Il fascino di Philippe Leroy è innegabile. Una dote naturale che non sembra aver perso il lustro di cinquant’anni fa, quando appena iniziava la sua carriera d’attore.
Un rapido scintillio negli occhi, il tempo di elaborare ciò che gli viene chiesto ed ecco arrivare le risposte una dietro l’altra, decise, senza esitazione.
Ne ha così tante lui di cose da dire e da raccontare, che non si sofferma neppure. Ci regala un accenno, una battuta, quanto basta per capire che si tratta di una goccia in un oceano! D’altronde è sufficiente aver letto qualche sua intervista qua e là, qualche breve cenno biografico e la sua lunghissima filmografia per sapere che abbiamo di fronte un uomo fuori dal comune.
Prova ne sia che, a settantasette anni, continua regolarmente a lanciarsi col paracadute, una delle sue grandi passioni. “L’ultimo lancio è stato domenica scorsa” racconta con nonchalance, tranquillo e sorridente.
Esprime carattere e genuina vitalità; mescola simpatia ad un certo snobismo alla francese; conquista e, allo stesso tempo, incute una soggezione reverenziale.
Ironico, filosofico, tagliente, Leroy ha sempre vissuto la sua vita da protagonista, con vigorosa intensità. Noto per la sua fama di attore temerario e spericolato, nei film d’azione rifiutava puntualmente le controfigure. “In Tir, serie che ho fatto per la RAI, mi sono addirittura calato da un elicottero” racconta “e ho pure rischiato di ammazzarmi in una scena particolarmente turbolenta di Caccia all’uomo. Se non mi teneva un macchinista finivo direttamente nella scarpata! Ma il mio amore per il rischio non mi ha mai portato a sopravvalutare le mie capacità, ho sempre preso le mie precauzioni”.
Ex ufficiale di riserva in Algeria e Indocina, è stato espulso dalla Francia per ragioni politiche ed è diventato attore quasi per caso, senza mai dimenticare l’amore per i viaggi e il gusto per l’avventura. Si è stabilito in Italia negli anni Sessanta, gli anni d’oro del cinema italiano. Il suo è stato un percorso intenso e non sempre facile. “Ho avuto molti alti e bassi, nei periodi bui ho dovuto fare anche delle cose per pura sopravvivenza, i cosiddetti film “alimentari”!” confessa spiritoso.
Ha lavorato, tra gli altri, con registi come Caprioli, Freda, Castellari, Cavara, Giraldi, Spinazzola, Comencini e Tinto Brass, e con attori, per citarne solo alcuni, come Totò, Gian Maria Volontè, Catherine Spaak, Bud Spencer, Charlton Heston e Ava Gardner.
La popolarità di massa arriva però con Sandokan, serie tv in cui affianca Kabir Bedi nelle vesti di Janez De Gomena, personaggio amatissimo dal pubblico, croce e delizia della sua carriera.
Nel corso di un breve incontro rubato, abbiamo avuto occasione di scambiare quattro chiacchiere con lui al Trieste Film Festival, dove l’attore è stato invitato per rendere omaggio al regista triestino Franco Giraldi che l’aveva diretto nella serie tv Il Corsaro.
Cristina Favento (CF): Che cosa vede guardandosi indietro, ripensando alla sua lunga carriera di attore?
Philippe Leroy (PL): La maggior parte dei miei film li ho già dimenticati! Non sono uno che vive nel passato. Non credo che “carriera” sia il termine giusto, significa volontà di arrivare a un obiettivo. Per me c’era solo il bisogno di esprimermi, io non ho mai fatto carriera. Intendo uno di quelli che fanno carriera come uno che fa, per esempio, un commissario per centodue volte.
Io sono eclettico, vivo un’arte che non è qualitativa, ma è espressione esistenziale. Non penso assolutamente al passato e a quello che succederà.
CF: La sua è stata una vita piuttosto ricca ed avventurosa, si è sentito un po’ “corsaro”?
PL: Le mie avventure si svolgono ormai in cielo, perché sono un appassionato di paracadutismo. Ho all’attivo quasi duemila lanci. Per me è una passione e un’avventura ad ogni lancio, le emozioni non sono mai le stesse. Si gioca tra amici, facendo figure, è un’avventura che non ha fine, è una ricerca di spazio.
CF: Com’è il suo rapporto con Franco Giraldi, lei lo considera un maestro?
PL: Credo di averlo già detto più volte: Franco è un maestro. Ce ne sono pochi ormai. Manca molto ai giovani attori la figura del maestro.
CF: Com’è stata la vostra collaborazione professionale?
PL: Molto fluida, è stato un rapporto straordinario. Primo perché amavo molto il personaggio, e poi perché lui è fantastico come regista. Non c’è stato neppure un problema, neanche un secondo di dubbio o di difficoltà.
CF: Lei è molto amato dal pubblico ed è ricordato spesso accanto a Kabir Bedi in Sandokan. Qual è il segreto del suo successo?
PL: Sono perseguitato da Janez! L’ho adorato perché ero io, era come rivivere alcune mie avventure attraverso la magia di Salgari e con l’aggiunta di molti nuovi elementi, non ultimo il fascino della Malesia. Però non mi sono fermato a Janez. È stato un personaggio molto popolare, ma mi è costata molta più concentrazione l’interpretazione della vita di Lenardo da Vinci per esempio.
CF: Lei è già stato a Trieste per girare Senilità, come ricorda l’esperienza?
PL: Sono pieno di ricordi. Dopo il film con Bolognini sono tornato altre volte, ma per periodi decisamente più brevi. Mi piace questa città imperiale, bella, flagellata dalla Bora, un po’ estrema. Mi piace questa cultura mitteleuropea. Ho sempre avuto un rapporto fantastico con Trieste. C’era anche un bar dove ci trovavamo tutti noi artisti, ora non ricordo il nome. C’era chi era perseguitato dalla stampa, chi era in crisi esistenziale e ci si ritrovava lì. Ho vissuto d’arte e acquavite con i miei amici pittori.
CF: Ha finito recentemente di girare un film con Dario Argento, com’è andata?
PL: In genere non mi piacciono assolutamente i film dell’orrore, non li guardo mai. Ma Dario Argento ha tutto un altro modo di viverli e di farteli vivere. Lui si diverte, non fa paura, quella paura cattiva.
È in ogni caso un horror assolutamente delizioso, lui è un grande regista. Le sue inquadrature sono fantastiche, è un divertimento lavorare con lui.
Interpreto un alchimista, ho a che fare con la creazione, la scienza, la magia nera, non sono qualcuno che guarda banalmente dentro ad una palla di vetro. Mi sono davvero divertito.