Ivan amija, nato nel 1976 a Zagabria, si è laureato in Ingegneria della Biologia molecolare. Ha pubblicato su diverse riviste letterarie e culturali (“Vrisak”, “Quorum”, “Vijenac”, “Republika”, “Konture.com”, “Knjigomat”). Come parte del progetto Babylonia gli è stata pubblicata on-line e su CD-ROM una silloge bilingue (croato / italiana) Cupolecielo. La stessa è stata edita con lo stesso nome Kupolenebo dalla casa editrice AGM di Zagabria nel 2003. Il racconto Babilon Nevada è stato inserito nell’antologia letteraria Zagrijavanje do 27.
“Solo il sangue, e il ricordo del sangue impegnano ”
Toma alamun, Le tavole dei manichei
Non scriveremo poesie dopo Auschwitz
No!
No, non riempiremo i vuoti del reale
di api dentro l’ambra,
una sfera arancione scioglie il pacifico, ti amo
con i pastelli di Wog-Kar-Wai
declinare i pronomi personali
con la penna stiracchiare i fili della bramosia
sull’emulsione fotografica
delle città perfette di Bauhaus
la cui funzionalità richiama
il grande mattatoio e i campi di concentramento,
e i sostrati strappati delle strette calli
che desideriamo ardentemente perché rappresentano Italia,
perché li possiamo toccare come la pelle e la pietra,
perché ci invitano ad indagare,
con la foschia salata, arancione e calda,
a scendere sottomare e
invocare la seconda persona al singolare
è solo il traslato di uno stomaco rattrappito
e, in fondo, profuma di vomito
Perché, se le spiagge giacciono sotto l’ asfalto
Non le scaveremo con gli spettacoli
sulle neuro-solitudini di un cervello disinnescato
sullo schermo dell’oscilloscopio
(seno, la onda della nostalgia, coseno
[ della brama, tangente della juissance)
Crediamo di più nel sangue
tolto all’ambiente naturale
dai manganelli della polizia di uno stato benestante
La gioia del comunismo
va danzata attraversando le barricate,
dal profondo dei polmoni spirare nelle vene dei rizomi,
scuotere la terra che produce da sola,
senza padre, senza morte
Perché, se vuoi pronunciare velocemente Dio,
il posto giusto è la sedia elettrica dello stato del Texas,
mentre opponi resistenza alla corrente
che attraverso gli schermi colorati
assopisce con le onde di Prosac
la fantasia delle casalinghe
e vende a loro “Happiness” lacca per i capelli
e “Bonheur” concime per il prato della casa,
perché questa è la metonimìa della felicità
in un regno che non permette la trascendenza
e i cui confini sono rivolti sempre all’interno
(Traduzione a cura di Marijana Sutic Pavlicevich)
Maria Valente è nata a Capua nel 1978; studia Lettere Classiche all’Università degli Studi di Napoli Federico II. Come performer, ha vinto il primo Trieste Poetry Slam (dicembre 2005).
Le mie petrose stanze
Straniero vento che non m’hai piegata
a risuonarmi l’albaspina a oltranza
straniero il tempo come quei giganti
su cui siedo a impostura dello sguardo
Straniero il fianco e il laccio che ritarda
il gesto la caduta provocata
perché scontassi tutto il mio peccato
di sostare anzi tempo un po’ evasiva
come chi sa che è solo di passaggio
ed è straniero alle sue stesse mani
come le mani agli occhi. Alla deriva
d’ occhi mi conducono le mani
che liquide in giumella mi tradivano
le spinte le barchette gli origami.
Ma mi ostinava un’alba perentoria
la tua fiducia ingenua e abbandonata
le nude braccia infanta della vita
senza difetti avvolta nel vestito
fino ad assumere la posa della spiga
stordita a troppo sole la premura
nel porgere obtorto il collo al vomere
tu m’insegnavi a cedere con cura
le resistenze a pazientare doma
l’attesa che smiracola sul muro.
Tu m’insegnavi ad esser quella pietra
che è docile all’attesa ad esser soffio
che preme sopra i passi, e dentro agli occhi
tu mi premevi come pietra e pianto.
La discrezione che rasente il muro
m’additavano gli schiaffi sopra il viso
la risposta concisa del tuo dito,
sul labbro, o Angerona, al mio stupito
implorarti per piacere un buon motivo.
E quanto piansi, mamma, le tue spalle
smarrite le tue gambe sulle scale
quanto cercar parole di tralice
sbirciando tra le imposte tue accostate
quante rinunce ad essere felice
perché tornassi indietro per cercarmi
L’amore sconosciuto l’ho inventato
per ridere alle spalle di qualcuno
talmente sprovveduto da cascarci
l’amore che facevo sempre finta
l’ho fatto per molestia o per ripiego,
l’amore- mamma — che non t’ho mai detto
si vendica ed è un masticare vetro.
Non ho imparato ad ingoiar radici
non m’hai insegnato a cogliere gli umori
non ho saputo mai guardarti dritto
negli occhi per contarti i girasoli
ma solo rinfacciarti il mio conflitto
l’amore mi precipita il supplizio
di pietra al collo e storpio d’un pelopide
l’amore che umiliasti io fui e deforme.
Le rose che ho annerito nel carbone
pungendomi negli occhi quelle spine
di rose nere e notte senza fine
ti chiedono se posso- ti prometto
solo stanotte mentre sfuma ad libitum-
posso dormire, mamma, nel tuo letto?
Silvestar Vrljic, nato a Zagabria nel 1976. Finora ha pubblicato due libri di poesia: Dok sam bio iv / Mentre ero vivo (edito da lui stesso nel 1996) e Magmaticna mjesta / I luoghi di magma (Jurcic Editore, 2001). È stato redattore di “Vrisak” (Grido), rivista del circolo letterario SC (Centro Studentesco). Organizza e conduce le serate di poesia all’ART NET CLUB di Zagabria. Scrive anche prosa e si occupa di critica. La sua poesia è stata pubbicata sulle riviste “Quorum”, “Vijenac”, “Hrvatska revija”, “Republika”, “Hrvatsko slovo”, “Album ed Ars”.
Il palmo vuoto
1.
È quello che ti stavo dicendo.
Ci spostiamo senza abbandonare questo posto
dal quale, con le mani immerse nella polvere,
volgiamo i nostri visi alle parole.
Ad alcune non puoi semplicemente dare
importanza.
Pensi: Le pronunci, però stai solo aprendo la bocca
spaventando le piante domestiche. Come il tram
che scarica i passeggeri.
Come il palmo vuoto.
2.
Ed i palmi vuoti finiscono sempre sul viso.
Ti opponi a questo, abbandonata alla finestra
e a qualcosa che ti sta guardando da fuori.
E ti attrae.
Vorresti viaggiare ed io non ho voglia di andare
da nessuna parte.
3.
Voglio rimanere qua perché seguo difficilmente
i tuoi sogni. Perché allora
nessuno ci rimarrebbe, a dar da mangiare al gatto.
Guardandoti
mi sembra di crescere. Da qualche parte, là,
nella direzione del muro. In realtà da nessuna parte.
In realtà non cresco.
4.
In realtà tu ti disperdi.
Diventi la parola che taccio, un ritratto vuoto.
Come quel Seder appeso, già da mesi
nel corridoio.
Avevi sempre del buon gusto.
I quadri appesi sul muro sono la tua specialità.
Ecco, così ci siamo incontrati!
Al mercato, accanto alle arance a buon prezzo.
5.
La cornice della finestra ti sta bene.
Il vaso da fiori è mio amico, e tu vorresti viaggiare.
Tu che hai petto da sibilla sfuggi abilmente
l’aspro fumo della sigaretta.
(Ne hai comprati due pacchetti, stamattina.)
6.
Eppure,
quello che ti sta meglio, è lo specchio. Esso da te
non chiede niente di superfluo. Nessun pensiero.
In esso sei completa, perché
è un’ immagine dove non sono presente.
Dici, ho voglia di viaggiare, per esempio,
a Capri. Oppure al Vaticano:
lì anche le arance profumano di santi.
Io voglio soltanto sognare. Non lo so,
i girasoli, per esempio.
Quelli di Van Gogh
(essi si girano, sai, come il palmo vuoto).
(Traduzione a cura di Marijana Sutic Pavlicevich)
Thomas Nispola, nasce a Marsiglia il 1 ottobre del 1979. Cresce in un paese di campagna del dipartimento degli Alti Pirenei. Alla fine delle superiori, viene scelto per rappresentare il suo liceo alla Garden Party del 14 luglio al Palazzo dell’Eliseo. Sarà per lui l’occasione di farsi una bella magnata a scrocco e di vedere quanto brutti e stupidi possono essere i ministri della Repubblica. In quell’occasione però, viene rapito dagli agenti del Ministero della Giustizia e costretto a studiare legge per due anni a Marsiglia.
Nel 1998, durante un permesso, assiste alla finale dei Mondiali Francia-Brasile e abbaglia con una penna laser il portiere brasiliano sul primo gol di testa di Zidane. Grazie a questo, ottiene il trasferimento alla facoltà di giurisprudenza di Pau, Pirenei Atlantici, reputata meno severa.
Nel 2000, conclude il suo quarto anno di studi alla facoltà di scienze politiche di Tolosa, in un regime di semi-libertà che gli consente di citare Rimbaud o il gruppo rap Assassin nei suoi compiti di “Sistemica sociale”.
Scappa poi dell’università grazie a complicità esterne e si dà alla macchia.
Da allora, è stato avvistato nei mercati orticoli della città di Tolosa, in Messico, in Guatemala, nonché in un albergo 5 stelle alla guida di numerosissime macchine di lusso.
Nel 2003, si viene a nascondere in Italia, dove svolge un Servizio Volontario Europeo a Porto Sant’Elpidio (AP). Da lì, si sposta a Trieste, dove studia e lavora fino al 2006.
Durante i suoi anni di studio in Francia, è membro del gruppo rap “La Césure” col quale dà vari concerti, finché deve lasciare i suoi compagni per fuggire alle autorità e ai principi dell’ordine.
Dimmi che progrediamo
Dimmi che progrediamo amico mio
Dimmi che progrediamo
E anche se, quaggiù, senza tregua, la parola dei saggi-sognatori va via col vento
Dimmi che hai speranza
Dimmi che hai speranza
Dovremmo tutti morire ogni tanto
Ci cambierebbe le idee
Cosa facciamo a parte trascinarci in giornate inutili
E compiacerci nella tirannia della routine?
Guarda la miseria profonda che da ogni nostro gesto salta fuori
Incluso il sesso
Meccanico
Di cui ci lusinghiamo, chiudendoci persino quelle porte
Io, vorrei stare più a lungo dalle parti di quelle fughe,
Sai, quello che si intravede, come vaghi ricordi,
Dietro l’angolo dei presentimenti della Marijuana
Prolungare le meraviglie del prima di un risveglio
Il piccolo éveil del sogno
L’ampia liberazione di una deriva
361 gradi verso il meglio della nostra natura
Verso ciò che celiamo e che una cesura ci svela
Verso l’intelligenza semplice e perduta
Virtù dell’infanzia
Seppellita sotto le nostre evidenze
Dimmi che progrediamo amico mio
Dimmi che progrediamo
E anche se, quaggiù, senza tregua, la parola dei saggi-sognatori va via col vento
Dimmi che hai speranza
Dimmi che hai speranza
Babilonia ha venduto di tutto
E soprattutto anime di uomini
Lo stress in pieno boom, sintomo di una miseria
Un mondo in nevrosi, in necrosi,
Che si amputa senza scrupoli dagli elementi insolvibili.
Che cosa? è guerra
Economica, ed io sono un soldato?
Il padrone sbarca nel magazzino per dirci questo?!
Ci vogliono docili e maneggevoli
Lasciando il nostro destino fra le mani di una casta di maniaci
Sembra che funzioni
Guarda un po’ il branco che si segue da vicino
Col timore di farsi notare
Fottuta paura di sé, paura dell’Altro
Fottuta pigrizia
Paura di un nuovo sguardo,
Di ciò che potrebbe far cambiare
Perciò farebbero la pelle allo straniero
Guarda quanto tralasciamo per un po’ più di comodità
Guarda tutto ciò che ci zavorra
E ci ferisce nell’immaginario…
Sciatto destino quando il passato si legge negli scontrini
E il futuro negli abbonamenti
Ma che cosa succede se smetto di correre
Stacco la mia testa
Riattaco la mia testa
E mi guardo intorno?
Mille e uno sconosciuti passano
Mille e uno sconosciuti passano
Mille e uno sconosciuti passano
Mille e uno sconosciuti passano
Mille e uno sconosciuti passano
All’ultimo stillo la constatazione dell’ebetudine
Non ce l’ho con nessuno
O quasi
Perché l’affetto
E’ l’abitudine