Luigi Cinque, uno dei compositori più attenti alle nuove tendenze della musica contemporanea in Italia, è anche un sensibile interprete del multiculturalismo e della frontiera dei linguaggi. Protagonista per “Absolute Poetry” di “Konzert, racconti in versi e musica”, ci racconta della sua ricerca professionale ed artistica, frutto di un’appassionata sinergia tra scrittura musicale, poesia e linguaggio video.

Immagine articolo Fucine Mute

Sarah Gherbitz (SG): Com’è nata l’idea dello spettacolo di questa sera, “Konzert”?

Luigi Cinque (LC): Penso che Raiz, che conosco da tempo perché è stato una delle voci più importanti della musica italiana degli anni Novanta, possa venire considerato in senso compositivo come un grandissimo sciamano. Lui ha alcune qualità in scena, fra cui quella di riuscire a interpretare il suono contemporaneo, italiano, di questo momento, di una generazione che non è più giovanissima, che però non è neanche invecchiata ma è consapevole. E quindi ha una voce che se usata in un certo modo, o “autousata” perché certe volte lui in scena ha anche totale autonomia di improvvisazione, riesce ad essere dentro a stili diversi, dal jazz al rock, ma anche alla musica più industriale. E dall’altra parte, riesce a comunicare anche un’emozione, che è il motivo per cui io l’ho chiamato all’inizio, che costuisce un forte richiamo alla dimensione del sacro, alla sacralità.

Adesso abbiamo anche cominciato a realizzare una formazione più ristretta, come quella di questa sera: ci sono due voci in scena che sono Raiz e Shafqat, che è un cantante rock pakistano ma anche un grandissimo conoscitore della musica classica indiana, se pensate che un cantore di raga [*] ne deve conoscere seimila prima di poter essere considerato un buon cantore…

E quindi sul palco c’è questa relazione di elementi che sono simili, due cantanti rock con una grande coscienza, una grande capacità di interpretazione, e che risultano simili anche se fra loro c’è una grande distanza, una distanza di diecimila chilometri. Questo dà un senso di contemporaneità e, se volete, anche di globalizzazione già avvenuta, esistono elementi comuni in posti anche lontanissimi. E poi allo stesso tempo c’è una tessitura, questa sera, organizzata da un pianismo jazz di tipo europeo, molto raffinato, molto ritmico e una musica elettronica. Tutto quest’insieme è una performance di musica, parole, poesia, e immagini.

SG: Lei ha iniziato a sperimentare il cross over musicale negli anni Settanta. Cosa ricorda di quell’esperienza?

Immagine articolo Fucine MuteLC: Alla fine degli anni Settanta, all’inizio degli anni Ottanta era importante praticare la contaminazione perché questo era un fatto libertario, eversivo dal punto di vista dei linguaggi. Oggi praticare la contaminazione è, io credo, abbastanza ridicolo perché siamo tutti contaminati: quindi la contaminazione in realtà non esiste più. Tutti quanti noi, sia che facciamo i musicisti o i cuochi o i falegnami, dalla mattina alla sera ascoltiamo messaggi diversi, musiche diverse, linguaggi diversi, mangiamo cibi diversi che sono cibi non più articolati su un cibo regionale… ma appunto abbiamo il riso basmati e allo stesso tempo il cous cous e poi il wurstel. Tutto questo insieme ci fa essere sempre e comunque contaminati. Quindi il problema a questo punto non è stabilire se il multiculturalismo, il multilinguismo o la contaminazione siano “giusti” o meno. Io pongo il problema di come uscire da questa situazione, che c’è ed è innegabile che ci sia, e possibilmente farlo attraverso dei linguaggi nuovi. Probabilmente questi linguaggi si trovano, per cominciare, nella relazione tra gli stili, il jazz, la musica contemporanea e l’acquisizione del mondo etnico, e poi sicuramente la poesia, e quindi il recupero della parola poetica in scena, e anche il segno cinematografico… tutto questo se messo insieme, rimescolato in un certo modo,e con la coscienza di essere contaminati, forse ci può dare un nuovo linguaggio.

SG: Insieme a Lello Voce, direttore di “Absolute Poetry”, avete fatto un viaggio in Sicilia. Di che cosa si tratta?

LC: Abbiamo fatto un viaggio in Sicilia all’interno di una manifestazione che chiamava degli scrittori importanti i quali avevano la possibilità di scegliere in quale posto esibirsi e incontrare il pubblico. A noi è capitato Paco Taibo II, uno scrittore spagnolo che vive in Messico, quindi ormai messicano, e con lui abbiamo fatto una serie di interventi in posti che lui aveva scelto come luoghi di grande “elettricità” sociale. Per esempio Gela, che è un luogo della Sicilia completamente deturpato da un’ industrializzazione selvaggia, quindi ormai un luogo senza un’anima ben precisa, un luogo di violenza, insomma un luogo con tutte i peggiori luoghi comuni della Sicilia, è comunque un luogo di grande sofferenza e di grande inquinamento.
E lì Paco Taibo è riuscito a relazionarsi col pubblico, facendo un paragone tra quella zona e le zone dell’America Latina con gli stessi problemi e costruendo su questa analogia il soggetto per uno spettacolo in tempo reale in cui Lello Voce leggeva i testi, io suonavo, e così via.

SG: Lei ha fondato il festival “Romapoesia”e tra i suoi maestri c’è stato Pasolini…

LC: Be’, innanzitutto voglio precisare che io ho avuto tra i miei maestri Pasolini come moltissimi italiani europei, c’è stato un periodo in cui lui è stato un punto di riferimento culturale molto preciso che è mancato molto quando è morto. Se uno pensa alle vicende italiane è mancata quella voce fuori dal coro che riusciva a centrare una verità anche nascosta delle cose. In più mi è successo anche di averlo come maestro di una serie di corsi sul cinema e sulla letteratura, quindi in qualche modo ho avuto anche una leggera vicinanza maggiore di tanti altri che comunque lo ritengono un maestro.

Per quanto riguarda “Romapoesia”, è un festival che ha raccolto una tradizione molto presente a Roma dove sussiste una tradizione poetica di festival molto forte: nei primi anni Settanta, noi eravamo abbastanza giovani, giovanissimi, ci fu il festival di Castelporziano, di cui ancora si sente molto parlare. Su una spiaggia di notte furono radunati tutti i più grandi poeti del mondo, da Ginsberg, Burroughs, a tutta la beat generation ancora vivente, tutti i poeti del nord Europa e i poeti africani. Questo scatenò una “febbre” poetica perché una massa enorme di pubblico, credo venti o trentamila persone, i giovani soprattutto, si riversavano su questa spiaggia ad ascoltare delle letture con i fuochi accesi, la notte, il mare… E questa è stata una linea di demarcazione, perché con quell’evento si è riaffermato una specie di bisogno forte di poesia, di significato della parola, soprattutto nel mondo giovanile. Questa tradizione è continuata, per cui le manifestazioni dedicate alla poesia a Roma trovano sempre un gran riscontro di pubblico. Noi abbiamo fatto “Romapoesia”, che è arrivato alla settima edizione, in cui abbiamo centrato un obiettivo che non è la lettura semplice. Bensì quello di andare a riscoprire la grande possibilità della performance, dell’oralità, quindi della parola detta e non scritta, della parola che è anche la voce e quindi l’interiorità del poeta che si esprime in scena; quindi siamo nello spettacolo, siamo nell’intrattenimento, e subentra quindi la relazione anche con altre arti. La parola come suono innanzitutto, prima che come significato, la parola quindi è accoppiata alla musica, la parola accoppiata alle arti visive… Insomma, la grande “amicizia” che riesce a fare la poesia con tutte queste arti contigue.

Immagine articolo Fucine Mute

SG: Lei ha diretto diversi documentari. Che cosa ci può dire sulla sua attività di documentarista?

LC: Ad un certo punto, i miei viaggi come musicista ma anche come persona curiosa hanno sentito la necessità di raccontare gli incontri che avvenivano con molti musicisti o compagni di viaggio brasiliani, africani, australiani, europei eccetera… e di raccontarli con un linguaggio che potesse contemplare il tutto. Secondo me, al di là delle proprie capacità, il video in questo momento è la forma che, se curata nel modo giusto, riesce a mantenere integra l’emozione di un viaggio, di un road movie. Le mie esperienze di incontro con musicisti, avvenute in posti anche molto lontani, hanno creato delle relazioni culturali molto precise. Faccio un esempio, quando si doveva rappresentare la storia di un mito, abbiamo chiesto alle persone del luogo: “Nella nostra cultura c’è Ulisse, voi che cosa avete di uguale?”. Sono così venute fuori delle storie veramente interessanti, per cui scoprivamo che Ulisse, ovvero la sua “tipologia” di un eroe che fa la guerra, parte, attraversa migliaia di traversie, di vicissitudini prima di arrivare a casa, e poi finalmente ritorna… questa è una cosa che appartiene al racconto di tutte le culture, e tutto questo andava secondo me documentato con uno sguardo, per così dire, antropologico.