Già al centro di numerose collaborazioni con prestigiosi nomi del panorama musicale italiano ed europeo (Massive Attack, Pino Daniele, Orchestral World Groove), Raiz, artista poliedrico, ritorna sul palco di Monfalcone in occasione di “Konzert-Racconti in versi e musica”.
Sarah Gherbitz (SG): Com’è avvenuto il tuo incontro con Luigi Cinque e quali sono state le tappe principali della vostra collaborazione?
Raiz (R): L’incontro è avvenuto grazie al fatto che siamo musicisti e frequentiamo un ambiente comune. Luigi un giorno mi ha chiamato, pensava che la mia voce fosse adatta per della musica che aveva scritto, io ci avrei dovuto mettere la voce e i testi.
Abbiamo lavorato per la prima volta insieme ormai già quattro o cinque anni fa: era il 26 dicembre 2001, il giorno di Santo Stefano, in occasione del concerto “Il respiro del fuoco” all’Aracoeli di Roma, una chiesa vicino al Campidoglio. Poi abbiamo fatto una piccola tournée dedicata alla musica sacra nella sua accezione più laica, ovvero il desiderio del sacro, la spinta dell’uomo verso il sacro, senza particolare riferimento ad una religione piuttosto che a un’altra.
Nella tournée si sono incontrate diverse voci del Mediterraneo, un fantastico cantante di tradizione sacra ebraica, un cantante marocchino per quanto riguarda la tradizione islamica.. e poi c’ero io che sono un “bastardo” perché sto in mezzo a tante cose e m’interessano tante cose: oggi mi definirei un cantante mediterraneo e basta! Così quindi è cominciata la collaborazione con Luigi.
Poi siamo due persone molto duttili e molto influenzabili, nel senso buono del termine: cioè siamo due persone dotate del sano beneficio del dubbio, ci facciamo, per l’appunto, influenzare, “contaminare”, e quando sentiamo una musica interessante cerchiamo di interpretarla a nostro modo. Questo è un tratto del carattere che abbiamo in comune: i musicisti, anche se provengono da ambiti diversi, quando hanno questa attitudine all’apertura, possono senz’altro dialogare, come abbiamo fatto fino adesso io e Luigi, e spero di continuare a farlo.
SG: Franco Cassano, l’autore de Il pensiero meridiano, scrive: “Il confine non è il luogo dove il mondo finisce, ma quello dove i diversi si toccano e la partita del rapporto con l’altro diventa difficile e vera”. Qual è la tua interpretazione del multiculturalismo?
R: Oggi viviamo un momento veramente difficile, nel senso che il multiculturalismo è visto fondamentalmente come globalizzazione, è l’appiattimento di tante culture rispetto ad un solo e unico modello dominante. Per dirla con una metafora alimentare, il nuovo multiculturalismo ignora le diversità del cibo del mondo, come se fossimo tutti quanti seduti davanti ad un panino di McDonald’s. Come se fossimo tutti uguali perché dialoghiamo davanti a questo panino, alla fine ce lo mangiamo tutti e quindi è un tratto comune di tutti.
D’altronde, pensare il contrario ti può far ricader nel particolarismo più sfrenato: rifiutare il globalismo, la globalizzazione o, come viene detto altrove, il mundialismo, significa arroccarsi su campanilismi ormai vecchi.
Si tratta quindi di far dialogare le culture in maniera attiva e approfittare anche degli elementi che le fanno scontrare; comunque meglio un sano scontro che ognuno a casa sua anche perché il destino del mondo si gioca proprio qui. Quindi, direi oggi più che mai che i confini si muovono, il multiculturalismo è importante solo se interpretato come un arricchimento. Per tornare alla metafora alimentare, laddove oggi il multiculturalismo è la globalizzazione, ovvero l’appiattimento davanti allo stesso panino di McDonald’s, io sono per il condimento del riso basmati con ragù napoletano e pane arabo…
SG: A proposito di ragù napoletano, le tue radici stanno a Napoli, poi hai affrontato diversi spostamenti… Ma quanto ti senti ancora legato alla tua città d’origine?
R: Sono molto vicino a Napoli, ma anche molto lontano, nel senso che per me essere napoletano è più un sentimento (come dice Pino Daniele) che una situazione di fatto. Infatti io oggi mi sento un po’ spossessato rispetto al passato, diciamo che resto attaccato a delle cose di Napoli che non esistono più in quel luogo; sento di appartenere alla cultura napoletana, che è poi la cultura dei migranti, la cultura dell’apertura, della solidarietà, la cultura di accettare e mai rifiutare, quella per intenderci della città porosa che descriveva Walter Benjamin… insomma, Napoli è la spugna che assorbe, assorbe, assorbe senza mai rifiutare. Napoli è stata così in passato, oggi non lo è più! Evidentemente è una città sempre più cinica, moderna forse, cattiva con tanti “pro” e tanti “contro”.
Io non sento più di appartenere a quel luogo. In qualche modo sono ancora un sognatore, faccio della musica che fa sognare, scrivo delle cose che fanno sognare, perché il mondo, quel mondo a cui sento di appartenere non è un mondo che vedo. Quindi sono di questa terra, ma contemporaneamente non sono di questa terra!! (Sorride, nda)
Scherzi a parte, il mondo di cui parlo è un mondo che mi piacerebbe vedere realizzato, è un sogno più che una realtà. La “mia” Napoli fa parte di questo sogno, e quindi uso il dialetto non come segno di appartenenza ma appunto come bandiera bianca, come bandiera di cittadino del mondo. Il mio napoletano non esprime “napoletanità” perché cerco di coniugarlo sempre ad altre musiche, ad altre culture; quasi nel tentativo di dimostrare che se il dialetto di un piccolo posto del mondo riesce ad entrare in dialogo con il resto della musica mediterranea, o con quella indiana, quindi se si va d’accordo sul pentagramma, allora tutti noi potremmo vivere in uno stesso mondo senza guerre, senza togliersi l’uno le cose dell’altro: questo è il mondo che mi piacerebbe vedere, e che naturalmente non c’è!
SG: Com’è scaturito il tuo interesse nei confronti della poesia?
R: Dobbiamo risalire all’infanzia! Il mio amore per la poesia e per la letteratura è la molla che mi ha spinto a scrivere le canzoni… io vedo tutti queste modi d’espressione come facce della stessa medaglia, come un solido con molte facce. Anche fare l’attore, interpretare un personaggio in un film per me è come interpretare una canzone… è chiaro, ci sono delle cose che so fare di più e altre che ho soltanto provato e quindi le so fare di meno, ma credo, spero di poterle fare meglio in futuro… ho fatto anche teatro e un po’ di cinema… Ecco, vedo l’espressione artistica come un fiume la cui corrente viaggia in un’unica direzione. Non distinguo tra il mio essere attore, oppure il mio essere interprete di canzoni o di poesia. Per me ciò che conta veramente è il mio essere interprete di un qualcosa, del sentimento che hai dentro e che lasci andare.
SG: Progetti futuri?
R: Durante l’estate, ho raccolto e lavorato molto con tante persone. A parte Luigi, ho fatto dieci concerti per un progetto che si chiama Gizmo, alla batteria c’era Stuart Copeland, l’ex batterista dei Police. Poi ho fatto un disco con Bill Laswell che uscirà l’anno prossimo, infine ho lavorato molto con Teresa de Sio: ho fatto dei concerti con lei perché abbiamo scritto una canzone insieme! Teresa, di tanto in tanto durante il suo tour, mi ha chiamato e mi ha chiesto se volevo partecipare a qualche concerto e io mi sono, come dire? arricchito!! è come se avessi acquisito dati per poter fare poi il mio disco, sto per entrare in studio… Sì, tutto questo per dire che sto per fare un altro disco che uscirà forse la prossima primavera, comunque sicuramente nel 2006.