivolando nell’abisso di virtualità delle comunicazione elettroniche.

Queste immagini, che si propongono come strumenti di sovversione, sono immagini di “diversi”, di “mostri”. All’immaginario rassicurante e ipocrita che separava il bello dal brutto, il buono dal cattivo, l’arte oppone la diversità come scelta. Mostro come realtà antropologica, culturale, non più esemplare negativo di tutto ciò che fuoriesce dall’ordine normalizzante dalla morale, che propone modelli di riferimento esteticamente conformi alle ultime tendenze, stabilite dallo spettacolo. La deformazione fisica, l’anomalia del corpo e della carne è uno dei soggetti della mostruosità, mentre la mentalità comune ancora attribuisce alla deformazione la mancanza di qualità morali e l’evidenza di una perversione spregevole: il mostro, che da bambini, alla lettura delle fiabe educative, abbiamo temuto e diffidato, è malvagio perché l’interiorità non può che corrispondere alla fisionomia. E così la deformità e la diversità finiscono per diventare la prova della colpa.

Drawing Restraint 7 di Matthew BarneyÈ un innesto tra mitologia, sport, sessualità, medicina e studi scientifici sull’ibridazione di razze diverse la produzione di un altro artista della Body Art, Matthew Barney. In Drawing Restraint 7, presentato alla Biennale di Whitney nel 1993, l’artista introduce una narrazione mitologica e mostruosa, presentando due video: nel primo due attori, truccati da satiri con corna, peli e zampe a zoccolo lottano sul sedile posteriore di una limousine bianca che attraversa Manhattan; nell’altro lo stesso Barney è Kid, un giovane satiro con delle protuberanze al posto delle corna, privo di genitali, con lunga coda e lunghe gambe, che gira furiosamente su se stesso nel tentativo di catturare la propria coda.

L’artista americano è ossessionato dalla costruzione di un corpo che ha smesso di essere umano, animale: le sue opere sono in bilico fra l’anima e la carne, fra la dannazione e la grazia, fra il misticismo e la corporalità. Una corporeità nata direttamente da un immaginario notturno, in cui supereroi, miti del football, attrici, fauni, fate utilizzano e indossano attributi sessuali: i mostri di Matthew Barney sembrano nascere dal laboratorio di un alchimista contemporaneo, che è capace di dotare di organicità la tecnologia.

Dal 1994 al 2002, l’artista è stato impegnato e assorbito dalla serie Cremaster, un dramma in cinque di dimensioni quasi bibliche, in cui, come in un romanzo di James Joyce, non esiste una struttura narrativa lineare. Ognuna delle parti comprende un film, una serie d’oggetti e un libro di fotografie ed è caratterizzata da un particolare scenario simbolico. I film hanno una struttura narrativa nella quale Matthew Barney ricopre il ruolo del protagonista, circondato da una folla di fate sessualmente ambigue e figure mostruose, ma tutte pattinate. Questo capolavoro multimediale è pervaso d’oscuri simboli che suggeriscono la riproduzione sessuale, pur avvolgendola nel mistero. L’opera, infatti, prende il nome dal muscolo cremastere, il muscolo gonadico, che controlla il sollevamento e l’abbassamento dei testicoli ed è anche responsabile della corretta formazione degli organi genitali maschili del feto. In questo senso, l’opera potrebbe essere interpretata come un’elaborata allegoria del processo di differenziazione sessuale. Tuttavia questa lettura è oscurata dall’accumulazione di riferimenti diversi, tratti dalla cultura locale, dalla storia popolare recente e dalla storia personale dell’artista, che danno vita ad un racconto mitologico abitato da figure in parte mitiche, quindi eroiche, e in parte mostruose, ma, comunque, appartenenti alla dimensione psichica: l’umano ha le sembianze del mostruoso e il mostro ha le sembianze della normalità.

La spinta al superamento dei limiti è un fondamento della società e della cultura contemporanea. Le tecnologie soccorrono il corpo, per valicare questi limiti in una realtà competitiva. Si configura una società in cui gli individui somiglieranno sempre di più ai modelli dominanti dello spettacolo. Le tecnologie utilizzate per la medicina hanno reso trasparente l’interiorità organica: la chirurgia estetica incide e modifica pesantemente l’anatomia e la forma umana. Gli impianti e le protesi rendono confuso il limite tra minerale e vivente: pace-maker, protesi acustiche, filtri esterni al posto di reni sani. Anche la comunicazione si fa invasiva come le tecniche mediche: telecamere e registratori percepiscono e diffondono globalmente le sensazioni dell’individuo, provate in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo. L’uomo che ne esce, è un uomo simile ad una cavia: nessuno può prevedere quali e di che portata siano gli effetti di tali incursioni e irruzioni più o meno accettate e volute, che possano marchiare la propria essenza.

Sterlac e il corpo tecnologicoRidefinire il corpo umano sovvertendo radicalmente il modo di pensarlo, percepirlo e viverlo, rappresenta il progetto di Sterlac, che già dalla fine degli anni Sessanta s’interessava della dimensione del corpo, in quanto struttura modificabile e alterabile: un elemento su cui poter intervenire riformarne e amplificarne le possibilità. Sterlac realizza sul proprio corpo una ricerca rivolta alla scoperta dei limiti fisiologici e psichici dell’organismo, da cui prende forma la necessità d’inventare degli strumenti tecnologici di potenziamento molto avanzati: protesi e innesti. Il corpo, secondo l’artista, così com’è non è più in grado di vivere adeguatamente una realtà che si sta evolvendo a velocità incontrollabili: le tecnologie e il loro utilizzo nei sistemi d’organizzazione sociale hanno modificato l’ambiente in modo radicale e pericoloso per il corpo umano. Sterlac ritiene che la “salvezza” umana sia legata alla possibilità di cominciare a pensare ad un corpo, che sia in grado di competere con le tecnologie e che sia in grado si assorbire e rielaborare la realtà altamente tecnica, in cui e calato. È dunque necessario, secondo l’artista, mettere a punto un vero e proprio programma evolutivo che, da una parte, deve essere in grado di eliminare secoli di pregiudizi e paure nei confronti della manipolazione del corpo e, dall’altra, permetta il passaggio da una conversione di tipo biologico-naturale ad una di tipo tecnologico-artificiale.

L’artista ha iniziato a considerare il corpo come una struttura modulare e componibile, pronta ad ospitare al proprio interno innesti tecnologici che possano operare e agire, sostituendosi ad organi imperfetti, spesso mal funzionanti e, comunque, destinati al decadimento fisiologico. Per Sterlac solo la modificazione della fisiologia umana potrà essere il motivo di forme di pensiero differenti, come lui stesso affermava: “Solo attraverso una radicale riprogettazione del corpo giungeremo ad avere pensieri e filosofie significativamente differenti”. Quello che nascerà da quest’ibridazione, da quest’interfaccia uomo-macchina, coinciderà con una ricodificazione complessiva dello statuto umano. Si sollecita l’eliminazione del pensiero duale: la fine delle coppie natura/artificio, interno/esterno, mente/corpo, vita/morte, fisico/virtuale. Sterlac ha realizzato una serie di sospensioni in cui il corpo dell’artista veniva sollevato e lasciato fluttuare.

Sterlac in sospensione

In queste performance, la sua pelle era penetrata da ganci metallici che, collegati a funi, consentono di sollevare il corpo senza alcun tipo di supporto. La pelle tirata si espande disegnando sul corpo delle configurazioni spaziali, che lo stesso artista definiva come “paesaggi gravitazionali”. La distinzione esterno/interno si scardina e la mutazione può aver inizio. La tecnologia si trasforma da contenitore a componente del corpo: per l’artista il cyborg è ormai l’ipotesi di una nuova specie. Eliminando il concetto di pelle come confine e limite tra sé e il mondo, il corpo varia da struttura biologica di contenimento e protezione a struttura aperta, mutante, in grado di accogliere al proprio interno il sistema logico della macchina.

Quando Sterlac parla di corpo, non si riferisce semplicemente alla sua accezione fisiologica, ma v’include anche tutto ciò che rientra nella sfera del sensoriale e del celebrare. Parlare di corpo come di un oggetto da esplorare e amplificare tramite sistemi tecnologici avanzati; un oggetto che non si oppone al mentale, ma che costituisce un tutt’uno con esso. Parlare di corpo ed esprimere il proprio corpo come una struttura mutante comporta una profonda riflessione da parte dell’artista sull’impatto che esso subisce nel suo quotidiano, rapportandosi con un sociale sempre più tecnologico.

Fine seconda parte

Segue con Dall’action painting alla body art (III)