Il Libro dei vivi di Stefano Massari mette in scena una voce narrante sorella dei beckettiani Estragone e Vladimiro, una voce-calice offerta in sacrificio per tutti a testimoniare l’inautenticità del tempo corrente, fiume in perpetua guerra senza creazione: solo nel “primo / feroce legamento” la vita splende infatti nella purezza dell’annuncio, poi declina in “obbedienza e […] fallimento”, mentre “l’acqua delle madri è ferma”, sterile grembo soffocato da “guerra ovunque e […] ferro”.
Come i due sottouomini — pascolando in margine alla Storia — aspettano Godot, che liberi il tempo dalle catene della ripetizione, così Massari chiama in terra l’”iddio del giorno sordo” affinché battezzi il nuovo cammino dell’umanità, ma questi, a tutta risposta, manda il suo “maiale svelto”, quel servitore che, in Godot, altro non sa se non giustificare miseramente il ritardo del suo padrone. Ma al padrone, a tutti i padroni di tutte le sante guerre le sante fabbriche, “penzola dall’ano / un dio feticcio / disumano”; per questo la salvezza va cercata altrove, là dove ogni cosa comincia. È la Terra, infatti — “la perfetta” grande madre, la generatrice che, con giustizia universale, toglie e assegna un posto a ciascun essere — a venire invocata dal poeta, quale emblema della resistenza all’inciviltà delle umane sorti e progressive, sulle quali già Leopardi (qui profondamente metabolizzato sin nel respiro franto dei versi) aveva ironizzato nella Ginestra. Figlio di Hölderlin, di Hiroshima e degli angoli randagi di Piazza Maggiore, Massari prega, bestemmiando, che Dio ritorni, che finalmente la vita cominci (viviamo, scrive “come [se] fossimo nati”) e intanto moriamo “stanchi e calmi / vicini / chini a sperare / a combattere”.
Invero, per quasi tutto il libro, pare che il poeta abbia rinunciato alla lotta, ossessionato dalla morte, dalla bella Morte, pietosa tanto invocata dal recanatese, di cui Stefano lascia tracce continue: “dio / assassino mio”; “le nostre figlie [… ] ameranno / il loro padre estinto?”; “chi muore qui senza alcuna croce”; alla madre terra: “vengo a chiederti il morire”; “il mio assassino anziano”. Invocazioni spesso attraversate dalla biografia dell’io narrante, dove famiglia e vino si coagulano nella metafora doppia della casa-corpo e del corpo-casa opprimenti: “la casa di carne che ti stringe e ti costringe” dice a proposito del sesso dell’amata e, qualche pagina dopo, per parallelismo: “la casa ha vene calme / ma respiro caldo” (31). Ancora il respiro, che pare quello dell’animale in usta, tutto esposto e vulnerabile, simile alla volpe, “assassina e furba” ma che non conosce altro modo per “ammazzare”.
La caduta a precipizio, seguita con tragica trepidazione dal lettore, trova infine sorprendente epilogo nella promessa di resistenza al male, in nome della vita che viene: “perché mio figlio nasceva / e io non morivo / questa la fede più dura”: un ultimo guizzo generato dalla terra, dal caduco, dal sentimento politico che prende l’umano quando dona la vita e di questa decide d’esser responsabile, preparandosi a tenere “ancora aperte / le braccia”, malgrado intorno regnino maceria e fame.