locandina Teatro e carcere in EuropaScrivo senza una precisa direzione di logica e di tempo, con onesto e disordinato intendimento di voler confondere, e portare i lettori a cercare e vedere nelle parole di questo “racconto liberato ”, le situazioni e le realtà, semplici e difficili, vitali e problematiche di questo festival. Liberato dalla cronaca e lasciato andare alle sensazioni.Come il diretto entrare “in una vena del vedere totale”, poetico e spietato, comico e tragico, fantastico e grottesco, irriducibile e in-interpretabile di William Burroughs. Il suo vedere fisico dello spirito, lo trova a dire: “I am not an entertainer”. E dichiara di essere soltanto un recording instrument. E così, dal mio pensiero inghiottito, si desta, emerge, l’animale in me; quello che sente “lo stretto del presente ” e “l’odore di un’utile eternità da ricreare giorno dopo giorno ”. Sarà questa città erta, labirintica, imprigionata in mezzo a vasti panorami, attorno. Tutto, è attorno. Questa città, come questo suo festival; un mare sospeso in cielo. Onde del tempo. Porto per attracchi di emergenze, testimonianze e conoscenze, in questi nostri tempi pallidi e illusionisti. Dove per gioire si deve creare gioia. Dove per avere gioia si deve saper navigare nel soffrire. La sofferenza, forse, non si può sconfiggerla, ma imparare a navigarla attraverso l’impegno civile e l’arte, sì. Ogni volta a Volterra, mi appare una poesia che rivista potrebbe dire: “Qui, non vengo quasi mai, ma quando vengo, è troppo in alto per essere il paradiso, è troppo in basso per essere la bella-città, mi sento sempre troppo vivo e allo stesso tempo troppo morto; è l’essere che preme in tutti i suoi alfabeti. Alcuni indizi si alternano ad alcune prove. Prove di visioni e atti. Preparo la scena di questa scrittura. Ma non per gusto romanzesco, piuttosto è un tentativo di dare una scena, oltre le pagine di carta o di computer, alle parole che verranno; di metterle in piedi, e farle camminare, anche cadere. Ferirle nel loro significato, per far vedere un corpo visionario, nella fisicità, densità, emotività e nervosità del suo pensare”. Questo “pezzo di parole” non è tanto una cronaca giornalistica e criticante di un evento artistico-culturale, quanto una presenza e una testimonianza, partecipata e avvinta, che si insinua da dietro le spalle… sono a Trieste e ancora a Volterra, da qui e là sono giunto in auto a questo piccolo ritorno all’inizio… mi vedo, erano passati due giorni dal 24 luglio, primo giorno in cui “mi trovavo dentro” a VOLTERRATEATRO; e così ricominciai: “Sto scrivendo nel giro d’aria di un corridoio del seminario di Sant’Andrea, (sopra) a un tavolo che cerca di recuperare la sua rotondità… vicino ai bagni.. .mi va di scrivere davanti ai cessi di un posto religioso… mi fa sentire in maniera organica (e orgiastica) il contatto, intimo, riservato, senza esclusione di colpi e richieste, fra lo spirito e il corpo… ”
Anno ventesimo del festival sono passato spesso di qua “a rumorare e ruminare”… questa volta ho voluto usare il microfono e la telecamera del silenzio, cioè niente interviste alle “persone informate in quanto a conoscenza dei fatti”, o a persone più o meno note a vario titolo. No. Niente di tutto ciò. Solo osservare; gli spazi, le atmosfere, i movimenti, i volti, i corpi. Ho voluto, più che sentire evitabili e impossibili risposte, raccogliere possibili e inevitabili domande dentro di me; interrogare; me stesso, i luoghi, le persone che mi stanno attorno, le situazioni da dove vengo, le genti di cui faccio parte. In fondo ai sensi… è quello che ha sempre tentato di chiedere questo festival, come un bambino vivace, alle volte in modo ingenuo, altre volte maleducato, fastidioso, sgarbato, dolce, irriverente, sensibile, crudele; ha sempre chiesto a tutti, parole e reazioni, e non inchini di complimenti e salviette di applausi! Giro e giro. Giro. Qui la cortesia, anche brusca e ruvida, ma pur sempre cortesia, della gente, dei gestori di locali, dei “chiunque e dei piccioni… ”, mi fa uscire per un istante dalla parola mostre, arte, e il primo pensiero che mi viene per i miei concittadini e piccioni o colombi, che operano (bella e insidiosa parola) negli stessi settori e con la gente, è che hanno bisogno anche di un festival della cultura del commercio e dell’ospitalità.

Compagnia della Fortezza

“Questa Parlata”, che a seconda delle cliniche, o case di cura intellettuali dove finirà, diverrà pasto per angeli o pasto per cani, deve anche pervenire per impegno preso e firmato, alla casa di reclusione di Volterra; e sarò ben lieto di farlo, non so come sia la notte in quel carcere, ma di certo, seppur confusa fra i coriandoli, del male, di bui pensieri, di condanne nate da altre condanne, anche di giorno, la notte lì ha tanti cuori e corpi “da dire”. Il carcere, con quel suo “teatrodentro”, o viceversa, il teatro, con quel suo “carceredentro”, sembra più un vascello, l’arca di un diluvio rigenerante. Per animali-uomini giudicati, contrassegnati, e laboriosi nel duro tentativo di disegnare e fabbricare la strada per un miracolo. E nel cortile interno, piante dei miracoli, qua e là… e le “guardie” circondariali, così familiari, sembrano ospitarti in casa.
Prima dello spettacolo, ti accolgono premurose e rilassate, celano molto bene eventuali ordini rigorosi ricevuti in precedenza. Sembra non stiano solo lavorando, ma anche partecipando… sembra quasi, che la divisa che indossano sia un costume di scena. Il loro sorriso tradisce emozione e ilarità. Sono pronti, comunque, a far parte del gioco reale che sta per accadere. Tutto all’interno di questa prigione contribuisce a rendere il fatto teatrale, una stramberia da prendere in leggera, seria, e direi estrema considerazione. Dimostrare che tra la realtà e il teatro ci può essere un banchetto di festa, doloroso, punito, incerto, ma anche propositivo, critico, energico. Autocritico. Vitale. È un forte esempio di cultura, arte, e senso civile di comprensione e convivenza.
Ri-costruire è più impegnativo di ri-distruggere. Grazie, e un bravo a tutti, ladri e guardie. Rubando alla pubblicità, vedere per credere… Armando Punzo, direttore artistico del festival e regista della compagnia detenuta, parla e si muove, con un’aria di bambino-sergente, timido e deciso… trasmettendo una necessità di pensiero-respiro tra vita e arte. È una certezza liquida…
Bestiario/BeckettÈ come bere pioggia. Che tu cammini o stai fermo, l’acqua ti arriva comunque in bocca, alla bocca. Basta tenerla aperta. Così da non coprire le “nascondità”. E curiosamente…dentro, in uno dei cortili della casa di reclusione, in attesa di vedere la “liberamente reclusa compagnia”,una mostra di quadri “sottili” si defila lungo alcune pareti delle mura. Il titolo è Bestiario/Beckett. Volti di S. Beckett. Suoi. Ri-tratti e trattati. Di faccia in faccia, tra il pittore e lo scrittore, come panni stesi ad asciugare “sotto al sole e sotto alla notte”. Sotto al tempo. In un dolce, marcire, gridare e ridere di un “lontano” che non c’è. Che è troppo vicino. Di quel tempo, pilotato, teleguidato, che ci schiaccia e poi pettina gli occhi. Quel vuoto, che commerciante di parole in sandwich di significati, ci toglie il silenzio. Silenzio inteso come corpo, di rivolta, di fuoriuscito da tutti gli stati e moti di quelle varie “ditte” del blaterare e dimenarsi. Voglio-vorrei essere molto semplice e stupido, nello s-ragionare, nel dire, per stupirmi, farò il possibile (quello che posso). Voglio che, se mi esce un parlar poetico, sia subito immediatamente confondibile e spendibile con la realtà che mi circonda (arresta), e con tutto ciò che di reale c’è in me. Trieste, mancante. Agli spazi, a un silenzio e ad un ascolto rigogliosi. Chiusa in infinite e piccolissime mura. “Impomatate rovine circolari”. Cucita, drogata e paralizzata nelle sue tradizioni, solo qualche piccola via di fuga. Qualche fuga che è più una scappatella. Abortiva nelle novità e nei tentativi diversi. Al massimo si arriva al gusto per i baracconi innovativi (vedi ex Pescheria centrale e annesso I° pesce d’aprile! La mostra, di a da in con su per tra fra A. Warhol). E d’ora in poi, questa meravigliosa ex-pescheria-neo-polo-culturale, sarà egregiamente disponibile a soli soletti 2000,00 euro al giorno!
Adesso mi ri-siedo, mi ri-caccio a Volterra. Come un Lucifero che non sa più che luci, che lampioni pigliare! E si brucia dei suoi stessi respiri di oscurità.

Volterra

Un festival piacevole e leggiadro, che si muove agitato e sornione, nella semplicità, nella scomodità, nella “silenziosità e provocazione luminosa”. Ti fa vedere che numero di scarpe porti dentro di te, come cammini… nel tuo festival, nel tuo teatro, nei tuoi pensieri ed emozioni, come viaggi, attorno e vicino a te stesso, come ti muovi, ti confondi, ti perdi, ti riconosci verso tutto ciò che è altro da te, verso ciò che ti manda alla deriva, che ha altre correnti…progetto speciale:Rodrigo Garcìa. Che dire del suo “astice” in Accidens — Matar para comer… sta a dire che la marcia nuziale della cieca indifferenza, convenienza personale, obesità di pensieri clonati, per dirla alla Herzog, ognuno per sé e dio contro tutti; diviene, non la crudeltà artaudiana, ma un superficiale e perpetuo delitto anti-umano, anti-culturale, anti-civile. Questo delitto comodamente alberga nelle azioni minimali o anche nelle non-azioni, in queste, esso si fa opera lirica muta, musica di immagini inascoltabili. Sta a voler dire che nel calco più simile alla realtà, in fondo si uccide da soli (quando si uccide, si è soli, si è già soli), e… si mangia da soli… “mangiare la morte ” è un fatto estremamente e sbadatamente privato e intimo (come può esserlo l’ultimo amplesso prima di abbandonare il proprio partner… estremo, dedicato, senza riserve; e al contempo sbadato, separato, senza riserve).
“Incivile e Umano?”. Usare un astice, “in un primo piano sospeso ”, per microfonare la sua morte (solo sua o di ogni cosa?), la fine, e di conseguenza anche la vitalità e la ribellione, in una parola, la bellezza; sì, microfonare, amplificare, registrare, musicare, disperdere e trafiggere nello spazio il rumore sordo del tempo… e poi, in un animale così primordiale…

Accidens — Matar para comer

È come assistere ai primi passi, di un dio, un feto, un uomo; nel caos, nella finzione, nel sentire le cose ineffabili e ineluttabili di questo mondo. È come vedere “il sudore di tutto ciò che è ombra”. Veramente uno spettacolo del niente… uno specchio infranto, oltrepassato e oltrepassante. Dove i ruoli si ribaltano. Dove l’attore è prima ancora spettatore, e aspetta, e interviene, e aspetta, e finisce “senza sosta”, per mangiarsi tutto (astice compreso… ), tanto poi andrà in pizzeria a lavarsi la bocca. Dove lo spettatore è ancor prima attore… immobile, impotente? Indeciso se agire, intervenire? Personalmente, in quel astice “portato alla morte in vita ”, proteso nel vuoto, reso gioco di specchi vibranti e deformanti, vedo anche una genesi del teatro, e la creazione di un attore, come dovrebbe essere dall’inizio alla fine della sua comparsa… apparizione — sospensione — ribellione — finalizzazione. Auto-mangiarsi, per poi darsi a “pezzi tagliati precisi”. Per vedere con la “bocca interiore” il proprio corpo totale, il corpo del reato e il corpo del creato. Dilatazione del corpo. Presenza che attraversa l’essere dentro e fuori di sé.

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Altro giorno. La historia de Ronald el payaso de Mc Donald. Vedo Ronald il pagliaccio… sempre di Garcìa, al teatro Persio Flacco. Sì, proprio in teatro, devo dire che è lì, solo ed esclusivamente lì il suo posto… mai come in un teatro trova il suo farsi posto. Postaccio odorante, brulicante di tutto quello che è necessario e di tutto quello che è superfluo.

La historia de Ronald el payaso de Mc Donald

Postaccio di tutto ciò che va detto e va fatto, comunque, con pubblico o senza pubblico. Postaccio dove tutti dovrebbero entrare; e salire-assalire almeno una volta, una volta per tutte, quel rialzo, quell’alzata, quella super-pedana che è il palcoscenico, quel trampolino nel vuoto, e da lassù-laggiù gustarsi-dedicarsi-consegnarsi a quel vuoto che sta davanti, e ritornare ad essere qualcosa, non più di un tutto già pronto e in offerta, ma di sé. Immaginavo cosa mi aspettava, quelle cose che non sai ma che senti, me lo sentivo… e non mi sono messo in una di quelle poltrone da prima fila che “per regola” spettano agli inviati-stampa, mi sono infilato in una galleria in alto. E ho fatto senza pensare maledettamente bene! La visione era continuamente solubile e densa. Vampate, di corpi e immagini e movimenti e odori, che crollavano e salivano, ovunque, senza possibilità di contenimento…
Di contenerli. Liberi sensi in “un’aria esplosa magmatica”. Pittorica discarica dell’essere umano.
Un quadro liquefatto si configurava in altri quadri. Una geografia fisica mossa da un uragano di pensieri. Togliersi a quel (solo) probabile punto di osservazione migliore, in prima fila, è stata una semplice e istintiva scelta di postazione. Una prospettiva nervosa e vertiginosa. I sensi di un ideale progetto di arena. E sono stato ripagato… e rivenduto. Presagire che l’evento teatrale, fin dai primi momenti, come un “materiale franante ”, sarebbe arrivato in platea, e particolarmente sulle prime file, non mi ha creato sgomento e schifo, piuttosto una mareggiata di sensazioni e pulsioni. Entrare in un’emozione, paragonabile alla visione di una strada dissestata, che si interrompe davanti a un pezzo di cielo che cola… la percezione uno zoom ottico davanti a quegli uomini-corpi, angeli-corpi pagliacci-corpi, porci-corpi; “respirare” il loro, scivolare, sguazzare, annaspare, affogare nel latte e nel vino e in “altri innocui beni di consumo”. E quelle coperte, pregne, sature, di liquidi e solidi, mosse a schizzare dappertutto ciò che ormai era intruglio miscuglio “spiritoso e corposo”. Mosse come ali (di delirio e preghiera)… erano ali e poi sindoni metropolitane, casalinghe, quotidiane, di tutti. E quel tiro alla fune clownesco, coinvolgendo il pubblico nel tentativo di “tirare giù il pesante palcoscenico”… far crollare la finzione addosso alla realtà… con follia e ingenuità voler contagiare ogni piccolo o grande mondo con un gesto artistico. E le parole bruciate in un attimo, tutte, senza il tempo per la speranza, per l’attesa. Senza scuse. Senza lavaggi intellettuali. Come dire. “Per chi aspetta o fa finta di aspettare (che poi è la stessa cosa)”, tutto cade dal cielo… dimenticando che il cielo è di proprietà di pochi macellai-becchini; celesti rossi verdi neri gialli bianchi, misti… e venne la manna… ma dal cielo dell’inferno. Un di-spettacolo “discutibile”, e con i tempi e le arti che girano e che inciampano, zoppicano, disabilitano, direi che è già, molto, qualcosa. ——-

Il Libro della VitaNe “Il Libro della Vita ”, ideazione e regia di Armando Punzo, Mimoun El Baroni, uno degli attori storici della Compagnia della Fortezza, recitando se stesso, narra il mondo. Teatralizza la vita per farla deviare da quei percorsi che sembrano padroni indiscussi di destini già segnati. Ad un certo punto si sente dire: “Se il mondo non mi è più necessario, io non sono più necessario al mondo, e se un poeta non fa più paura, allora è meglio che abbandoni il mondo”.
Basta così. Sono limiti che si devono e si possono superare. Oppure, sono limiti, dove, dolcemente o brutalmente ci si ferma. Si va via. Necessità, elasticità, resistenza. Se si ha qualcosa da dire, pur di riuscire, farlo in qualsiasi modo e condizione. Quale forza ci vuole, per opporsi all’essere eliminati, millimetro dopo millimetro… durante un tempo lungo di una tazzina vuota di caffè, mi sfiorano alcune domande verso A. Punzo, che non è presente. Forse, servono più a me. Cerco un sasso in due strade, quella che porta a Volterra e quella che porta a Trieste. Cosa mostra il tempo… passato, presente, futuro? “Il conto del coperto si è accorciato”. Tutto si restringe? Ci sono uomini che sono fuori dalle lenzuola dei cieli economici… eppure riescono a dormire in punta di piedi… della poesia, della bellezza… i fiori continuano a esplodere. Volterrateatro, arrivato a vent’anni di sogni e fatiche, è una generazione… questo teatro nelle genti e nei giovani? In una realtà di “teleteatrini degli infamositi”. Circondati da spettacolini in ammollo… quante e quali le forze contrarie ad un festival così? E la città è con chi lo crea? O il cavallo di Troia è ben dentro le mura? E se salta l’appuntamento in teatro… fuori dalle pareti carcerarie… cosa vuol dire questo, per te, per me, per chi, per gli attori-detenuti-attori, per quegli uomini che detengono degli attori… ? A ognuno una domanda. A ognuno un come rispondere. Esistere e resistere sul posto, in barba a tutti quelli che si impadroniscono del ruolo di parrucchieri della vita e della cultura. Solo chi si esprime in modo autentico, chi è vivo e a rischio, chi si gioca, sbaglia.locandina Volterra teatro Chi non si esprime in modo autentico, chi è morto e non a rischio, chi non si gioca, non sbaglia, mai. Fra le righe di questa scrittura, spero, bene o male, di essere e avere sbagliato. Altri, degli alcuni dei presenti, andate a cercarli e a vederli, e perché no, magari proprio a VOLTERRATEATRO 07. Disperdetevi, e ricomponetevi nei punti a voi ignoti. Chiudo, perché divertente e significativo, con lo studio-spettacolo della Compagnia della Fortezza fatto, credo, nel cortile principale all’interno del carcere… com’è quel modo di dire? Sposa bagnata, sposa fortunata… inizio dell’evento, si svolge, sospeso per pioggia… fuggi fuggi… generale… tutti bagnati, e tutti rifugiati e al coperto dentro ai corridoi del carcere… in attesa… di poter uscire… riuscire… a ri-vedere, la realtà di un teatro, e forse, il reale di un mondo, diverso. Sempre bagnati, colpiti, e festanti. Da Armando Punzo: “Avevamo bisogno di un testo che fosse una sfida. Che mettesse alla prova la capacità di questa compagnia di reagire alle inevitabili difficoltà economiche e culturali che una compagnia di teatro vive in questi tempi. Specialmente di una compagnia che nata in un carcere, nonostante tutti gli straordinari traguardi raggiunti, vede tutti i giorni la possibilità concreta di restarci emarginata per sempre.
Negli anni ci siamo convinti che se non c’è un vero posto per noi non c’è possibilità di un mondo migliore. Noi rappresentiamo uno dei tanti “impossibili” di questo mondo che simbolicamente, a sua volta, rappresenta anche tutti gli altri Avevamo bisogno di un testo che fosse una festa dell’anima e dello spirito, e che potesse indicare una strada da percorrere per noi e per chi verrà a trovarci. Il grottesco maestoso di Rabelais sembra indicare, scardinandole gioiosamente e intelligentemente, che si possono mettere in discussione tutte quelle che sembrano essere le tristi verità di questo mondo. Sembra suggerire che non bisogna aver paura della vita”.
A dopo…

Video Installazioni di Rodrigo Garcìa