Ci sono spettacoli che sembrano capaci di bloccare le strutture percettive del tempo umano e attrarre su di loro il nostro sguardo al punto da provare l’impulso irrefrenabile di mantenerlo là, quel giorno, a quella certa ora, davanti a quel palco, per un tempo indefinibile. Questo accade perché il teatro è ogni volta arte in presa diretta, quindi il bello scivola tra le nostre mani nel momento stesso in cui ci sembra di assaporarlo.
La nostalgia, pertanto, non può che essere il naturale corollario di una simile forma di rappresentazione. Ora, se questo accade con una certa frequenza a teatro, figuriamoci cosa può innescarsi nello spettatore di fronte ad un lavoro perfetto, senza sbavature, costruito con la sapienza e la maestria di chi sa seguire lo Zeitgeist ed essere assiduamente attuale, abbracciando in modo funambolico il registro tragicomico e divenendo kitsch con inusitata spontaneità, in breve, firmando uno degli spettacoli più belli che il teatro italiano ci abbia mai proposto. “Cinema Cielo” di Danio Manfredini vuol essere tutto questo.
Un angelo diabolico o un diavolo angelico, le cui ali sono pitturate di un rosso sanguigno, ci fa da guida all’interno di questo squallido e decadente “Cinema Cielo”. Il “Cinema Cielo” è l’ambientazione scelta da Manfredini per introdurci nell’atmosfera rarefatta e blasfema di un universo che sente su di sé l’assordante assenza di Dio.
L’angelica prostituta eletta a guida della storia, evita, sin da subito, ogni incipit drammatico, aprendo il nostro sguardo su un mondo, quello dell’amore tradotto in oggetto di consumo e mercificato, venato di sfumature, fusioni e allontanamenti anch’essi mercificati, ma che ai suoi occhi assumono la fisionomia di un amore. Esso è fatto di cartapesta, ed è qui che si trova la prima svolta comica di tutta la vicenda. Nei racconti delle sue notti, con improbabili soggetti umani, si respira l’aria viziata di un’alcova raffigurata non con i toni di un qualsiasi racconto di prostituzione, ma dove le tinte scure si accendono di vivida luce sciogliendosi nell’acidità di battute dove il retrogusto amaro lascia spazio al riso.
Il passaggio ai recessi più profondi dell’animo umano segna parimenti l’accesso all’interno del Cinema, un cinema porno dove abbondano tutti i tic esistenziali di gestori e clienti. Così v’incontriamo l’immigrato povero proveniente dalle nostre periferie d’Europa che per sottrarsi al fascino ingannevole della delinquenza non fa che entrare ed uscire nervosamente dal cinema, o i vecchi spettatori sciancati che improvvisano atti di sodomia, a completare il quadro troviamo la cassiera del cinema stufa e isterica che nell’insoddisfazione di un simile lavoro non aspetta altro che la fine del proprio turno. Si ha come l’impressione che tutto sia terribilmente posticcio, irreale e surreale al tempo stesso mentre due manichini entrano ed escono dalla scena. Il “Cinema Cielo” diviene momento di scambio preverbale, un luogo di espressione e di annichilimento, dove non esistono distinzioni di ceto e neppure percezione del tempo. Si assiste alla messa in scena amara e comica di svariate costellazioni di reietti della società, di esclusi, di manichini, appunto, ossia persone che vivono il mondo da comparse, corpi privati di una soggettività. Al “Cinema Cielo” essi sembrano trovar riparo, qui vengono a nascondersi, in quanto solo qui, pur se tra odio e meschinità, è data ospitalità a loro e alle loro repressioni, trasformatesi improvvisamente in desideri.
Eppure non c’è solo il cinema con le sue crudezze, vi è una storia senza rappresentazione che sta correndo nelle teste di noi spettatori. È la storia di Divin, Mignon e di Nostra Signora dei Fiori, la storia di una prostituta e del suo magnaccia, e la storia di una prostituta che finirà per uccidere un uomo, la commedia si rivela in tutta la sua crudezza, il tragico lentamente si impone. Sembriamo così pervenire ad un radicale cambio di registro espressivo, un cambio mai brusco, ma sempre fatto scivolare nel ventre della storia per poi esplodere al suo interno.
Divin è un transessuale che si guadagna da vivere prostituendosi, anch’essa reietta fra i reietti. Il contrasto la domina, contrasto tra una psiche che chiede amore e un corpo mercificato, trasferito tutto all’esterno, preda degli appetiti sessuali del perverso di turno. Ma il contrasto è anche dentro di lei, nel suo amore traboccante per Mignon, non ricambiato, e nella sua fede, anch’essa amorosa, in un Dio che l’ha abbandonata da sempre. Le campane, la costante e martellante opera di ridicolizzazione del sacro, mai banale, fino al dialogare di Divin con Dio e al suo ricercarlo ed invocarlo dietro il muro del silenzio, — “lei fissa il silenzio” si dice nello spettacolo — danno ulteriore profondità e spessore ad un lavoro fine e in grado di farci abbandonare a suggestioni che come colpi rimbombano in noi. Ognuno dei personaggi che vediamo, ma ancor più coloro che visivamente ci sono lontani, sono stati abbandonati da Dio, estromessi da qualsivoglia possibilità di sedergli accanto. È lungo un simile sentiero interpretativo che è possibile considerare l’intero cosmo, in cui come atomi impazziti si agitano le esistenze disperate di Divin, Mignon e Nostra Signora dei Fiori, come una metafora dell’Inferno; loro vivono, pur nella squallida cornice della prostituzione, in modo tragico la separatezza da Dio, l’impossibilità a credere che le loro notti un giorno possano ritrovare la luce dell’alba.Divin vive in un amore talmente frustrato e frustrante che i suoi monologhi finiscono per lasciarci un sapore stucchevolmente dolciastro. Mignon non l’ama, non è amata da nessuno e Dio e Gesù sono lontani a distanza siderale, ma, dopotutto, anche Divin non è che un’estranea di fronte a se stessa. Non così è per Mignon, che, per quanto bisognosa di Dio, riesce a trincerarsi nella freddezza di facciata di un legame intriso di opportunismo, con Divin prima, e in seconda battuta con Nostra Signora dei Fiori. Mignon appare semplice, un personaggio reso cinico dagli eventi, ma che in fondo si è perso al pari degli altri. E poi, la semplicità non è la scienza dell’apparenza?
“Cinema Cielo” procede così tra i singulti di una storia intessuta di minimalismo linguistico, che però sapientemente dosato e impiegato è un valore aggiunto, dove il tono nella sua voluta ridondanza drammatica finisce quasi per divenire neutro fino a stridere, di stridore anch’esso voluto, con il tono assolutamente grigio, medio e ripetitivo che si ritrova tra i posti ormai consunti del cinema porno.
Divin lentamente e metaforicamente si allontana, sfuma in un’atmosfera che definirei anti-rappresentazionalista per lasciar spazio al personaggio risolutore di “Cinema Cielo”: Nostra Signora dei Fiori. Credo che sia possibile ritrovare in Nostra Signora dei Fiori il punto archimedeo dello spettacolo di Manfredini. Lei sembra costituire il reale momento di sintesi tra Mignon e Divin. A lei appartiene tutto il cinismo, finanche la disumanità per uccidere un cliente vecchio, come pure la capacità di riflettere, di difendersi dalle accuse di omicidio e di lasciar percepire a noi spettatori il freddo interiore che si prova davanti alla ghigliottina. Di nuovo, il suo minimalismo linguistico è quanto di più represso si possa immaginare, ma la mancanza di amore e l’abbandono di questo mondo da parte di Dio continuano a costituirne i correlati logici. Nostra Signora dei Fiori è vittima di un processo classista e forcaiolo, e senz’altro tanto più forcaiolo quanto più ad esser giudicato non è tanto e solo un omicidio, ma un omicidio compiuto da un transessuale che si prostituisce, la condanna, pertanto, non può che essere a morte e compiuta in modo classista. L’impatto è pesante, radicale, intonando in modo flebile una canzone Nostra Signora dei Fiori è sacrificata alle ragioni di un diritto che, almeno in questo caso, non conosce ragioni.
La sala sprofonda nel buio, mentre al riaccendersi delle luci un Cristo sulla croce si trova al centro della scena, la lontananza da Dio viene così a convivere con la vicinanza di Nostra Signora dei Fiori con la sorte di Cristo. Il sotto testo dissacratore, che ha fatto da sfondo a tutto lo spettacolo, quasi si scioglie in blasfemia, poiché Nostra Signora dei Fiori ha pur sempre ucciso un uomo, ma, sebbene possa apparire un’obiezione non peregrina, essa non apparirebbe congrua con i registri semantici su cui l’opera di Manfredini sin dall’inizio ha voluto richiamare la nostra attenzione, Cristo, al pari di Nostra Signora dei Fiori, ha fatto la fine che spetta ai reietti, è stato ucciso senza alcuna complicazione, e pure in modo da far scempio del suo corpo. Entrambi vivono il mondo come l’esito fisico e concreto di una caduta. Nostra Signora dei Fiori è caduta da quando è nata, è caduta in quanto transessuale, è caduta, quindi, poiché sin da subito alla sua vita sono state poste limitazioni, contrasti, improvvisamente ed impercettibilmente incancrenitisi. Tutto per lei esplode all’improvviso, come a testimoniare la perenne castrazione di cui Nostra Signora dei Fiori è vittima, castrazione degli affetti e disperazione economica che la portano ad uccidere un uomo. La caduta sembra stare in questo climax che s’innesca e agisce nella sua esistenza; ma in fondo è caduta per tutti, caduta per i disperati che non vediamo, come pure per quelli che sono sulla scena. La caduta è così precipizio per ognuno dei reietti di “Cinema Cielo”, e però anche per quel Cristo mostratoci, quasi fosse un emblema, sulla croce mentre chiede al Padre perché lo abbia abbandonato.
Il cerchio si chiude sul Cristo e con il Cristo in unione ideale con il destino non solo di Nostra Signora dei Fiori, ma pure di Divin e Mignon. È questo il legame che unisce tra loro gli esclusi nell’assordante silenzio di un Dio che ha lasciato agli uomini, e quindi a suo figlio, la caduta là dove lui stesso è assente. In un simile universo non possono che rimanere uomini trasformati in manichini all’interno di un cinema, divenuto ormai rifugio, dove le sole immagini che trovano spazio sono quelle consunte offerte dalla serialità di un film porno. Nel frattempo la vita scade di significato, tramutandosi in serie di passaggi, passaggi continui che ogni volta degenerano nei tic disperati di una Passione che a Cristo sembra voler sostituire ogni volta una nuova Nostra Signora dei Fiori.